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Onore e delitto in tre drammi calderoniani


Circa il concetto ispanico del «pundonor» molto si è detto ed esiste un'ampia bibliografia. Calderón ha dato alla drammatizzazione del tema, come è noto, un contributo determinante, in particolare in tre opere divenute famose: El médico de su honra, A secreto agravio secreta venganza, El pintor de su deshonra. Sono drammi che riflettono immediata la mentalità delle classi alte del secolo XVII, per le quali soprattutto contava l'immagine esteriore165. In comune queste opere hanno la truculenza, la tirannia dell'apparenza, la fedeltà più stretta al vincolo coniugale, condizione assoluta per l'onorabilità del marito e della famiglia166.

Che cosa si proponesse Calderón con questi drammi è difficile dire, se pensiamo che essi venivano rappresentati anzitutto a corte, davanti ai reali e a una nobiltà, probabilmente bigotta,   —134→   ma non certo virtuosa, a cominciare dal re, le cui avventure hanno riempito i notiziari dell'epoca: è sufficiente ripercorrere gli Avisos di Pellicer e le notizie di Barrionuevo. Ma presso il popolo, cui pure veniva aperto lo spettacolo, il tema doveva avere un notevole impatto e certo anche la chiesa approvava, in quanto tali «esempi» convenivano al radicamento di una condotta morale rigorosa nelle relazioni matrimoniali.

El médico de su honra fu pubblicato nel 1637, nella Segunda Parte de Comedias di Calderón, ma era già stato rappresentato diversi anni prima. L'azione è posta in Siviglia, all'epoca del re di Castiglia, don Pedro «el Cruel», ucciso poi dal fratellastro don Enrique nel 1369. Ed è precisamente l'Infante don Enrique, più tardi re, l'attentatore all'onore di don Gutierre Alfonso, nobile di grande casata.

Il fondo storico conviene al dramma, in quanto, si suppone, il pubblico aveva notizia degli avvenimenti violenti del passato. Infatti, l'uccisione del re don Pedro aveva avuto larga eco nella cronaca medievale e nei romances. Malgrado lo definissero «crudele», egli era stato un re di rilievo nella Castiglia e aveva finito per fissare a Siviglia la sede della sua corte. Severo e inflessibile lo presenta nel dramma Calderón, il quale, tuttavia, neppure del principe don Enrique fa una figura negativa, anche se su di lui pesava, per la sensibilità del pubblico, il fatto di sangue attraverso il quale era pervenuto al trono. Del resto, il drammaturgo nella sua opera richiama abilmente l'evento tragico, sottolineando il sospetto con cui il re vede l'assenza improvvisa del fratellastro da corte, preceduta da un curioso incidente: nel prendere dalle mani del sovrano il suo pugnale, Enrique ferisce involontariamente la mano che glielo porge, dando luogo nel re a seri sospetti. Il dramma è dominato dalla casualità e gli avvenimenti si complicano talmente che, ad un certo punto, si fanno inestricabili e tutto precipita verso la catastrofe, cui presiede la fatalità.

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Nel primo atto siamo, naturalmente, ai preliminari: l'Infante don Enrique, a Siviglia, cade da cavallo e rimane tramortito; due gentiluomini lo raccolgono e lo portano in una splendida villa, dove, quando l'infortunato riprende conoscenza, si accorge che la padrona di casa, doña Mencía, moglie di don Gutierre, è la donna che aveva amato. Ugualmente riconosciuto dalla dama, il turbamento è condiviso. Tra i due s'intreccia un discorso: il principe manifesta il suo risentimento nel vedersi dimenticato, ma in lui ha il sopravvento l'amore; la donna difende la sua onorabilità, ma in sostanza confessa di amarlo ancora, e tuttavia, in quanto sposa ora di un altro, ha un onore da difendere. A sua volta anche don Gutierre aveva avuto un altro amore, per doña Leonor che, lasciata per falsi sospetti di tradimento, è decisa a chiedere vendetta al re.

Le difese di Leonor sono prese da don Arias, il quale afferma di essere lui l'uomo che don Gutierre aveva creduto l'amante: si era introdotto nella casa perché era presente un'amica che amava, ora defunta. I due gentiluomini sguainano le spade, ma sono duramente redarguiti dal sovrano e imprigionati dai suoi uomini.

