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ArribaAbajoCapitolo Ottavo

Il teatro religioso


Gli autos sacramentales de El Divino Narciso, El Mártir del Sacramento, San Hermenegildo e El Cetro de José costituiscono tutto il teatro religioso di Sor Juana. Naturalmente vanno aggiunte a queste opere alcune loas, quelle stesse che introducono gli autos citati, e altre isolate, tra queste la Loa de la Concepción, rappresentata a celebrazione di Maria in casa di don José Guerrero, a Messico. Si tratta, come sempre, di una loa allegorica, in cui intervengono personaggi simbolici, la Devozione, la Scuola, il Culto, l'Intendimento, accompagnati dalla musica.

Il Méndez Plancarte ha datato questa composizione intorno al 1670 - 1675288. Sarebbe, quindi, la prima opera drammatica di Sor Juana a carattere religioso pervenutaci, tenendo ben inteso conto dei dati cronologici che possediamo riguardo alle altre opere, o che sono stati ricostruiti con buona approssimazione dalla critica289

Il valore della loa in questione non è molto, nè per disegno, nè per qualità intrinseche di ispirazione o significato. Benchè ben strutturata nelle scene, l'operetta finisce per trasformarsi in una delle consuete celebrazioni encomiastiche, di carattere superficialmente cortigiano, nei riguardi della famiglia del Guerrero. I concetti che la suora esprime appaiono triti e consunti, gli stessi che si succedono monotonamente nelle loas profane, rispondenti unicamente alla retorica più esterna del barocco.

Non vale, quindi, neppure, a salvare il valore dell'opera, l'abilità versificatrice di cui Sor Juana fa mostra, e che si manifesta nella consueta varietà di metri.

Del tutto diverso è il giudizio che si deve esprimere intorno alle loas che accompagnano i tre autos. Esse, infatti, manifestano chiaramente una loro ragione di essere quali parti complementari di un'opera drammatica più estesa, di cui, essendo l'auto il pezzo principale, la loa è la necessaria introduzione, una sorta di ouverture di alto livello artistico.

Nell'auto sacramental dobbiamo subito riconoscere che Sor Juana manifesta maggiore sincerità di ispirazione che non nel teatro profano. L'argomento sacro permette alla suora più libertà di movimento, senza timore di critiche e di censure; essa si sente libera di esprimere completamente se stessa, l'innato barocchismo, la tenerezza, la sua passione per la letteratura, pervenendo ad opere di alta qualità artistica. La grandezza di Sor Juana autrice drammatica sta più nel teatro religioso che in quello profano, e in esso è visibile il legame con la parte più sentita e sincera della sua poesia. Il che dà a tutta l'opera sorjuanina, contrariamente al cliché che si è venuto affermando, uno spiccato carattere religioso.

Con gli autos sacramentales Sor Juana innesta direttamente la propria opera drammatica su un filone abbondante e fiorente della letteratura ispanica, offrendo al tempo stesso, proprio per questo, una nuova e preziosa testimonianza del carattere del suo mondo, in cui il teatro religioso contava già su una tradizione affermata. Il momento barocco, dietro l'influenza di Calderón, veniva a rafforzare la tendenza religiosa nel teatro coloniale. Questa tendenza era sorta soprattutto per necessità di propaganda di fede, fin dai primi tempi della conquista. Gli ordini conventuali, ai quali spetta il merito dell'evangelizzazione, più o meno riuscita, delle Indie, vi ricorsero abbondantemente. Nei collegi fondati nella Nuova Spagna, soprattutto in quelli dei gesuiti, il teatro religioso fu in grande auge290. Il primo sorgere in Messico di tale teatro, appunto per le necessità propagandistiche cui rispondeva, manifestò immediatamente un carattere apparatoso e complicato, abbondando nello sfarzo delle scene e del vestiario. Primo obiettivo, infatti, era stupire gli indigeni, abituati allo sfarzo che circondava le loro divinità, al lusso delle loro feste e delle danze. La necessità della chiesa di inserire il culto delle divinità cristiane sulle preesistenti forme del culto indigeno, approfittando delle benchè minime somiglianze con quello cattolico, spiega l'importanza che finì per assumere anche il teatro nel suo aspetto più sfarzoso. Possiamo, anzi, affermare che fin dai primi tempi della conquista, proprio per questo motivo, il barocco si manifestò concretamente in America prima che sorgesse in Spagna, ereditando dagli indigeni caratteri che erano già barocchi. Le feste e le danze locali, il loro teatro primitivo, che si serviva per lo più di ampi scenari naturali, influirono profondamente sulle forme del teatro religioso coloniale. Se le rappresentazioni cattoliche volevano incidere profondamente sulla sensibilità dell'indio non dovevano apparirgli inferiori allo splendore con cui era solito vedere celebrate le proprie feste pagane. Di qui il fatto che anche la chiesa introducesse con frequenza nelle rappresentazioni sacre le danze indigene, per la loro spiccata nota di colore, quindi capaci di provocare immediata adesione da parte dei nativi. Anche la musica, assai diffusa presso gli aborigeni ed elemento indispensabile nelle loro festività, venne introdotta nel teatro sacro dell'America coloniale coi suoi tipici strumenti. Ma si andò anche oltre, accettando addirittura l'apporto linguistico delle popolazioni locali, in drammi bilingui, o talvolta anche esclusivamente in lingua indigena. Queste assimilazioni intelligenti di elementi locali costituivano un concreto punto di incontro affettivo tra i due popoli, quello dei vincitori e quello dei vinti. A questo mirava la chiesa.

Il padre Acosta, nella Historia Natural y Moral de las Indias291, ci offre interessanti descrizioni di balli e di feste degli indios. Queste descrizioni ci danno ragione dello sfarzo cui gli indigeni erano abituati; ognuno di essi vi contribuiva tirando fuori «las ropas más preciosas que tenían, y diversas joyas, según que cada uno podía»292. Che tali costumi e danze fossero adottati dalla chiesa ce lo conferma il medesimo autore, allorchè descrive un mitote cui assistette a Tepoztotlán, esprimendo piena approvazione per questa legittimazione di forme indigene fatta dal culto cattolico293. In tal modo, la presenza nativa entrava legittimamente nella scenografia religiosa cattolica in America e di essa si servì il teatro, cui recava una nota suggestiva e di effetto sicuro. In fondo, si trattava, anche qui, di un'efficace compenetrazione di cultura, che avveniva col favore della chiesa. Per questo mi sembra inesatto ritenere, almeno per quanto riguarda il Messico, che l'arrivo degli spagnoli abbia significato un violento arresto nello sviluppo della cultura indigena e la sua morte successiva. Un arresto indubbiamente vi fu, ma proprio per merito essenzialmente dei religiosi le forme della cultura autoctona non solo ci sono pervenute, ma sono penetrate profondamente anche nelle forme della cultura ispanica trapiantata in America, e non solo nella letteratura, ma anche nell'architettura e, in senso più ampio, in tutta la spiritualità del nuovo popolo che sorgeva dalla mutata situazione politica.

In questo senso, l'esempio di Sor Juana è illuminante. Essa accetta e difende le forme della cultura aborigene; nei villancicos, come si è visto, giunse persino a servirsi delle lingue indigene per la sua poesia. In lei questo è un modo concreto di affermare una messicanità che si impone come fatto personale, intimo, prima ancora che come allusione a una comunità di sentimenti nei confronti delle divinità cattoliche. Negli autos l'accettazione intelligente ed entusiasta della presenza culturale indigena, volta, s'intende, alle forme del culto cattolico, si manifesta di nuovo pienamente, legittimata e redenta dalla nuova religione. Nella loa che precede El Divino Narciso ci troviamo addirittura di fronte a una trasposizione di forme del culto indigeno in senso cattolico. Era l'espediente cui ricorreva la chiesa onde meglio far presa sull'elemento popolare. Certo non è possibile affermare quanto gli indigeni comprendessero della diversa essenza delle nuove divinità cui ora rivolgevano le manifestazioni della propria devozione. Precisamente per queste sovrapposizioni la religione rimase, in America, permeata di paganesimo, cui aggiunse il proprio apporto, in taluni centri, in epoche successive, l'immigrazione forzata dei negri.

Nella loa che funge da preambolo all'auto de El Divino Narciso, il culto indigeno al «Dios de las semillas», identificato con il Sole, da cui tutto procede294, viene sfruttato da Sor Juana per il suo fine religioso, quale punto d'incontro, cioè, con la concezione cattolica di Dio, origine di tutta la fecondità della terra. Se il «Dios de las semillas» è «un dios que fertiliza / los campos que dan los frutos», cui si inchinano i cieli e ubbidisce la pioggia, ed è colui che purifica dai peccati, quindi «se hace manjar», il Dio cristiano a maggior ragione rappresenta tutto ciò ed è anch'egli purificazione, cibo nella Santa Eucaristia.

Gli effetti operati da Dio ispirano alla suora uno dei passaggi più lirici della loa, quello in cui contrappone tali effetti concreti alle cieche credenze dell'Occidente, dando luogo a una poesia ricca di delicate sfumature:


...Pues si el prado
florido se fertiliza,
si los campos se fecundan,
si el fruto se multiplica,
si las sementeras crecen,
si las lluvias se destilan,
todo es obra de Su diestra;
pues ni el brazo que cultiva,
ni la lluvia que fecunda,
ni el calor que vivifica,
diera incremento a las plantas,
a faltar Su productiva
Providencia, que concurre
a darles vegetativa
alma295.



La storia e le ragioni, l'umanità della conquista spagnola e la sua legittimità, formano oggetto della loa, riassunte da Sor Juana agilmente. La furia dello «Celo» viene calmata dalla Religione che, in una «idea metaforica, vestita di retorici colori, rappresentabili alla vista», vuol dimostrare l'errata interpretazione indigena del vero Dio. Armata della dottrina di San Paolo e del suo esempio, quando ad Atene per sfuggire alla accusa di introdurre nuove divinità identificò il Dio cristiano con il «dio sconosciuto» venerato dagli ateniesi, la Religione decide di condurre l'America pagana al culto del vero Dio, valendosi dell'identità accennata. Di qui l'auto sacramental de El Divino Narciso, allegoria della Santa Eucaristia, presente in forme pagane nel culto stesso del «Dios de las semillas».

La loa e l'auto de El Divino Narciso furono scritti per essere rappresentati in Spagna, nella «coronada villa / de Madrid», centro della fede e del potere cui le Indie dovettero le luci dell'Evangelo, secondo dice la Religione. Obietta lo «Celo» l'incongruenza insita nel fatto che un'opera si scriva in Messico e si rappresenti a Madrid, facendo intervenire le Indie. La Religione risponde che la decisione di scrivere tale opera non fu idea «antojadiza», ma «debida obediencia / que aun a lo imposible aspira», e che le Indie rappresentano solo «unos abstractos, que pintan / lo que se intenta decir». Nulla disdice, quindi, a che esse siano portate a Madrid per celebrare il Mistero, «que en especies intelectivas / ni habrá distancias que estorben / ni mares que les impidan».

In questa discussione appare evidente la premura di Sor Juana di mettersi al sicuro dalle critiche, soprattutto per quanto riguarda la volontà di scrivere l'auto nel suo complesso, opera che giudica «rústica y poco pulida», ma che «de la obediencia es efecto, / no parto de la osadía». Tuttavia, nel disegno di introdurre le Indie quali spettatrici del Mistero e protagoniste al tempo stesso, si scorge ancora una volta la coscente messicanità della suora. Essa intende presentare viva alla Spagna la sostanza della sua terra, affermare la nobiltà della sua ascendenza e riscattarla alla luce del cattolicesimo. Nei versi iniziali della loa, cantati con accompagnamento di musica mentre si balla il tocotín, c'è in Sor Juana una evidente accettazione totale della grandezza della tradizione, nell'affermazione di una quasi divinità della sua gente, la cui presenza introduce con le caratteristiche del folclore, a meglio stupire il pubblico della capitale spagnola. Questa intenzione mi sembra rivelata anche dalla maggiore attenzione che Sor Juana dedica alla scenografia, al vestiario. L'inizio della prima scena è descritto minuziosamente, negli attributi con cui si presentano l'Occidente e l'America, vestiti il primo da indio «galán», l'altra da india «bizarra», mentre si svolge il tocotín. Nella scena seconda la suora dà, quindi, concrete note per rappresentare una battaglia di colossali proporzioni, quella della conquista. La scenografia sorjuanina si amplia e si definisce meglio nell'alto vero e proprio, in quadri di ampie proporzioni.

La scena prima del primo quadro si apre con un ampio panorama di ninfe e di pastori, che accompagnano la Gentilidad, mentre la Sinagoga, pure in veste di ninfa, è accompagnata da musici, e dietro viene, «muy bizarra», la Natura Umana. Nelna terza scena si aggiungono altri personaggi, Eco, ossia la Natura Angelica Reproba, la Superbia, in veste di pastora, e l'Amor Proprio, in quella di pastore. Si succedono poi, in una sorta di sequenza cinematografica296, le entrate dei carri allegorici, che rappresentano esempi biblici dell'ubbidienza a Dio e della sua giustizia e misericordia. Nel secondo quadro, scena quinta, il sipario si alza su uno scenario che colpisce per l'ampiezza: esso rappresenta un monte, su cui sta il Divino Narciso, cioè Gesù, e alcuni animali, mentre Eco, il demonio, va tentandolo. Il terzo quadro si apre su di un paesaggio «de bosque y prado», che ha a una estremità una fonte.

Come si vede, si tratta di uno scenario complesso, difficilmente realizzabile su un comune palcoscenico, per quanto ampio, perchè richiede presumibilmente l'ausilio di elementi naturali. Non sappiamo in qual modo El Divino Narciso fu rappresentato a Madrid, ma è fuor di dubbio che nel concepirlo Sor Juana aveva presente il teatro indigeno, gli ampi scenari delle rappresentazioni sacre quali si svolgevano nella Nuova Spagna. Si ricordi, a tale proposito, non solo quanto il Motolinía ha lasciato srritto intorno alla parte che avevano gli elementi naturali nella scenografia indigena297, ma in particolare l'interessante descrizione del francescano Alfonso Ponce, il quale visitando nel secolo XVI le Provincie del suo ordine in Messico rimase colpito da una festa celebrata dagli indios di Tlaxomulco il giorno dell'Epifania, in cui lo scenario si valeva anche di ciò che la natura offriva, dandogli un'ampiezza singolare298.

Dei tre autos, El Divino Narciso è quello che ha riscosso sempre maggiori consensi, a partire dal Menéndez Pelayo, nonostante egli mettesse in rilievo solamente le parti più spiccatamente liriche dell'opera, senza preoccuparsi del suo valore drammatico299. Attingendo profondamente alla Bibbia, Sor Juana fonde nel Divino Narciso le molteplici immagini dei testi sacri, il loro simbolismo e l'ardore religioso, il lirismo sincero che suscita in lei il Cantico dei Cantici, in una rappresentazione che rivela particolare vigore tecnico e un significato intrinseco di alta poesia religiosa.

In questo genere di opere appare logico il ricorso ai libri sacri. Questo è più che naturale per Sor Juana, data la sua condizione religiosa e la pratica inevitabile di ogni giorno. Ma ciò che avrebbe potuto rimanere fredda materia, attinta dall'esterno, si trasforma in opera di grande poesia. Parafrasando i testi sacri, i canti e i Salmi, fondendo le parabole evangeliche piegate ai fini di una rappresentazione drammatica, la suora conserva intatta la suggestióne ampia del loro messaggio spirituale, che scaturisce dalle parole più semplici, per mezzo delle quali le creature celebrano le lodi della divinità. La stessa traduzione, quasi letterale, di alcuni passi dei Salmi reca nell'opera sorjuanina il suo particolare fascino religioso, richiamo profondo all'uomo verso il divino. Così El Divino Narciso, aprendosi col verso del Salmo 116, «¡Alabad al Señor todos los Hombres!», ripetuto in varie forme per tutta la parte iniziale della prima scena, suscita un'atmosfera di religiosità intensa, in cui ogni creatura, ogni germinazione della natura, si inchina reverente a celebrare le lodi di Dio. Questa atmosfera si ripete alla fine dell'auto, allorchè la Natura Umana e la Grazia intonano il canto di gloria, il Pange Lingua, in una libera e suggestiva traduzione di Sor Juana:


¡Canta, lengua, del Cuerpo glorioso
el alto Misterio, que por precio digno
del Mundo Se nos dió, siendo Fruto
Real, generoso, del vientre más limpio!



Nell'auto de El Divino Narciso la mitologia è piegata «a lo divino». La diffusione della favola mitologica di Narciso conta numerosissimi esempi nelle lettere ispaniche e coloniali300. La fonte è sempre, come per Sor Juana, Ovidio301, ma la suora aveva presente anche la commedia mitologica calderoniana Eco y Narciso, cui in alcuni passaggi si rifà, traendone vari termini, e in pochi casi qualche verso o addirittura una strofa. Ce lo dimostra la scena V del primo quadro: il romance eptasillabo sorjuanino che inizia con i versi Bellísimo Narciso, riprendendo il racconto evangelico della terza tentazione di Gesù sulla Montagna302, presenta alcuni vocaboli, un intero verso e tutta una strofa tratti letteralmente dalla commedia citata di Calderón303. Non a torto, tuttavia, il Méndez Plancarte scrive che l'auto sorjuanino supera la commedia di Calderón per molte lunghezze, in tutti i suoi aspetti, sia per l'«armonioso y sostenido primor» della concezione e dell'esecuzione di tutto l'insieme lirico-drammatico, sia per l'alta bellezza delle diverse canzoni parafrastiche della Bibbia, sia per la «fúlgida elevación y grandeza y originalidad» dell'allegoria, che sublima a profondo simbolo dell'Incarnazione, della Redenzione e della Eucaristia ciò che in Calderón, come in Ovidio, era solo «una intrascendente historia romántico-fantasiosa»304.

In quest'ultima parte del suo giudizio il critico si lascia, evidentemente, trasportare dall'entusiasmo per Sor Juana. Tuttavia è una realtà che la commedia di Calderón, seppure non disprezzabile, non è gran cosa e manca, in sostanza, di quella misura e di quella poesia che invece danno vita al Divino Narciso in ogni sua parte e momento, fino a raggiungere vette altissime che lo qualificano tra la migliore poesia spirituale del Siglo de Oro.

Il mistero eucaristico trova la sua atmosfera ideale, per candore e purezza, la sua poesia più fresca, nel paesaggio, spiccatamente rinascimentale, di cui Sor Juana lo circonda, nel verde e nelle acque, che ripetono i suggestivi incanti delle Églogas di Garcilaso. Una poesia che si depura e sfuma sull'onda appassionata che si effonde da un'anima aperta alle meraviglie della natura, intesa come rivelazione prima e splendida di Dio.

Esistono nel Divino Narciso passaggi in cui l'accento sorjuanino, mosso dall'emozione che comunicano alla suora i testi sacri, assurge all'intenso palpito spirituale di un Fray Luis de León o di un San Juan de la Cruz. Il Cántico espiritual di San Juan è ben presente all'esperienza poetica di Sor Juana e alla sua sensibilità, allorchè parafrasa il Cantico dei cantici. Ma la sua poesia, anche qui, è di una originalità indiscutibile. Non si tratta, infatti, di traduzione o di imitazione, ma di ricreazione personale e intima degli alti accenti di poesia del Cantico dei cantici, solo possibile attraverso una genuina emozione, una ispirazione sincera. Sor Juana, inoltre, vi apporta una nota finissima di originalità, un più pudico ardore erotico, che sugge, depurandolo, dal Cantico dei Cantici e da San Juan. La sua poesia presenta, infatti, accenti appassionati, ma più limpidi, più puri, dimostrazione di una sensibilità delicata, in cui si esprime la condizione religiosa della suora, alla quale determinati accenti e taluni argomenti suonano troppo accesi o forse disdicevoli.

La canzone, in liras di sei versi, della scena VI, quadro terzo, che inizia col verso De buscar a Narciso fatigada, in cui la Natura Umana racconta il suo lungo errare alla ricerca di Narciso-Cristo, è forse l'esempio più efficace di quanto si è detto, soprattutto nell'ansia espressa di avvicinarsi a Lui, che attenua l'erotismo dei modelli, in puri accenti di desiderio spirituale:


   ¡Oh, mi Divino Amado, quién gozara
acercarse a Tu aliento generoso,
de fragancia más rara
que el vino y el ungüento más precioso!
Tu nombre es como el óleo derramado,
y por eso las Ninfas Te han amado.
   Tras Tus olores presta voy corriendo:
¡oh, con cuánta razón todas Te adoran!
Mas no estés atendiendo
si del Sol los ardores me coloran;
mira que, aunque soy negra, soy hermosa,
pues parezco a Tu imagen milagrosa305.