Il re se ne va indignato; le guardie portano via i contendenti, mentre il principe don Enrique si rallegra di poter così vedere, la sera stessa, doña Mencía, senza temere l'arrivo del marito. Di fronte al dolore manifestato da don Gutierre di non poter tornare dalla moglie, doña Leonor, presente, si sente ancora più offesa e ritiene perduto il proprio onore, così che arriva a invocare per il traditore una dura vendetta:


¡Muerta quedo! ¡Plegue a Dios,
ingrato, aleve y cruel,
falso, engañador, fingido,
sin fe, sin Dios y sin ley,
—136→
que como inocente pierdo
mi honor, venganza me dé
el cielo! ¡El mismo dolor
sientas que siento, y a ver
llegues, bañado en tu sangre,
deshonras tuyas, porque
mueras con las mismas armas
que matas, amen, amen!
¡Ay de mí!, mi honor perdí.
¡Ay de mí!, mi muerte hallé.167



Passo melodrammatico; donna terribile Leonor: la sua maledizione si verificherà puntualmente. Quanto a morire, la donna non ci pensa minimamente, ma certo la perdita dell'onore era una forma di morte civile.

Il primo atto del dramma, una sorta di «telenovela» ante litteram, presenta dunque una serie di motivi che saranno sviluppati negli atti successivi: onore offeso di don Gutierre; onore offeso di doña Leonor; amore ormai riprovevole di don Enrique per doña Mencía; sospetti del re per le intenzioni del fratellastro verso di lui. Quest'ultimo motivo rimane allo stato embrionale di preoccupazione in don Pedro; domina il dramma la vicenda nella quale sono coinvolti don Gutierre, doña Mencía, doña Leonor e don Enrique.

Nel secondo atto, infatti, il principe, introdotto nel giardino di doña Mencía da una schiava prezzolata, Jacinta, ha modo di parlare alla donna, ma il loro colloquio è interrotto bruscamente dall'arrivo del marito, al quale il governatore della fortezza in cui era stato rinchiuso, suo amico, ha permesso di assentarsi per qualche ora. E questa l'origine di concitati movimenti:   —137→   doña Mencía si vede già morta e fa nascondere don Enrique; il marito è frastornato da rumori e da vaghi indizi di presenze estranee nella casa; Jacinta, in un momento in cui la sua padrona lascia cadere ad arte la candela, riesce a far uscire dalla casa don Enrique. Abilmente doña Mencía avanza il sospetto che si sia trattato di un ladro, ma il marito rinviene un pugnale finemente lavorato e ha dei sospetti, che cerca ancora di fugare, anche se in realtà incominciano a roderlo dentro.

Quando la gelosia prende corpo, il dramma è già in uno stadio avanzato. Due sono le persone tormentate: doña Mencía, per paura di complicazioni, anche se non cede alla tentazione, e il marito, per il suo onore. Don Gutierre, sospettoso del principe, gli fa discorsi di scandaglio, e si accentua il suo sospetto. Constaterà poi che il pugnale che ha trovato è molto simile a quello di don Enrique e da ciò avrà un'ulteriore conferma.

Interessante è notare il concetto che l'uomo del secolo XVII, almeno quello che compare nei drammi di Calderón, ha della donna: essa è ritenuta una proprietà e fonte prima di pericolo per l'onore maritale. Don Gutierre se ne lamenta come di una ingiusta legge, ma ingiusta per l'uomo, la cui onorabilità è in balia della moglie:


¿Qué injusta ley condena
que muera el inocente y que padezca?
A peligro estáis, honor,
no hay hora en vos que no sea
crítica; en vuestro sepulcro
vivís; puesto que os alienta
la mujer, en ella estáis
pisando siempre la huesa.168



  —138→  

Affidato alla donna, l'onore è sempre sull'orlo del precipizio. Di qui la decisione del marito di porre rimedio al pericolo, di essere il medico di esso, ricorrendo a un comportamento astuto, a una «dieta» particolare che non permetta l'ulteriore progresso del male:


Yo os he de curar, honor,
y pues al principio muestra
este primero accidente
tan grave peligro, sea
la primera medicina
cerrar al daño las puertas,
atajar al mal los pasos.
Y así os receta y ordena
el médico de su honra
primeramente la dieta
del silencio, que es guardar
la boca, tener paciencia;
luego dice que apliquéis
a vuestra mujer finezas,
agrados, gustos, amores,
lisonjas, que son las fuerzas
defensibles, porque el mal
con el despego no crezca;
que sentimientos, disgustos,
celos, agravios, sospechas,
con la mujer, y más propia,
aún más que sanan, enferman.169



Condotta prudente e accorta, ma anche un'attività di investigatore: saltando la «tapia» del giardino di casa don Gutierre penetrerà, di conseguenza, nella camera della moglie,   —139→   addormentata, e dichiarandole amore nell'oscurità della stanza sarà sorpreso dal fatto che lei lo identifichi subito con il principe, anche se la poveretta insiste perché se ne vada credendolo tale. Nascostosi, all'arrivo di Jacinta con il lume, don Gutierre finge di entrare in quel momento, ma il suo discorso è presto pregno di significati cupi e tanto che la moglie è terrorizzata, mentre nell'uomo si afferma una decisione di morte, dove non ha posto nessun sentimento:


Pues médico me llamo de mi honra
yo cubriré con tierra mi deshonra.170



Siamo al centro del dramma, momento in cui tutto incombe ma ancora la catastrofe non si verifica, quindi clima di grande suspense per lo spettatore, ansioso di vedere in qual modo il marito geloso realizzerà il suo cupo disegno, mentre nel prosieguo del dramma le supposte prove di offesa all'onore di don Gutierre da parte di don Enrique si vanno accumulando. Quando il principe decide di allontanarsi da Siviglia il problema per la donna si fa serio, poiché l'assenza improvvisa dell'Infante finirebbe per confermare i sospetti del marito e per accusarla apertamente, anche se innocente. Ascoltando allora il suggerimento del gracioso, Coquín, doña Mencía decide di scrivere a don Enrique perché non parta; sopraggiunge il marito che vedendola intenta a scrivere s'impadronisce del foglio, lo legge, si conferma nei suoi sospetti e infine aggiunge di sua mano un funebre avvertimento alla moglie:


«El amor te adora, el honor te aborrece;
y así el uno te mata y el otro te avisa:
—140→
dos horas tienes de vida, cristiana eres,
salva el alma, que la vida es imposible».171



Alla lettura di queste parole doña Mencía cade nella disperazione, ma è sola e praticamente prigioniera nella casa, dove ora, come lei stessa dice, va «tropezando» nell'ombra della sua morte. Infatti non starà molto a tornare don Gutierre, seguito da un «barbero», bendato perché non riconosca luogo né persone; il marito lo costringerà a praticare alla donna addormentata un salasso che la dissanguerà, poi ucciderà anche il carnefice.

La tragedia finisce, come era prevedibile, ma anche ostensibilmente tragico. Che don Gutierre compia un atto tremendo, esemplare, è un fatto, ma che la sua azione riceva poi il plauso del re è singolare, pur tenendo conto delle idee dell'epoca relativamente alla difesa dell'onore. Ed è pure sorprendente la facilità con cui don Gutierre passa subito, artefice il sovrano, a sposare doña Leonor, restaurando anche per lei, senza spargimento di sangue, l'onore. Uomo fondamentalmente onesto, si potrebbe dire, il nuovo sposo non manca neppure di avvisare la dama del pericolo cui va incontro, nel caso pensi di attentare alla sua onorabilità:


Mira que médico he sido
de mi honra: no está olvidada
la ciencia.172



Ma le donne innamorate hanno, evidentemente, un grande coraggio, se l'intrepida Leonor risponde autorizzando lei stessa, nel caso, l'applicazione del rimedio: «Cura con   —141→   ella / mi vida, en estando mala»173. Tutto questo accade nel terzo atto. Nella tragedia familiare è bastato il sospetto perché la morte fosse decretata e considerata legittima.

Dramma coinvolgente, e sconvolgente, El médico de su honra, di raro lugubrismo e tensione, dove caso e fatalità sono i grandi protagonisti. Era necessario seguirne nei particolari lo sviluppo, al fine di penetrarne il cupo processo, che sfocia nel delitto e nel sangue. Non si fa fatica a credere che il pubblico seguisse, se non terrorizzato, certamente teso, il procedere fatale del «vendicatore» verso il delitto, ma certamente doveva ancor più colpire il destino dell'innocente doña Mencía votata alla morte.