Già ho accennato al romancillo eptasillabico, Bellísimo Narciso, in cui, nel secondo quadro, scena V, Eco, o la Natura Angelica Reproba, sulla scorta del racconto evangelico della terza tentazione di Gesù sulla montagna, illustra la grandezza dei suoi possedimenti dicendosi disposta a cederli a Narciso-Cristo in cambio di un atto di adorazione. Nei versi di Sor Juana il testo evangelico si trasforma in armoniosa poesia, conservando intatta la sua grandezza originale, arricchita, però, dalla musicalità del verso e dalla delicata bellezza delle immagini. La suora dimostra, qui, quale attenta osservatrice fosse della natura, come sentisse la nota della sua poesia, che essa riflette nei più vari cromatismi. Naturalmente, il paesaggio che descrive è in parte riflesso delle sue letture, un paesaggio europeo, per così dire, arcadico, popolato di greggi, cosparso di fiori, denso di verde, ma anche acceso, talvolta, di colori messicani, le rosse spighe dei campi, le montagne ricche di minerali, «cuya preñez es oro, / rubíes y diamantes». Il mare le suggerisce note di cromatismi delicati, che affermano la propria originalità al disopra delle consuete immagini barocche:


Mira, en el mar soberbio,
en conchas congelarse
el llanto de la Aurora
en perlas orientales306.



La preziosità delle immagini presenta spesso fini effetti musicali, come allorchè riferendosi all'abbondanza e all'armonia degli uccelli, al loro contrappunto, dice:


Escucha la armonía
de las canoras aves
que en coros diferentes
forman dulces discantes307.



Le immagini della vita di ogni giorno acquistano valore attraverso il velo dell'immaginazione e si fanno trepida poesia:


   Mira de uno a otro Polo
los Reinos dilatarse,
dividiendo regiones
los brazos de los mares,
   y mira cómo surcan
de las veleras naves
las ambiciosas proas
sus cerúleos cristales308.



Nella scena VII del terzo quadro, le liras cantate dalla Grazia e dalla Natura Umana ripresentano, nella celebrazione dell'Immacolata, la musicalità sottile dei villancicos. L'avvio ricorda la cristallina fonte «que mana y corre» di San Juan de la Cruz309; ma qui la musicalità è data dal particolare metro e dal tetrasillabo posto tra due coppie di eptasillabi, l'ultima delle quali seguita da un endecasillabo che prolunga l'onda melodica della lira:


¡Oh, siempre cristalina,
clara y hermosa Fuente:
tente, tente;
reparen mi ruïna
tus ondas presurosas,
claras, limpias, vivíficas, lustrosas!310



A questi accenti della Grazia la Natura Umana risponde:


No vayas tan ligera en tu corriente clara;
pára, pára,
mis lágrimas espera:
vayan con tu corriente
santa, pura, clarísima, luciente311.



Con un senso di ingenua fede medievale nella Vergine, che richiama l'atmosfera del Milagros del Berceo, la Grazia continua:


¡Fuente de perfecciones,
de todas la más buena,
llena, llena
de méritos y dones,
a quien nunca ha llegado
mácula, riesgo, sombra, ni pecado!312



L'effetto di canto spiegato è reso anche qui, come in San Juan, ricorrendo a un'accentuata vocalizzazione, che dà un tono sospeso e trepido al verso, una tensione che è trasporto verso il divino.

Uno dei passaggi più delicati dell'auto si ha nella scena III, terzo quadro, dove rivive tutto il candore e la poesia della parabola evangelica della pecorella smarrita. Narciso-Cristo canta la perdita della pecorella, alla cui ricerca muove. Il metro impiegato -canzone in liras di quattro versi eptasillabi e un endecasillabo cantato- attesta ancora il raffinato senso musicale della suora:


   Ovejuela perdida,
de tu Dueño olvidada,
¿adónde vas errada?
Mira que dividida
      (Canta)
de Mí, también te apartas de tu vida.
   Por las cisternas viejas
bebiendo turbias aguas,
tu necia sed enjaguas,
y con sordas orejas,
      (Canta)
de las aguas vivíficas te alejas...313



Limitiamoci a questi esempi della lunga canzone. Il valore lirico di essa, sublimato dal Menéndez y Pelayo314, si manifesta già attraverso i passaggi riportati, il cui alone di poesia si diffonde per tutto l'auto, nella lotta tra la Natura Angelica Reproba, aiutata dalla Superbia e dell'Amor Proprio, contro Narciso-Cristo, innamorato della propria immagine, la Natura Umana. Con l'aiuto della Grazia, quest'ultima ritrova la via della sua origine nel corpo mistico di Cristo, convertito nel candido flore dell'Eucaristia. Il processo di tale ritrovamento avviene significativamente nella prima luce e nella diffusa poesia della parafrasi dei testi sacri, in armonia e purezza forse uniche nella storia dell'auto sacramental, scaturite dalla delicata sensibilità di Sor Juana e dalla sua sincera emozione religiosa. Al disopra di qualsiasi modello possibile, di Calderón o di altri autori di autos, si impone, quindi, attraverso El Divino Narciso, la piena originalità dell'arte sorjuanina, in tutta la freschezza di poesia.

Il secondo auto di Sor Juana, El Mártir del Sacramento, San Hermenegildo, è preceduto anch'esso da una loa, senza dubbio la più significativa tra quante ha composto la suora. Essa ci introduce in un tema particolarmente caro a lei, quello dell'amor di Dio verso le creature e di quale dimostrazione maggiore Dio abbia dato di questo amore. L'argomento sta all'ergine, come sappiamo, anche di tutta la critica al Sermón del Mandato, del Padre Vieyra, nella Carta Atenagórica. La loa, condotta da Sor Juana con la consueta perizia, ha per protagonisti tre studenti universitari, Cristoforo Colombo con alcuni soldati, ed Ercole, anch'egli con alcuni soldati. Intervengono inoltre coro e musica. La disputa si svolge tra tre studenti, dei quali il primo sostiene che la maggior «fineza» di Dio fu, dopo quella di essersi fatto uomo, di morire, mentre il secondo afferma che fu rimanere, nel Sacramento. Il terzo studente pretende, invece, ricorrendo apparentemente alla magia, di dimostrare il suo pensiero attraverso la rievocazione di due scene esemplari, la prima con Ercole per protagonista, la seconda con Colombo. Con un improvviso balzo indietro nel tempo, procedimento oggi consueto alla tecnica cinematografica, ma che allora Sor Juana sembra arditamente percorrere, assistiamo alla fissazione da parte di Ercole dei limiti concessi all'uomo, le famose colonne, che segnano il confine del mondo. Mentre i soldati piantano le colonne, la musica e il coro cantando illustrano il significato di tale avvenimento:


...que no hay más
Mundo que el que vemos;
    ¡de aquí hombre ninguno
pasará soberbio,
siendo el Non plus ultra
clave a sus deseos!315



Nella scena successiva, tra «marítimo estruendo», si assiste, invece, improvvisamente, allo sbarco di Colombo in Spagna, reduce dalla scoperta del nuovo mondo, e all'entusiastico annuncio che egli fa del superamento delle antiche credenze e dei limiti di Ercole, cui ora si oppone la realtà, «que hay más Mundo, que hay Plus ultra».

Il significato allegorico delle due scene è rapportabile ai termini della disputa accennata: allo stesso modo in cui Colombo sfatò il Non plus ultra di Ercole, così con l'istituzione della Santa Eucaristia Dio diede in essa la maggior prova d'amore all'uomo, che non consiste, quindi, nel suo sacrificio e morte, come potrebbe a prima vista sembrare.

La disputa intorno alla maggior «fineza» di Cristo introduce l'auto de El Mártir del Sacramento. La loa ha però un significato intrinseco, oltre che per l'argomento, per l'efficacia delle scene e delle rappresentazioni, sintetiche e vive drammaticamente.

El Mártir del Sacramento è un auto del tipo allegoricostorico. Le sue radici affondano, in effetti, nella storia, precisamente in quella spagnola dell'epoca visigotica. Il testo storico cui si rifà Sor Juana è la Historia de España del Padre Mariana, dai cui passaggi sceglie alcuni momenti, quelli più rispondenti alla sua sensibilità e alla necessità della rappresentazione, ricreandoli, naturalmente, in perfetta poesia.

Anche questo auto è opera eseguita su incarico. A questo fatto il Méndez Plancarte fa risalire tutta una serie di imperfezioni e difetti, quali le ripetizioni troppo vicine, inopportune assonanze, spesso anormali, concordanze «ad sensum», periodi inconclusi, ecc., e in particolare l'errore teologico in cui la suora incorre allorchè fa rifiutare da Hermenegildo, votato al martirio, la comunione che gli offre il vescovo ariano, negando validità al suo ordine sacerdotale e alla consacrazione eucaristica, in quanto eretico e scismatico, quando invece la chiesa riconosce ufficialmente tutto ciò anche negli scismatici316.

Questi sono, in sostanza, i difetti dell'auto sorjuanino, lo ultimo invero assai grave, poichè su di esso si costruisce la parte essenziale del dramma di San Ermenegildo, martire del Santissimo Sacramento.

Il Méndez Plancarte afferma che se Sor Juana avesse avuto il tempo di rivedere il suo lavoro si sarebbe certamente accorta della svista e vi avrebbe posto facilmente rimedio317. Il che mi sembra assai dubbio, perchè l'equivoco dipende da una conoscenza sostanzialmente errata della dottrina cattolica su tale argomento, ammissibile in Sor Juana, anche se monaca. A noi, tuttavia, importa soprattutto la validità drammatica dell'auto sorjuanino, il suo significato artistico, già riconosciuto anche dal Menéndez y Pelayo, il quale riteneva El Mártir del Sacramento degno di entrare in una antologia essenziale della poesia ispano-americana, che comprendesse anche la poesia drammatica318. Il Méndez Plancarte, da parte sua, ritiene questo auto sacramental il più importante e valido tra gli autos agiografici oggi noti319.

Mi sembra particolarmente importante stabilire la diversa natura de El Mártir del Sacramento nei confronti de El Divino Narciso: questo è un auto sacramental vero e proprio, centrato sull'Eucaristia, mentre il primo appartiene piuttosto al genere della commedia di santi, anche se il tema centrale è la glorificazione del Santissimo Sacramento. Inoltre l'unità de El Divino Narciso si impone in un ininterrotto afflato lirico-mistico e il dramma si accontenta, quanto ad azione, del cambio di scenario e di brevi interventi di personaggi; nel Mártir del Sacramento, in quanto più vicino alla commedia, l'azione drammatica diventa invece essenziale. Il lirismo, la poesia di sapore sacro e mistico, si attenua, mentre prende il sopravvento il dramma. Nel Divino Narciso i personaggi non escono dal loro carattere simbolico; nel Mártir del Sacramento la validità dei personaggi si fonda essenzialmente sul drammatico scontro di sentimenti contrastanti. Qui Sor Juana torna alla perizia che dimostra nei migliori passaggi del suo teatro profano, ma l'argomento sacro le dá maggiore tranquillità e la sua ispirazione si muove più libera. Di qui il valore intrinseco dell'auto, nonostante l'equivoco teologico accennato e tutti i difetti che vi si possono riscontrare, difetti che non riescono a turbarne l'acceso clima drammatico. In particolare, va sottolineata nell'auto la misura sorjuanina, in efficace contrasto con i frequenti squilibri delle commedie di santi, quelle stesse di Lope de Vega, il quale indulge spesso a macchinose complicazioni, con scene addirittura da romanzo nero, in cui insiste con esito infelice su truculenti fatti di sangue. Lo si vede soprattutto nell'auto dal titolo La mayor corona, che ha per protagonista lo stesso San Ermenegildo. Sor Juana dovette avere presente quest'opera e forse anche altre sullo stesso argomento, benchè non ci sia possibile affermarlo concretamente320. Più probabilmente, e ciò si desume appurito dalla misura dell'auto sorjuanino, la suora si riferisce soprattutto alla Historia de España del Padre Mariana; nel racconto sobrio, ma non privo di drammaticità, di questi, trovò tale carica emotiva da muovere la sua ispirazione con la stessa serietà di accenti.

El Mártir del Sacramento ci permette, infatti, di cogliere, pur nella sua semplicità, che è piuttosto linearità, la diretta partecipazione dell'autrice.

La figura di maggior rilievo dell'auto è, naturalmente, Ermenegildo, futuro martire e santo, figlio di Leogivildo re dei Visigoti e suo associato nel governo del regno, insieme al fratello Recaredo. La rivolta di Ermenegildo è determinata dalla sua conversione al cristianesimo, a dispetto dell'arianesimo ufficiale dello stato. Il suo dramma intimo scaturisce dalla necessità di difendere la fede e la sua gente, a costo di ogni pericolo, contro l'autorità e il volere del padre. Situazione tirannica, che lo pone nella condizione crudele di ribelle al padre e al re al tempo stesso.

Il dramma, tuttavia, si manifesta non meno profondo negli altri personaggi: nel re, lacerato intimamente da aspro conflitto, tra l'amore al figlio e la necessità di ridurlo all'obbedienza; in Recaredo, combattuto tra l'amore per il fratello e la necessità di ubbidire al padre. Altri conflitti si determinano nei diversi personaggi che circondano i protagonisti maggiori, ma la figura del martire è la più riuscita, almeno fino all'ultima parte del dramma, dove la discussione teologica interviene a raffreddare il calore della sua umanità. Nelle scene precedenti, tuttavia, l'interezza di Ermenegildo, la sua dimensione d'uomo, si approfondiscono vicendevolmente. Il dubbio che lo tormenta è bene espresso da Sor Juana nella prima scena del quadro iniziale, attraverso la sarabanda che gli fanno intorno i personaggi simbolici, la Fede, la Misericordia, la Giustizia, la Verità e la Pace, con i loro suggerimenti contrastanti.

La categoria di Ermenegildo è quella delle anime eroiche e sventurate, irrimediabilmente votate al sacrificio, che qui è il martirio nel nome di Dio. La sua dedizione, la sua fede incrollabile, non risolvono i suoi conflitti più intimi. Perciò egli si mantiene personaggio vivo, con tutti i segni intatti della sua umanità. Lo si vede nel dolore, profondo e virile, quando è costretto a consegnare quali ostaggi all'imperatore Tiberio, per ottenerne l'aiuto, la moglie Ingunda e il figlio Teodorico. Su questa nota di umanità sofferente risalta ancor più la grandezza della sua fede, che lo conduce a sottomettersi totalmente al volere di Dio, considerando che nulla appartiene all'uomo:


¡Todo es de Dios, nada es mío!
¡Cúmplase su voluntad!



In questa totale accettazione della volontà divina possiamo vedere riflessa la condizione particolare della stessa Sor Juana, anch'essa definitivamente sottomessa, a quest'epoca, alla volontà di Dio. Per tale identità di situazione spirituale, almeno nelle linee generali, il personaggio di Ermenegildo presenta tanta vita. Di fronte a lui gli altri personaggi finiscono per sembrare pallide comparse; e non solo Geserico che, messaggero del re, nel tentativo di convincere Ermenegildo a desistere dalla ribellione si lascia andare a un relazione prolissa, anche se in sè interessante, intorno alla discendenza regale visigotica, ma anche Ingunda, pure esempio efficace di valorosa sposa cristiana, pronta al sacrificio; per non parlare, poi, del personaggio fittizio dell'Apostasia, le cui tinte, feroci e subdole a un tempo, sono volutamente caricate dall'autrice; e di San Leandro, figura che non riesce mai a prendere rilievo.

I momenti felici ne El Mártir del Sacramento, sono, tuttavia, molti, non solo per l'efficace intervento del luminoso barocco sorjuanino, ma soprattutto per lo studio attento delle passioni e la dimensione umana dei personaggi. La lettura dell'auto ci introduce in momenti di alto significato artistco e spesso suggerisce richiami suggestivi a figure e passi della poesia e del teatro spagnolo, ai versi di Garcilaso, ad esempio, e a La vida es sueño di Calderón, mai imitati, sempre ricreazione viva.

Il lamento di Ermenegildo, nella scena VI del primo quadro, allorchè contempla la triste sorte della moglie, richiama concretamente il passaggio di Garcilaso dell'Égloga I, dove Nemoroso esce negli addolorati versi: «¿Quién me dijera, Elisa, vida mía...» Profondo è qui il contatto, per l'atteggiamento sentimentale e per il ripetersi nell'auto di Sor Juana di quel «quién me dijera»: «¡Oh, quién me dijera, cuando / con aparato / festivo...»

Il ricordo di Calderón è richiamato dal verso finale dello stesso lamento, «¡Ay, infelice de mí!», che riconduce al lamento di Sigismondo nella seconda scena della prima giornata de La vida es sueño. E per contrasto, nella scena XIX del quarto quadro dell'auto sorjuanino, allorchè Ermenegildo canta la sua prigionia come cosa «apetecida», è ancora Sigismondo che viene alla memoria. In questa scena l'instabilità delle cose, il loro trascorrere inesorabile, è reso con validi accenti, nella contemplazione del perduto potere. Il lamento di don Rodrigo nel romance famoso sulla perdita della Spagna è certamente presente alla suora in questo passaggio, che conclude con accenti di totale abbandono a Dio:


   Saco es el que ayer era
Púrpura soberana;
y la mano, que ufana
Cetro empuñó, severa
muestra, al cuello ligada, cuán instable
es la gloria del mundo miserable.
   Ayer me obedecía,
en cuanto el Betis baña,
parte mejor de España,
fértil la Andalucía;
hoy a un Alcalde bajo estoy postrado:
porque no hay, en lo humano, firme estado321.



Nella scena VII del quadro secondo, gli accenti con cui Leogivildo si rivolge alla Fantasia richiamano alcuni passaggi della Canción famosa a la vista de un Desengaño del Padre Matías de Bocanegra, soprattutto per le coppie dei contrasti:


   Si te sigo, me dejas;
si te huyo, me sigues;
si te busco, te alejas;
si te quiero dejar, tú me persigues322.



Tante avvertibili presenze non tolgono originalità a El Mártir del Sacramento, la cui struttura drammatica lo qualifica come una delle opere più valide di Sor Juana, in un'atmosfera di alta poesia.

L'ultimo dei tre autos sacramentales sorjuanini, El Cetro de José, va anch'esso preceduto da una loa in cui torna un argomento che riguarda ancora le Indie, il Messico precolombiano e quello contemporaneo, centro dell'interesse affettivo di Sor Juana. La suora, qui, tratta il tema dei sacrifici umani e della antropofagia degli aztechi, cui tenta di dare una spiegazione giustificativa, non solo, ma nobilitante, pur nel sostanziale rifiuto della loro legittimità.

Protagonisti della breve opera drammatica sono personaggi simbolici: la Fede, la Legge, la Grazia, la Legge Naturale, la Natura, l'Idolatria, con il consueto accompagnamento di coro e musica. La sostanza della loa sta nella disquisizione intorno al culto da rendere al Dio vero, e alla legittimità del medesimo. Non vi è, quindi, azione, se eccettuiamo il susseguirsi dei personaggi simbolici, che intervengono a sviluppare gli argomenti della questione. Tuttavia, l'interesse della loa è vivo e sta principalmente nell'importanza dell'argomento affrontato.

Il problema dei sacrifici umani e dell'antropofagia degli indigeni messicani doveva essere ancora ben vivo al tempo in cui Sor Juana scriveva. Di qui il senso di scottante attualità dell'argomento. L'evangelizzazione era senza dubbio progredita, ma le forme del culto indigeno perduravano, se nella loa l'Idolatria afferma che nelle Indie la sostituzione di un Dio solo alle diverse deità è ragione sufficiente e che i sacrifici umani devono essere interpretati come la massima forma di venerazione nei riguardi di tale divinità. Se fu errore l'oggetto, la sua sostituzione dovrebbe essere sufficiente:


no contradice al precepto,
que a esa misma Deidad hagan
los mejores Sacrificios,
que son los de sangre humana.
Antes hay mayor razón,
porque si a Deidad más alta
se debe mejor ofrenda,
¿por qué tú quieres privarla
de ese culto? Pues el yerro,
no en el Sacrificio estaba,
sino en el objeto, pues
se ofreció a Deidades falsas;
y si ahora al verdadero
Dios quieren sacrificarla,
pues el error fue el objeto,
mudar el objeto basta323.



Naturalmente, Sor Juana riprova la confusione che fa la Idolatria nella sua rozzezza. Tuttavia essa vede nel sacrificio e nella forma antropofaga una lontana rappresentazione del sacrificio di Cristo e della Santa Eucaristia, motivo che sfrutta per la celebrazione nell'auto.

Le ragioni espresse dall'Idolatria nei versi riportati seguono di pari passo le argomentazioni del Padre Las Casas nell'Apologética Historia de las Indias324. Che poi gli aztechi fossero veramente antropofagi appare dubbio. Il Torquemada nella Monarquía Indiana sostiene che essi mangiavano solo la carne dei sacrifici in quanto la ritenevano cosa sacra, e «más se movían a esto por la religión che por vicio»325. La stessa cosa sostiene il Las Casas326. Esisteva, quindi, realmente un lontano punto di somiglianza con il simbolo dell'Eucaristia, e Sor Juana, per i suoi fini, poteva vedervi un preludio nel mondo pagano che intendeva riscattare.