Quanto a doña Leonor è un personaggio sfuocato, soprattutto nel finale, che la pone con suo pieno consenso in mano di un assassino. Viene da chiedersi come poteva il fresco «giustiziere» avvicinare ancora una donna dopo quanto aveva compiuto. Ma siamo in teatro e anche Calderón non andava tanto per il sottile. Del resto, all'epoca la donna era un oggetto e forse non è sbagliato vedere nel dramma una protesta del drammaturgo, come sostiene Thomas Austin O'Connor, per il quale

En esta obra Calderón desinfla la autoimagen heroica de la España masculina al reducirla a una tipifìcación contemporánea. En vez de producir acciones virtuosas dignas de alabanza, esta sociedad masculina mantiene un código del honor degenerado que promueve el vicio. En vez de una nobleza verdadera que promueva en nombre de Dios, patria y familia, halla Calderón una mezquindad de mente y una vileza de espíritu, características de una nación degenerada. En vez del heroismo de las glorias pasadas de España, encuentra un fingimiento y una postura   —142→   que sólo pueden burlarse de la historia al imponer todo su poder y peso sobre unas mujeres desgraciadas.174



Ma certo il pubblico era attratto dal dramma di sangue in sé, che di sicuro condannava, tuttavia senza troppe riflessioni, forse pensandolo proprio di una società alta che sentiva diversa da sé, ma non tanto da non ammirarne la ferocia delle manifestazioni nel caso in questione.

Probabilmente verso il 1635 il grande commediografo scrive il dramma A secreto agravio, secreta venganza. Consta che l'opera fu rappresentata a Madrid agli inizi di giugno dell'anno successivo e data alle stampe nella seconda parte delle commedie calderoniane nel 1637. Si tratta di uno dei drammi più impegnativi e discussi di Calderón. Diversi critici ne hanno lodato la perfezione del disegno, la maestria delle soluzioni tecniche, il ricorso al soliloquio, lo studio psicologico dei personaggi175.

L'argomento è accentuatamente tragico e l'operato di don Lope de Almeida, nobile portoghese e uomo maturo che si appresta alle nozze, non finisce di convincere, pur considerando   —143→   il dovere tirannico di difendere il proprio onore. Osservazioni che facciamo oggi, con mentalità ben diversa da quella degli uomini del secolo XVII. E tuttavia vi è chi ancora ne sente il fascino, come il Ruiz Ramón, il quale scrive che nei drammi calderoniani dell'onore, tra essi A secreto agravio, secreta venganza, vi è «un extraño y poderoso enlace entre lógica y monstruosidad que, aun hoy, pese a que el código del honor que los sustenta no tenga vigencia, nos toca profundamente»176. È fuor di dubbio che un alone di sinistra grandezza permea il dramma e non può a meno di attrarre.

La vicenda è ambientata a Lisbona, città di straordinaria bellezza all'epoca e di grande rilevanza nella scena ispanica. Don Lope de Almeida è uno dei personaggi di spicco dell'entourage del re don Sebastián; ha combattuto per il sovrano, il quale ora che si accinge a portare la guerra in África, celebra il valore del suddito -al quale ha concesso di restare in patria, poiché si è appena sposato-, esclamando:


¡Ah don Lope de Almeida! si tuviera
en África esa espada, yo venciera
la morisca arrogancia y bizarría.177



Sappiamo dalla storia che don Sebastián sarà invece sconfitto, anzi il suo cadavere neppure ritrovato, aprendo una lunga ferita nella sensibilità portoghese, rappresentata, appunto, dal «sebastianismo», una sorta di mitizzazione messianica del sovrano scomparso nel 1578, del quale a lungo   —144→   si attese il ritorno, dando spazio anche a singolari personaggi che tentarono di impersonarlo. Il dramma si apre, quindi, con un personaggio del quale il pubblico conosce la triste fine.