La loa è interessante, oltre che per il tema, per la dimensione interna che ci permette di cogliere in Sor Juana. Legata intimamente alla sua terra, presa dalla grandezza del passato precolombiano, essa cerca, non dirò di giustificarne, ma di nobilitarne gli errori, interpretandoli quali remoti preannunci del mondo cristiano cattolico. E' in questa loa che ci appare nella sua evidenza, attraverso il procedere della suora, il metodo seguito dalla chiesa cattolica nell'evangelizzazione della America: sostituzione e adattamento di divinità e di forme del culto cattolico sulle forme del culto e sulle divinità pagane.

Ancora bisogna sottolineare nella loa l'agilità della versificazione, la sua scorrevolezza, la caratteristica abbondanza della aggettivazione, il costante pervenire a improvvise bellezze, liriche e pittoriche. Qualità queste, del resto, proprie di tutta l'opera sorjuanina.

Quanto all'auto de El Cetro de José, esso ricalca fedelmente il racconto biblico. I principali protagonisti sono, naturalmente, José e i fratelli che lo hanno venduto, e insieme gli enti simbolici. La musica fa anche qui la sua comparsa. Il tutto è a dimostrare, nell'episodio assunto, il preannuncio della istituzione dell'Eucaristia.

Il Méndez Plancarte ha celebrato l'eccellenza di questo auto sacramental, che appartiene al ramo «vetero-testamentario». Egli lo pone addirittura al disopra degli autos calderoniani dello stesso tipo, tra i quali Sueños hay que verdad son, di argomento identico a El Cetro de José, per non parlare de La Primer Flor del Carmelo, la cui prefigurazione messianica è ritenuta dal critico meno grandiosa che nell'auto sorjuanino. Secondo il Méndez Plancarte nell'opera di Sor Juana c'è una familiarità più intima e profonda con il testo sacro, una maggiore e più continua proiezione del senso messianico ed eucaristico su quelle plausibili prefigurazioni, superiorità di brani lirici «excelentes», un uso più felice e pieno di tutta la storia, che non nel calderoniano Sueños hay que verdad son. Quanto a La Primer Flor del Carmelo, forse più vivace e fiorito, esso è inferiore al Cetro de José per «armoniosa plenitud arquitectural», poichè disperde e turba la solennità del tema con freddi «chistes» del gracioso, con una inopportuna introduzione di un «juego de los colores». Nell'auto sorjuanino, al contrario, vi è pieno carattere sacramentale, molta maggior profondità e ampiezza teologica e scritturistica327.

Osservazioni e note interessanti, queste, del Méndez Plancarte, che tuttavia non finiscono di convincere della reale grandezza de El Cetro de José. Mi sembra, anzi, che l'auto sia in realtà il meno riuscito della suora, non per il significato intrinseco, l'intenzione allegorica, ma strutturalmente e dal punto di vista drammatico. Fedele al testo sacro, Sor Juana non ne risuscita la poesia, nè il senso profondo di dramma. Il simbolo e il concetto si direbbe impediscano, qui, alla suora di ritrovare quei felici momenti lirici in cui vibra la sua anima e si comunica al pubblico la sua intima emozione. Si tratta, insomma, di un'opera fredda, in cui, nonostante la perfezione del verso, la vicenda non riesce a prendere vita. Naturalmente non manca qualche momento felice. E' il caso, ad esempio, del lamento di Giacobbe per la perdita del figlio Giuseppe. In sostanza, però, l'auto de El Cetro de José è opera di scarso interesse, non solo per il lettore moderno, come scrive l'Arrom328, ma penso anche per gli spettatori dell'epoca di Sor Juana, almeno al difuori di una ristretta cerchia di persone votate alla religione e disposte in partenza a gustare le sottigliezze e i giochi «agudos» di un'opera di così chiuso simbolismo.

Per questo suo carattere El Cetro de José rimane frutto inanimato del suo tempo e difficilmente può trovar vita e rispondenza nella nostra sensibilità. Il che non è per El Divino Narciso e tanto meno per El Mártir del Sacramento, che se non è superiore artisticamente al primo, ha tuttavia la possibilità di suscitare un più ampio interesse per i caratteri umani della vicenda narrata. Ma anche se El Cetro de José resta opera fredda, il teatro religioso di Sor Juana trova negli altri autos sufficiente motivo per qualificarsi nel tempo e per dare alla suora, anche in questo campo, reale valore.




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L'opera in prosa


La fama di Sor Juana prosatrice si fonda essenzialmente sulla nota vibrante della Respuesta a Sor Filotea de la Cruz, uno dei suoi scritti di maggior rilievo. Ma la sua opera in prosa, benchè non eccessivamente estesa, comprende altri scritti, alcuni dei quali di molto impegno dottrinale, come la Crisis de un Sermón, o Carta Athenagórica, altri di carattere piattamente devoto, come gli Ejercicios para los nueve días antes del de la Purísima Encarnación e gli Ofrecimientos para el Santo Rosario de quince misterios que se ha de rezar el día de los Dolores329. Vi è, inoltre, una breve serie di scritti vari, petizioni e dichiarazioni di fede e di obbedienza, apparentemente marginali, del resto privi di valore artistico, ma di molta importanza per la penetrazione dell'intimo dramma sorjuanino nei suoi ultimi sviluppi. Aggiungeremo ancora un singolare documento del barocco di Sor Juana, il Neptuno Alegórico, Océano de colores, Simulacro político, scritto in prosa, con una più succinta spiegazione in verso, illustrante le allegorie rappresentate nell'arco trionfale progettato dalla suora per l'ingresso a Messico del vicerè don Tomás Antonio de la Cerda, conte di Paredes, avvenuto il 30 novembre 1680330.

Il Neptuno Alegórico è la prima, in ordine di tempo, delle prose sorjuanine. Lo scritto venne stampato a sè in data di poco posteriore all'ingresso del vicerè331. Intorno a quest'opera i giudizi sono stati in genere più negativi che positivi. Il Menéndez y Pelayo scrisse che nel Neptuno Sor Juana «apuraba el magín discurriendo emblemas disparatados»332. La critica ha seguito quasi esclusivamente il giudizio del critico santanderino. Tra gli altri critici la Campoamor ha giudicato il Neptuno un «paseo, o mejor cabalgata» attraverso la mitologia, qualcosa che si può leggere oggi solo per necessità, «por la erudición indigesta, que brota en exuberantes alegorías»333. Miglior giudizio, in sostanza, non dà neppure il Toussaint, allorchè afferma che il Neptuno è «preñado de citas en latín, escrito en una prosa barroca que nadie entiende», anche se aggiunge, a tale proposito, che non è necessario capirlo, ma solo «sentirlo y disputarlo como un retablo o una portada de iglesia de su época»334.

In quanto dice il Toussaint in quest'ultima parte del suo giudizio vi è qualcosa di vero. Il valore artistico del Neptuno Alegórico risalta nel suo acceso barocchismo, come un retablo di chiesa. Profuso di mitologia e macchinoso, esso non va inteso come documento dell'aberrazione del gusto, bensí come un esempio eccezionale di fantasia barocca, in un'opera occasionale ed encomiastica, distante dalle vibrazioni intime dello artista, che solo vi profonde fantasia ed esplica bravura.

Ma il Neptuno non presenta solo interesse come esempio delle straordinarie possibilità creative di Sor Juana, di cui si ammira il vigore delle rappresentazioni plastiche, il raffinato senso pittorico e l'ardito volo architettonico, bensí anche come documento della vasta erudizione sorjuanina, nel campo della storia, della filosofia, della mitologia, della letteratura classica e sacra. Le citazioni, che compaiono fitte nell'opera, sono di prima mano e rivelano diretta conoscenza di autori e di testi. Soprattutto sono presenti gli autori classici e sacri, da Cicerone a Giovenale, a Ovidio, a Stazio, a Virgilio e a Orazio, preminente questi; a Seneca, Plinio, Plutarco, Erodoto; ai santi e ai Padri della chiesa, San Gerolamo, San Matteo, San Cipriano, Sant'Agostino; i libri sacri, i più famosi autori della letteratura mitologica ed emblematica in voga nel cinque e seicento nella Europa occidentale, come il Valeriano, il Natal, il Cartario, il Bolduc335, per non citare che qualche nome tra i molti che compaiono nel testo sorjuanino e che nella loro successione richiamano il lungo elenco di Quevedo ne Las Zahurdas de Plutón, relativo a negromanti, superstiziosi ed eretici. Si aggiunga a tutto questo anche la presenza dei poeti spagnoli, primo tra tutti, naturalmente, Góngora.

L'allegoria del Neptuno si costruisce intorno al titolo nobiliare del nuovo vicerè, marchese della Laguna, e alla posizione della città di Messico, posta appunto su una laguna. Di qui che il personaggio venga paragonato a un nuovo Nettuno.

L'opera consta di due parti, come si è detto, il Neptuno Alegórico propriamente detto, in prosa, descrizione particolareggiata dell'arco trionfale, e una Explicación sucinta dell'arco medesimo, in versi. Questa parte in verso sembra sia stata pubblicata precedentemente alla parte in prosa e distribuita, a spiegazione del significato simbolico della costruzione, al momento dell'ingresso del vicerè.

Nella Explicación sucinta è viva, naturalmente, la tecnica caratteristica della poesia sorjuanina, la varietà metrica che le è peculiare, dal romance all'endecasillabo, all'eptasillabo, al sonetto finale. Il verso è agile, scorre luminoso, ma è difficile trovarvi qualcosa di più profondo. Note più sostanziose si trovano, invece, nel Neptuno in prosa, come l'insistente richiamo alla reale nobiltà dell'uomo, che si fonda sulla bontà delle opere:

«Pues aunque la nobleza heredada sea tan apreciable, que de ella dice el Sabio: Gloria hominis ex honore patris sui, y en otra parte: Gloria filiorum patres eorum; con todo, en sentencia de Séneca, es mérito ajeno: Qui genus iactat suum, aliena laudat: y con su acostumbrada suavidad Ovidio:


Non census magnus, nec clarum nomen avorum:
    sed probitas magnos, ingeniumque facit;



y con no menor majestad Plinio, in Apathocl.; Regem nasci nihil magnum est, at regno dignum se praestitisse maximumest; y sobre todos, el luminar mayor de la Iglesia, el Máximo Doctor y gran Padre mío, San Jerónimo, dice definiendo la verdadera nobleza: Nobilitas est clarum esse virtutibus: unde ille apud Deum maior est, qui iustior, non contra»336.



Di natura diversa dal Nepturio Alegórico, e di grande importanza per le conseguenze che ebbe sulla vita di Sor Juana, oltre che per l'acutezza d'ingegno e la viva preoccupazione per le cose religiose e spirituali, è la Crisis de un sermón, o Carta Athenagórica. Lo scritto vide la luce nel 1690, ad opera del vescovo di Puebla, Manuel Fernández de Santa Cruz337, amico sincero di Sor Juana e suo estimatore. La suora gli aveva inviato lo scritto, nato dalle «bachillerías de una conversación», e del desiderio espresso dal vescovo di vedere posti per iscritto «algunos discursos» da lei fatti «de repente, sobre los sermones de un excelente orador, alabando algunas veces sus fundamentos, otras disintiendo, y siempre admirando su sin igual ingenio...»338.

La posizione di Sor Juana allorchè si accinge a criticare il Sermón del Mandato del gesuita portoghese Antonio de Vieyra339, come si vede dalle frasi citate, non è astiosa nè polemica, anzi molto riguardosa. Tutto il preambolo mira a porre in rilievo, a scanso di equivoci, la sua ammirazione per l'ingegno del predicatore, non scalfita dalle possibili diversità di opinione intorno al tema affrontato, vale a dire la maggior prova d'amore data da Cristo agli uomini.

Nel Sermón pronunciato nel 1650, il Padre Vieyra si era opposto, non senza prosopopea, alle opinioni dei santi, affermando che «ninguna fineza del amor de Cristo me darán (i santi), que yo no dé otra mayor; y a la fineza del amor de Dios que yo dijere, ninguno me dará otra igual»340. Egli sosteneva, quindi, che la maggior «fineza» di Cristo non fu quella di morire per gli uomini, bensí di «ausentárseles»; non di rimanere con noi sacramentato, ma di restare nel Sacramento «sin uso de sentidos»; non di aver lavato i piedi ai discepoli, ma la causa che lo mosse a lavarglieli; e concludeva che la maggior prova di Cristo fu di non volere la corrispondenza del suo amore per sè: «Cristo amónos, a fin de que nos amásemos: et vos debetis alter alterius lavare pedes»341.

A distanza di quarantanni Sor Juana impugna la penna per opporsi, nella Carta Atenagórica, alle affermazioni del gesuita. Armata della dottrina dei Santi Padri, soprattutto di Sant'Agostino, essa confuta punto per punto le tesi del Vieyra, si scaglia contro l'affermazione che la maggior prova d'amore di Cristo sia stata quella di non volere la corrispondenza al suo amore per sè, sostenendo, anzi, con numerosi esempi, che Cristo volle la corrispondenza per sè, ma che l'utilità che da questa corrispondenza procede «la quiso para los hombres»342.

Nei paragrafi successivi formula, quindi, una teoria personale intorno alla maggior «fineza» di Cristo, sostenendo che essa consiste nei benefici negativi, vale a dire nei benefici «que nos deja de hacer por nuestra ingratitud», perchè sa che ne useremmo male343. Cristo sopprime, quindi, «los raudales de su inmensa liberalidad, detiene el mar de su infinito amor y estanca al curso de su absoluto poder. Luego, según nuestro modo de concebir - argomenta la suora -, más le cuesta a Dios el no hacernos beneficios que no el hacérnoslos y, por consiguiente, mayor fineza es el suspenderlos que el ejecutarlos»344.

Secondo Sor Juana, perciò, per gli uomini risulta «mayor beneficio el no hacerles beneficios»345. Questa è la maggior prova d'amore di Dio verso di essi. Per la suora non solo è «beneficio» il premio, ma lo è anche il castigo: «Tiene el otro corta fortuna y cuando mucho, dice que es castigo de Dios. Cuando sea castigo, el castigo también es beneficio, pues mira a nuestra enmienda y Dios castiga a quien ama»346.

Queste personali opinioni nei confronti dei favori divini si prestano a considerazioni che possono forzare le reali intenzioni della suora. Il Paz afferma che con la teoria dei benefici negativi Sor Juana veniva a estendere automaticamente la sfera del libero arbitrio, posto che per lei il dono maggiore di Dio consisteva, in ultima analisi, nell'abbandonare alla sua sorte la creatura umana347. A mio parere, tuttavia, il testo sorjuanino non autorizza questa illazione. Al contrario, la suora nel formulare la sua teoria rimette, in sostanza, più che mai l'uomo nelle mani di Dio, accentuando semmai la sua dipendenza da lui. Non facendo all'uomo la concessione dei benefici, Dio gli impedisce di usarne male, è vero, gli evita il «mayor cargo», ma gli toglie la sua libertà. Sor Juana afferma che dobbiamo essere grati a Dio per questa mancata concessione: «Agradezcamos y ponderemos este primor del Divino Amor en quien el premiar es beneficio, il castigar es beneficio, y el no hacer finezas la mayor fineza»348. E ancora: «en Dios mayor beneficio es no dar, siendo su condición natural, porque no nos conviene, que dar siendo tan liberal y poderoso»349.

La critica ha giudicato variamente, attraverso il tempo, la Carta Atenagórica. Il Méndez Plancarte l'ha detta nervosa, sottile nelle argomentazioni, «primorosa y encendida en sus elevaciones sobre las finezas de Cristo»350. Il Reyes ha trovato nella Carta l'incanto di una sacra conversazione351. E. A. Chávez vi ha colto una bellezza intensa ed eloquente352. Il Láscaris Comneno, al contrario, sostiene che per quanto riguarda temi strettamente filosofici la Carta Atenagórica, benchè piena di «agudezas», manca di ogni interesse; quindi ritiene giustificato quanto Sor Filotea, ossia il vescovo, rimproverava alla suora, nel prologo all'edizione dell'opera, di aver, cioè, perduto troppo tempo in «ciencias curiosas»353. A questo proposito il Cossío sostiene che quello di Sor Juana fu un «diletantismo poligráfico» e, pur senza presentare requisiti scientifici, fa di lei un valore reale, che sollecita la maggior ammirazione354.

Opinioni contradittorie, come si vede, sproporzionate al reale significato della Carta sorjuanina. Infatti, in essa Sor Juana non pretende di formulare una filosofia sistematica, ma solamente esprimere con calore devoto le sue idee nei confronti dell'amor di Dio. La suora sentì sempre vivo il timore di avvicinarsi alla filosofia e alla teologia. Era troppo cosciente dei propri limiti, forse persino eccessivamente cosciente. L'unico impulso che la dominò sempre fu la sete di conoscenza, una serietà di cultura che spiega le profondità di pensiero che troviamo nei suoi scritti, sia pure mancanti o difettosi dal punto di vista strettamente filosofico e scientifico.

La Carta Atenagórica è la dimostrazione più evidente di un pio trasporto e vi si coglie tutta la sincerità del sentimento sorjuanino nei riguardi di Dio. Le sue argomentazioni mancano di fondamento teologico, non meno di quelle del Padre Vieyra, ma sono la sincera dimostrazione di un amore che, forse nel tormento della sua incompletezza, porta la suora alla accettazione totale della volontà divina, fino alla formulazione di teorie arbitrarie, quella dei benefici negativi, che non poteva essere vista con simpatia dalla chiesa, tanto più formulata da una religiosa.

Dal punto di vista strettamente letterario, nello scritto di Sor Juana si impone una costante vivacità, la passione con cui l'autrice sviluppa le proprie tesi, in un periodare ampio e palpitante, o volta a volta nervoso. Sor Juana si muove con sicurezza tra testi e autori sacri, citandoli abbondantemente; anche in questo la Carta si presenta come opera di interessante lettura, mentre offre un documento rivelatore della complessità del carattere della suora, della passione e del tormento, al tempo stesso, che per lei significava amare Dio nella sua condizione spirituale.

Il succedersi di periodi ora nervosi, agitati, ora appassionati e ampi, sfocianti in estesi ristagni lirici, la trasparente emozione che coglie Sor Juana allorchè tratta dell'amor di Dio, fanno sì che in più di un momento la Carta Atenagórica raggiunga il clima della più alta poesia. In questo e nell'atteggiamento sincero dell'autrice sta la sua validità, la sua permanenza nel tempo, anche se gli argomenti che Sor Juana adduce per le sue tesi sono deboli o del tutto insignificanti dal punto di vista filosofico e teologico.

Consideriamo, inoltre, che la suora dichiarò più tardi, nella Respuesta a Sor Filotea, di aver steso la Carta Atenagórica «con más repugnancia que otra cosa», sia perchè trattava di cose sacre, verso le quali aveva sempre professato «reverente temor», sia perchè sembrava presentare un aspetto polemico355. E tuttavia non ci sfuggono l'impeto e la passione con cui Sor Juana tratta il tema.

La pubblicazione della Carta Atenagórica fu grave di conseguenze per la suora. Nella lettera-prologo con cui accompagnava l'edizione dello scritto, in data 25 novembre 1690, Sor Filotea, ossia il vescovo, dopo aver espresso la propria ammirazione verso il testo che prologava, per la vivacità dei concetti, la «discreción» delle prove addotte, l'energica chiarezza con cui l'argomento convinceva, i talenti concessi a Sor Juana da Dio e fino a quel momento bene spesi, pur senza pretendere di condannare nella donna la sete di conoscenza, avvertiva la suora che ormai aveva sprecato troppo tempo in «ciencias curiosas» ed era ora vi ponesse rimedio356.

Malgrado la gentilezza della forma i rimproveri suonano duri nella Carta de Sor Filotea e spiegano efficacemente la portata della crisi che determinano in Sor Juana. In sostanza si poneva sotto giudizio tutta la sua vita e la sua attività. «Mucho tiempo ha gastado V. M. en el estudio de filósofos y poetas -scriveva Sor Filotea-; ya será razón que se perfeccionen los empleos y que se mejoren los libros»357. E più oltre: «ciencia que no alumbra para salvarse, Dios, que todo lo sabe, la califica por necedad»358. Quindi l'incitamento: «Préstese V. M., no se venda, ni se deje robar de sus estudios. Esclavas son las letras humanas y suelen aprovechar a las divinas»359. Ma più grave ancora suonava il rimprovero: «No es poco el tiempo que ha empleado V. M. en estas ciencias curiosas; pase ya, como el gran Boecio, a las provechosas, juntando a las sutilezas de la natural, la utilidad de una filosofía moral. Lástima es que un tan gran entendimiento de tal manera se abata a las rateras noticias de la tierra, que no desee penetrar lo que pasa en el Cielo; y ya que se humille al suelo, que no baje más abajo, considerando lo que pasa en el Infierno... O qué útilmente, otras veces, se engolfará ese rico galeón de su ingenio de V. M. en la alta mar de las perfecciones divinas»360.

Il vescovo non mancava, quindi, di prendere posizione contro la teoria negativa dei benefici divini formulata dalla suora. Egli affermava che, al contrario, i benefici negativi erano da considerarsi non beni, ma castighi divini, perchè «sólo es beneficio el que Dios hace al corazón humano, previniéndole con su gracia, para que le corresponda agradecido, para que no represada, la liberalidad divina se los haga mayores»361.