Tutto è disposto, nel primo atto, perché dati e presenze suggeriscano il clima tragico del finale; soprattutto sono trattati i temi dell'onore e dell'amicizia, insieme a quello dell'amore, non solo, ma della nazionalità. Non bisogna dimenticare che doña Leonor, la quale viene sposa a don Lope de Almeida, è castigliana. Tra spagnoli e portoghesi esisteva, come osserva il Valbuena Briones, «una tradición de suspicacias», di modo che nella letteratura spagnola dell'epoca i vicini lusitani venivano caratterizzati come «arrogantes y vengativos», anche se esteriormente si ammirava il «país hermano» e Calderón nel dramma fa un caloroso elogio delle gesta portoghesi178. Un'ammirazione, va pure detto, legata al momento in cui il Portogallo e le terre dell'immenso impero portoghese, d'África, d'Asia e d'America erano passati per eredità alla Spagna, ai tempi di Filippo II.

In realtà tra spagnoli e portoghesi vi era reciproco rancore, o comunque diffidenza, lunga a scomparire. Inoltre gli spagnoli, oltre a ritenersi più colti, godevano ancora, ai tempi di Calderón, nonostante tutto, di un grande prestigio internazionale. In particolare la corte spagnola era fastosa e la vita cortigiana, anche se regolata da norme severe di etichetta, era più aperta alla galanteria; tale era stata anche la corte di Castiglia179. Nella commedia il nobile portoghese non riuscirà invece ad ammettere il «galanteo» intorno alla moglie e   —145→   questa, in quanto castigliana, sarà tenuta d'occhio con diffidenza.

Bisogna riconoscere, tuttavia, che il povero marito aveva buone ragioni per stare in sospetto, in quanto doña Leonor aveva avuto una precedente relazione amorosa con don Luis de Benavides, cavaliere avvenente e valoroso, dato per morto al servizio del re nelle Fiandre. Senonché il giovane non era affatto defunto e venuto a conoscenza delle prossime nozze della donna cerca di intervenire, ma giunge quando ormai tutto è compiuto. Ciò nonostante, si presenta alla donna travestito da venditore di gioielli e le fa avere un diamante, che la giovane sposa riconosce. Verrà quindi il chiarimento tra i due e, nonostante l'impegno d'onore con il marito, l'amore rinascerà, foriero delle più tragiche conseguenze.

Don Lope de Almeida, bisogna riconoscerlo, è un personaggio estremamentre sospettoso. La sua vita è tormentata dal timore che la giovane moglie possa tradirlo e con ciò perdere il suo onore. Un timore in parte giustificato anche dal fatto che si trova insistentemente tra i piedi quel giovanotto, don Luis, la cui presenza finisce per spazientirlo:


¡Válgame Dios! ¿Quién es este
caballero castellano
que a mis puertas, a mis redes
y a mis umbrales clavado,
estatua viva parece?180



Ad un certo punto se lo ritroverà persino in casa -doña Leonor gli ha dato appuntamento per chiarire tra loro le cose-, in una scena tragicomica, nella quale interviene anche   —146→   un vecchio amico di don Lope, don Juan, da lui accolto con generosità, il quale va alla ricerca, nel buio, dell'intruso per ucciderlo. Avesse prestato orecchio il novello e maturo sposo all'avvertimento del servo, di andar con calma, di pensarci bene prima di sposarsi con quella giovane: un vero errore.

Come sempre i servi sono più saggi dei padroni nel teatro spagnolo e certo doveva essere uno spettacolo non troppo dignitoso l'agitazione dell'anziano sposo. Il quale, comunque, è uomo generoso e d'onore, come grato e d'onore è don Juan, il beneficiato, che viene dalle Indie Orientali, dove per una donna ha ucciso un cavaliere ed è ricercato, quindi è tornato in Portogallo clandestinamente e povero. L'accoglienza che riceve da don Lope lo fa sentire in obbligo di custodirne anche l'onore e tanto che, ad un certo punto, è pure di peso al povero marito, che già sospetta il tradimento della moglie.

Gli indizi sono troppi: la facilità con cui doña Leonor concede allo sposo di seguire il re nella campagna d'Africa, la presenza di don Luis nel palazzo -a nulla valgono le scuse: era inseguito, dichiara, e si è rifugiato nella prima casa che ha trovato-, giustificazioni non richieste della donna terrorizzata, misteriose parole del re circa la necessità della presenza del marito presso la moglie. Per evitare che il disonore divenga pubblico è lo stesso don Lope a far uscire dalla parte del giardino don Luis e a dichiarare all'amico che era lui stesso la presenza avvertita nella casa. L'onore deve essere al sicuro ad ogni costo, ma occorre ugualmente la vendetta, una vendetta segreta, come suggerisce don Juan, lui esempio doloroso di «desmentido», poiché rese pubblica la sua offesa, nel qual caso tutto è perduto: la macchia infamante rimane, per quanta vendetta se ne faccia.

Circostanze e ragionamenti che convincono don Lope; la sua vendetta sarà nascosta, «a secreto agravio, secreta venganza»,   —147→   e colpirà entrambi i colpevoli: un duplice delitto. Ciò avviene nel terzo atto: il re esce da Lisbona e si dirige con la corte a Villa del Rey; lo segue anche don Lope, che partirà con lui, ma prima realizzerà la sua vendetta: ucciderà la moglie, ora in una sua villa vicina, ne incendierà il letto e tutto arderà. Il caso gli permette, tuttavia, di uccidere prima anche don Luis, tipo perfetto dello sconsiderato corteggiatore, che pensa il marito ignaro di tutto. Infatti, approfittando della partenza di don Lope, egli sta per recarsi dall'amata, ma per raggiungerla deve attraversare un passo invaso dall'acqua del mare; non vi è altra barca che quella di cui si serve don Lope e lo sfacciato e incauto amatore gli chiede un passaggio, occasione propizia per il giustiziere. Lasciato il barcaiolo a riva, il vendicatore del proprio onore ha modo di pugnalare don Luis e di gettarne il corpo in mare, quindi di raggiungere a nuoto la riva, dove è raccolto da don Juan e dalla sua gente e portato alla villa. Egli racconta di un naufragio e della morte in esso di don Luis. Doña Leonor sviene; don Juan capisce e approva l'amico:


¡Qué bien en un hombre luce
que callando sus agravios,
aun las venganzas sepulte!
De esta suerte ha de vengarse
quien espera, calla y sufre.181



Elogio singolare del delitto. Lo svenimento della moglie conferma don Lope nei suoi sospetti e nella decisione criminale. Nella notte consuma la vendetta e in breve tutta la villa arde. Il re e il suo seguito accorrono; don Juan -nuova prova di amicizia- sta per gettarsi tra le fiamme per salvare   —148→   don Lope, ma questi appare improvvisamente recando tra le braccia la moglie morta. Il re chiede: «¿Es don Lope?». E lui stesso risponde:


   Yo
soy, Señor, si es que me deja
el sentimiento, no el fuego,
alma y vida, con que pueda
conoceros, para hablaros,
cuando vida y alma atentas
a esta desdicha, a este asombro,
a este horror, a esta tragedia,
yacen en pálidas cenizas.
Esta muerta beldad, esta
flor en tanto fuego helada,
que sólo el fuego pudiera
abrasarla, que de envidia
quiso que no resplandezca:
ésta, Señor, fue mi esposa,
noble, altiva, honrada, honesta,
que en los labios de la fama
deja esta alabanza eterna.
Esta es mi esposa, a quien yo
quise con tanta terneza
de amor, porque sienta más
el no verla y el perderla,
con una tan gran desdicha
como en vivo fuego envuelta,
en humo denso anegada
pues cuando librarla intenta
mi valor, rindió la vida
en mis brazos. ¡Dura pena!
¡Triste horror! ¡Fuerte suceso!
Aunque un consuelo me deja,
y es que ya podré serviros;
—149→
pues libre de esta manera,
en mi casa no haré falta.
Con vos iré, donde pueda
tener mi vida su fin,
si hay desdicha que fin tenga.182



Finale di tragici accenti, in cui si afferma una serie di menzogne, che finiscono di definire negativamente la personalità dell'uomo, ben lontano dall'ideale del cavaliere. Ma i parametri erano irrimediabilmente cambiati e solo l'esteriorità contava. Inoltre, l'assassino fa cinicamente della sua azione una tattica esemplare raccomandabile; dice «aparte» all'amico don Juan:


Y vos, valiente don Juan,
decid a quien se aconseja
con vos, cómo ha de vengarse
sin que ninguno lo sepa;
y no dirá la venganza
lo que no dijo la afrenta.183



È un chiaro incitamento a delinquere, ma non stupisce nessuno. Tutto sembra normale; sempre «aparte», don Juan spiegherà al re i fatti e questi darà piena approvazione all'operato del vendicatore:


   Es el caso más notable
que la antigüedad celebra,
porque secreta venganza
requiere secreta ofensa.184