Tutto ciò scriveva alla suora chi si professava «enamorado de su alma»362. Per questo le critiche dovevano suonare più dure alla donna già inquieta, tormentata intimamente.

La Carta de Sor Filotea a Sor Juana fu variamente interpretata da coloro che se ne occuparono. Alcuni la giudicarono una severa reprimenda, altri un blando avvertimento, e non mancò chi la ritenne grossolana e impertinente, o anche, con le umili parole della suora, «doctísima, discretísima, santísima y amorosísima»363. Il Chávez si dedicò a esaminarne le incongruenze e giudicò la lettera una straordinaria esagerazione di zelo apostolico, alleato a positiva bontà, a vera devozione e ammirazione per Sor Juana364. Comunque, è certo che la suora ne fu profondamente turbata. D'altra parte è singolare che il rimprovero di essersi dedicata troppo a «ciencias curiosas» le venisse fatto proprio nel prologo a un'opera di netto carattere religioso e dopo che Sor Juana aveva scritto gli autos sacramentales, tanti villancicos e letras sacre, gli Ejercicios devotos e gli Ofrecimientos para el Santo Rosario. Con ogni probabilità la Carta Atenagórica, con la formulazione delle teorie negative intorno alle «finezas» di Cristo, doveva avere allarmato ulteriormente le autorità religiose.

Il Cossío avanza l'ipotesi che chi formulava le critiche a Sor Juana nella Carta de Sor Filotea potesse farlo d'accordo con la suora stessa, al fine di darle modo di difendersi da censure irresponsabili, alle quali altrimenti essa non avrebbe saputo come opporsi365. Se questa fosse la realtà dei fatti, non ci spiegheremmo allora l'abbattimento della suora, il suo improvviso e definitivo silenzio dopo la formulazione della sua autodifesa, la Respuesta366.

Il periodo di tempo che intercorre tra la critica di Sor Filotea e la Respuesta, 5 novembre 1690 - 1 marzo 1691, è rivelatore di una profonda crisi, che del resto non riescono a nascondere neppure i pretesti addotti da Sor Juana stessa all'inizio della sua lunga lettera, allorchè afferma: «No mi voluntad, mi poca salud y mi justo temor han suspendido tantos días mi respuesta»367.

D'altra parte, una volta chiarita, e in modo tanto efficace, la bontà del proprio operato, Sor Juana avrebbe potuto continuare con rinnovato vigore nel suo impegno culturale. Appare perlomeno singolare, inoltre, che chi lodava e ammirava il suo ingegno, la santità della sua vita, le rimproverasse di non aver fatto miglior uso delle sue possibilità intellettuali. In tutto ciò è patente la contraddizione, ed è comprensibile che la suora ne rimanesse turbata. La critica veniva ad accentuare il suo dubbio, il suo tormento intorno alla bontà morale della propria attività letteraria.

Per meglio comprendere la situazione spirituale di Sor Juana in questo momento bisogna ricordare i numerosi ostacoli che in varie occasioni le si erano frapposti, culminati nella proibizione di dedicarsi allo studio fattale da una superiora «muy santa y muy cándida», la quale credeva che lo studio fosse cosa da Inquisizione368. Il divieto, è vero, era durato solo tre mesi, periodo in cui la superiora esercitò il suo potere, ma la gravità della punizione traspare chiaramente dalle parole della suora nella Respuesta a Sor Filotea e dal confessato, irresistibile, richiamo intellettuale. L'ordine, infatti, fu da lei ubbidito quanto a non toccar libro, ma non quanto a studiare concretamente il mondo fenomenico, che le si presentava così carico di sollecitazioni. A tale proposito la suora scrive che, poichè ciò non era in suo potere non potè cessare di studiare, perchè per quanto non studiasse sui libri, «estudiaba en todas las cosas que Dios crió, sirviéndome ellas de letras, y de libro toda esta máquina universal»369.

Se per Santa Teresa le cose erano riflesso diretto di Dio e se anche tra le pentole stava il Signore, per Sor Juana tutto diviene motivo di riflessione intellettuale, anche le umili cose di cucina. Ella scrive: «Pues, ¿qué os pudiera contar Señora, de los secretos naturales que he descubierto estando guisando? Ver que un huevo se une y fríe en la manteca o aceite y, por contrario, se despedaza en el almíbar; ver que para que el azúcar se conserve fluida basta echarle una muy mínima parte de agua en que haya estado membrillo u otra fruta agria; ver que la yema y clara de un mismo huevo son tan contrarias, que en los unos, que sirven para el azúcar, sirve cada una de por sí y juntos no»370. E giunge ad affermare che se Aristotele «hubiese guisado, mucho más hubiera escrito»371.

Il significato della Respuesta a Sor Filotea sta anche in passaggi come quelli citati, perchè essi ci immettono direttamente nella unicità del carattere sorjuanino e al tempo stesso nel dramma che la conduce alla rinuncia. Il Paz osserva acutamente che tutto porta Sor Juana a concepire il mondo come problema e come enigma, piuttosto che come luogo di salvezza o di perdizione372. Infatti, per la suora tutto è motivo di ricerca, interrogativo cui tenta di trovare risposta. La sua curiosità intellettuale non si acquieta alle apparenze, tenta di penetrare la realtà e di soddisfare le numerose domande che insorgono in lei.

La posizione di Sor Juana risalta sulla generale accettazione che il mondo ispanico fa della realtà, rinunciando ad ogni curiosità intellettuale. Solo in Sigüenza y Góngora riscontriamo un atteggiamento inquieto simile a quello della suora. Entrambi appaiono come creature fuori del loro tempo, destinate al silenzio e alla solitudine. Pedro Salinas parla di «extemporaneidad» a proposito di Sor Juana, che egli vede vivere fuori del suo tempo con la coscienza di esserlo, senza forza sufficiente a ribellarsi o a rinunciare373. E realmente, se nella Respuesta a Sor Filotea essa ribatte con estremo vigore, punto per punto, le accuse, proclamando il diritto della donna alla vita intellettuale e l'intrinseca bontà di un'opera che è quasi germinazione spontanea della sua natura, la suora protesta, però, piena sottomissione alla chiesa, in ritrovata umiltà, rimettendosi in tutto al giudizio di chi dall'alto aveva formulato le accuse.

Due motivi si impongono chiaramente nella Respuesta, uno dei massimi momenti dell'opera sorjuanina, il più vivo in senso drammatico: la difesa della propria sete di conoscenza e il timore della condanna, che si concreta in timore verso il Santo Uffizio. Difendendosi dall'accusa di non aver affrontato argomenti sacri Sor Juana scrive significativamente: «¿Qué entendimiento tengo yo, qué materiales, ni qué noticia para eso, sino cuatro bachillerías superficiales? Dejen eso para quien lo entienda, que yo no quiero ruido con el Santo Oficio, que soy ignorante y tiemblo de decir alguna proposición malsonante o torcer la genuina inteligencia de algún lugar. Yo no estudio para escribir, ni menos para enseñar (que fuera en mí desmedida soberbia), sino sólo por ver si con estudiar ignoro menos»374.

In queste ultime parole sta la sostanza di tutta l'attività intellettuale sorjuanina, della sua curiosià scientifica, alla cui luce la sua opera letteraria acquista significato ancor maggiore, in quanto non appare mezzo a se stessa, ma espressione di una istintiva e necessaria sete di conoscenza.

Dalle pagine della Respuesta, vive di umana passione, risalta un'umiltà che non elimina la dignità. Sor Juana si sottomette, ma non rinuncia a protestare e a giustificarsi con vigore. Considerata dal punto di vista della sua condizione religiosa, la Respuesta potrebbe apparire un peccato di superbia. La condizione religiosa di Juana Inés l'avrebbe dovuta indurre a inchinarsi in silenzio davanti alle censure, rinunciando alla sua attività senza proteste. Ma dal punto di vista umano la sua autodifesa ha un forte significato drammatico. Sor Juana si sentiva accusata troppo ingiustamente per tacere, e forse già determinata, prima di stendere la Respuesta, alla rinuncia, non resiste, tuttavia, alla tentazione di giustificarsi. Essa spiega, quindi, il carattere della sua curiosità intellettuale e seguendo San Tommaso sottomette tutte le scienze e le arti umane alla teologia, ma afferma che è solo la loro conoscenza che permette di pervenire a questa. Ciò facendo inverte la normale prospettiva. Il Castro lo ha notato acutamente375.

Con accenti angosciati Sor Juana racconta nella Respuesta gli episodi della sua disposizione intellettuale, le opposizioni incontrate, protesta la propria ignoranza nei confronti degli argomenti sacri, ma rivendica la libertà di pensare e di discutere, sempre entro i precauzionali limiti imposti dalla chiesa. Pur umiliandosi, non rinnega se stessa, ma con tristezza si volge a considerare come «el que se señala -o lo señala Dios que es quien sólo le puede hacer- es recibido como enemigo común, porque parece a algunos que usurpa los aplausos que ellos merecen, o que hace estanque de las admiraciones a que aspiraban, y así le persiguen»376. In queste parole l'umana amarezza della suora ha il sopravvento. Essa si sente, in definitiva, ingiustamente vittima della sua situazione. Non si ribella, perchè non ne ha il coraggio, ma denuncia nell'invidia l'origine dei suoi mali. Infine si sottomette, promettendo di migliorare la propria vita, di perfezionare gli «empleos», come le aveva consigliato il vescovo. Il dramma sta proprio qui, nell'abdicazione, cosciente di non essere colpevole. In questo senso la Respuesta può essere interpretata come un atto di sottomissione non del tutto compiuta. Ramón Xirau allude, forse non a torto, a una «maliciosa intención» nello scritto sorjuanino377. La vera sottomissione avviene poi, dopo la stesura della Respuesta a Sor Filotea, quando Sor Juana rinuncia concretamente alla sua attività.

In un mondo in cui lo studio era ritenuto cosa da Inquisizione378, Sor Juana si presenta veramente come un martire dell'intelligenza379. La Respuesta è il suo ultimo raggio di luce intellettuale, il suo testamento spirituale, in definitiva. Succede quindi il silenzio, quello in cui, secondo il Paz, si condanna la stessa società che nell'opera della suora si esprime ed afferma380. La rinuncia fu la conseguenza estrema del profondo dissidio tra ubbidienza e umiltà, che la condizione religiosa imponeva alla suora, e la radicata coscienza dei diritti insopprimibili dell'intelligenza.

Al momento di chiudere la Respuesta Sor Juana contempla ancora la possibilità di una prosecuzione della sua attività, volta ora ad argomenti più consoni, secondo gli altri, s'intende, alla sua condizione; ma nella protesta di sottomissione che fa traspare l'impossibilità di un rinnovato momento di entusiasmo creativo. Scrive il Calleja, con santo zelo e altrettanta incomprensione del dramma sorjuanino, che fu precisamente in questo momento che Dio fece nel cuore della Madre Juana «su morada de asiento»381. Ma la Respuesta a Sor Filotea non fu sfogo sufficiente all'amarezza della suora e la crisi intima dovette acuirsi col passare del tempo. Riandando la vita trascorsa, le occasioni felici, la fama, le contrarietà e le persecuzioni, esame cui la Respuesta aveva dato vigoroso avvio, Sor Juana dovette percepire più gelido il vuoto della propria esistenza. A lei religiosa il senso della vanità del tutto dovette risuonare con la voce profonda dell'Ecclesiate. Di fronte a Dio e all'aldilà, tutto si riduceva al nulla. Nello spirito del particolare barocco in cui la suora era vissuta si imponeva dominante il senso della fine. Davanti al pensiero della morte anche l'intelletto poteva assumere apparenze peccaminose, quasi di demoniaca superbia, tali da compromettere la salvezza dell'anima. In tal modo si spiega come, dopo la Respuesta, l'attività intellettuale assumesse per Sor Juana sempre più il significato di una colpa, coinvolgendo tutta la sua vita passata. Ciò spiega il definitivo silenzio. Le poche pagine che ancora scrive non appartengono più alla letteratura, ma solo alla sua storia più intima. Sono, infatti, proteste di fede e confessioni, che attestano uno spirito tormentato dal senso del peccato e della propria indegnità nei confronti di Dio. Sotto questa luce sono da interpretare la lunga confessione generale nella Petición che «en forma causídica» la suora stende nel 1693382, la Protesta che, «rubricada con su sangre», fa della propria fede e amore a Dio al momento di lasciare gli studi «humanos», il 5 marzo del medesimo anno383.

Il Padre Calleja ci informa che nello zelo di far penitenza dei propri peccati Sor Juana ripassava ogni giorno col suo sangue, «no sin ternura», la Protesta384. Il senso della colpa dovette divenire ossessivo nella suora, forse proprio perchè non riusciva a convincersene. Potremmo anche pensare che quanto Sor Juana fa e scrive in questo periodo risponda solo alla retorica del tempo. Tuttavia a dare carattere di sincerità ai suoi atti sta tutta la sua vista, dominata da un'acuta sensibilità e da una profonda onestà, soprattutto nei confronti della religione. Le sue proteste di indegnità non possono quindi essere interpretate come manifestazioni superficiali, nè lasciare indifferente chi oggi le legge; particolarmente allorchè nella Petición causídica. Sor Juana si dichiara «la más indigna e ingrata criatura» di quante creò la divina Provvidenza, e afferma di ritenersi giustamente degna di venir condannata a morte eterna, e che anche questo vorrà dire usare con lei clemenza, «por no bastar infinitos Infiernos para mis innumerables crímenes y pecados»385.

Si direbbe che Sor Juana provi piacere nell'umiliarsi. Per questo senso di peccato ogni momento della sua vita le appare degno di punizione. La sua stessa condizione religiosa le sembra colpevole: «ha tantos años -scrive- que vivo en Religión no sólo sin Religión, sino peor que pudiera un pagano»386.

I motivi accennati compaiono con insistenza nella Protesta. In essa la suora afferma la propria fede in termini di lacerante drammaticità. «Es mi intención pedir confesión de mis culpas -scrive ancora-, aunque falten signos exteriores que lo expresen»; e aggiunge: «creo todo aquello que cree y confiesa la Santa Madre Iglesia Católica, nuestra Madre, en cuya obediencia quiero morir, y vivir, sin que jamás falte a obedecer lo que determinare, dando mil veces la vida primero que faltar, ni dudar en algo de cuanto nos manda creer»387.

E' a questo punto che, decisa evidentemente a punire fino in fondo se stessa in quanto ha di più caro, Sor Juana raccoglie i suoi libri -più di quattromila se stiamo al Calleja388-, che costituivano il suo «quitapesares», e li consegna all'arcivescovo di Messico, don Francisco de Aguiar y Seijas perchè li venda, destinando il ricavato a beneficio dei poveri. L'impressione suscitata nella capitale dovette essere grande. Il Castorena informa che l'anno successivo lo stesso arcivescovo segui lo esempio della suora, vendendo a beneficio dei poveri la propria biblioteca, i gioielli, «hasta las vinajeras», mentre poche ore avanti la morte faceva vendere anche il letto su cui giaceva389.

Per Sor Juana la vendita degli oggetti cari fu l'ultimo atto di una battaglia interiore estremamente combattuta, risoltasi nella rinuncia completa. La suora tornava, così, all'umiltà e all'osservanza totale. La paura di perdere l'anima aveva avuto ragione dell'intelletto.

A proposito di questo momento della crisi sorjuanina il Reyes ha parlato molto esattamente di una pascaliana notte del Getsemani, in cui si fondono l'ordine attivo e intellettivo con quello mistico390. Non v'è dubbio, anche se non vogliamo spingerci così lontano, che nella completa abdicazione Sor Juana raggiunge il suo momento più umanamente alto, la fase più acuta del suo dramma. La sua ora più bella, quindi, come l'ha definita il Méndez Plancarte391, non certo quella della irrimediabile decadenza e rovina fisiologica, come altri ha detto392. Il significato di Sor Juana appare, anzi, più chiaro e luminoso proprio alla luce di questo momento. Nella sottomissione e nel silenzio della suora vive il dramma stesso del suo mondo, che tornava a chiudersi di fronte al futuro.

Perciò la Respuesta a Sor Filotea è l'ultimo e il più alto documento non solo dell'eccezionale apertura intellettuale di Sor Juana, ma del mondo in cui visse, prima della sottomissione totale. Il fatto che Sor Juana si sottometta dopo un ultimo atto di protesta risponde a un vasto timore spirituale, che si manifesta in desiderio di volontaria penitenza e di umiliazione, in negazione totale di sè per non perdere l'anima.

Dal punto di vista letterario il valore della Respuesta si impone chiaramente. In essa la critica ha visto uno dei momenti più alti della letteratura ispanica393. Il Reyes l'ha avvicinata, salve epoche e distanze, alla Introduction à la Méthode di Valéry e ne ha sottolineato i raggiungimenti di nitidezza e di straordinaria precisione mentale394. Nella Respuesta Sor Juana procede con cosciente misura e con abile senso dell'effetto, che non significa insincerità, ma solo coscienza di stile. Lo scritto sorjuanino si snoda per piani successivi, con lunghi paragrafi per così dire d'appoggio, ricchi di citazioni di testi e di autori sacri, cui succedono larghi sfoghi intimi, in una serie alterna di molta efficacia. Questa particolare tecnica permette a Sor Juana di richiamare immediata l'attenzione del lettore, del suo interlocutore, sulla propria situazione, con un'evidenza profondamente suggestiva. Le stesse esemplificazioni, di gusto tipicamente barocco, ma ricche di vita intima, di dimensione, si imprimono e operano nel lettore. Si veda l'allusione alla situazione tormentata delle statue eminenti sulle vette dei templi, assalite da venti e tempeste. In esse Sor Juana rappresenta con raro vigore plastico e con una carica acuta di umanità la propria situazione:

«Suelen en la eminencia de los templos colocarse por adorno unas figuras de los Vientos y de la Fama, y por defenderlas de las aves, las llenan todas de púas; defensa parece y no es sino propiedad forzosa: no puede estar sin púas que le puncen quien está en alto. Allí está la ojeriza del aire; allí es el rigor de los elementos; allí despican la cólera los rayos; allí es el blanco de piedras y flechas. ¡Oh infeliz altura, expuesta a tantos riesgos! ¡Oh signo que te ponen por blanco de la envidia y por objeto de la contradicción! Cualquiera eminencia, ya sea de dignidad, ya de nobleza, ya de riqueza, ya de hermosura, ya de ciencia, padece esta pensión; pero la que con más rigor la experimenta es la del entendimiento»395.



Nella Respuesta la suora alterna abilmente l'impeto appassionato di chi si sente ingiustamente offeso, alla protesta di fede e di sottomissione, dando cosi vita alla pagina, che è riflesso diretto di una situazione combattuta, intimamente sofferta.

Se confrontiamo la prosa della Respuesta con quella del Neptuno Alegórico o della Carta Atenagórica, pur viva ed espressiva questa, la troviamo immediatamente diversa, più agile e mordente, come scaturita da situazioni più sofferte. Il periodare, teso, nervoso, sempre incisivo, si allunga non di rado in ampie volute musicali, sentimentali, che scavano nell'intimo. Nella Respuesta Sor Juana dimostra di dominare perfettamente uno stile suo, cui ricorre con un chiaro fine da raggiungere, l'immediatezza al disopra dell'erudizione, come si conviene a ragioni urgenti da esprimere, che salgono dal profondo. Perciò si vale con abilità di tutti i mezzi della retorica per raggiungere efficacia, rifiuta l'ampollosità, sfuma le tinte, ripudia l'eccessivo ornato e fa piuttosto assegnamento sulla concisione, sulla linearità del disegno, sul valore musicale del periodo per ottenere effetti sentimentali diretti, richiamando l'attenzione del lettore con un verbo improvviso o con una efficace interrogazione in cui è già trasparente la risposta. Le citazioni dei testi e degli autori sacri sono un passaggio d'obbligo nello stile del tempo e più per Sor Juana; ma questi brani di erudizione sono intersecati da sfoghi di viva umanità che finiscono per imporsi come punte eminenti su un fondo, per quanto interessante, in sostanza grigio, dando allo scritto un senso drammatico che ancor oggi gli dà vita. Cosi che di tutti gli scritti in prosa la Respuesta a Sor Filotea è l'opera che meglio e con più compiutezza ci offre la misura di Sor Juana scrittrice, e al tempo stesso il documento più toccante della sua umanità.

Scriveva Pedro Salinas che Sor Juana Inés de la Cruz non interessa per quello che fu o che fece, ma per quello che volle essere, per quello che avrebbe potuto essere396. La Respuesta, e tutta la sua opera, in sostanza, parlano chiaramente di tutto questo e di qui prendono il loro interesse. Opera viva, che si afferma sul tempo, al disopra del mutare del gusto, nonostante le possibili manchevolezze, inevitabili in una produzione così vasta, che consacra Sor Juana tra i più significativi autori del Siglo de Oro, tra i più stimolanti, in definitiva, di essi. A ragione, quindi, il Méndez Plancarte chiude con il suo nome, non con quello di Calderón, l'epoca più fulgida della letteratura spagnola397.





 
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