  —150→  

Leggi dell'onore certamente, non tanto tiranniche quanto criminali. Se Calderón non sottendeva alle sue opere un'intenzione critica, il giudizio sul drammaturgo diviene problematico. Ma non è facile chiarirlo. Si può tranquillamente affermare che A secreto agravio, secreta venganza è un dramma mostruoso quanto a principi morali, ma l'autore cercava, come è logico, il successo e si sa quanto ciò che è anormale attragga la massa, ma anche la scelta società di corte, che non si sentiva intaccata da questi fatti ignominiosi, per quanto i testi presentassero in scena personaggi della nobiltà.

Dal punto di vista drammatico l'opera raggiunge il suo scopo, che è quello di avvincere, qui con l'orrido, lo spettatore. Non domina il sangue, ma il fuoco, anche se don Luis muore pugnalato, ma nell'acqua, che tutto cancella. La messa in scena, con la villa che arde sullo sfondo, come la «tramoya» barocca riusciva a rappresentare al vivo, e il marito criminale reggente tra le braccia il corpo esanime della moglie, doveva dar luogo a uno spettacolo di intensa nota terrificante.

Letterariamente A secreto agravio, secreta venganza si afferma come uno dei capolavori di Calderón nel genere, con carattere di grande tensione, sostenuta da una versificazione fluida. I personaggi principali sono adeguatamente studiati, soprattutto il marito geloso, l'amico sincero, la donna passionale e civetta, lo spasimante superficiale, né lo sono meno i servi, caratterizzati da un dialogare ricco di humor popolare.

Il medesimo clima tragico si ritrova nel dramma El pintor de su deshonra, opera pubblicata a Zaragoza nel 1650, nella Parte XLII de Comedias de diferentes Autores, poi a Madrid nel 1677, nella Quinta Parte de Comedias di Calderón.

  —151→  

Si è affermato che i valori umani conferiscono a questa tragedia un posto particolare entro l'opera del drammaturgo spagnolo e il Valbuena Briones che l'«hábil y forjada técnica resplandece en los detalles»185. Inoltre, El pintor de su deshonra spicca «por cierto naturalismo que enriquece y refresca la concepción dramática, y también por el tratamiento del concepto del hado, que adquiere aquí ciertos tonos románticos»186.

Curato è lo studio psicologico dei personaggi. La sorte domina il dramma e lo libera dalle brutalità presenti nei drammi precedentemente esaminati. Vi è anche maggior movimento nella scena, che si sposta in tre luoghi diversi: da Gaeta a Barcellona, a Napoli.

La trama è presto riassunta: Serafina crede morto il suo innamorato e sposa il cugino, Juan Roca, anche in questo caso un uomo maturo: nozze combinate, secondo il costume dell'epoca, mancanza di vero amore, unica finalità mantenere unito un ingente patrimonio. Non appena la donna è sposata ricompare, more solito, il precedente innamorato, don Álvaro, che riprende a corteggiare la giovane, la quale cerca di difendere la propria nuova condizione.

Trasferitisi gli sposi a Barcellona, don Álvaro ricompare travestito da marinaio. La donna ora è più che mai decisa e lo scaccia, ma interviene il destino: la casa degli sposi si incendia e il marito stesso, salvata la moglie, la consegna svenuta nelle mani di alcuni marinai, tra essi Álvaro, che la rapisce e cinicamente ne approfitta. Nel dramma, quindi, a differenza dei precedenti, l'adulterio è consumato, anche se senza colpa   —152→   della donna; ma la macchia all'onore dello sposo non può essere riscattata che dalla vendetta.

Nel terzo atto interviene ancora il destino: i due, ormai amanti, si sono trasferiti a Napoli, ma Serafina è scontenta del giovanotto, che l'ha rapita e ha approfittato di lei, togliendola dalla tranquillità e dall'agiatezza della casa del marito, il quale intanto, alla ricerca dei due, arriva anch'egli nella città partenopea ed entra a lavorare come pittore presso il Principe de Ursino. Il caso si complica, perché il principe si è a sua volta innamorato di Serafina e ordina al pittore di farne segretamente il ritratto. E allora che Juan Roca scopre l'identità degli amanti e di fronte alle loro manifestazioni d'amore, infuriato, li uccide con la pistola.

Naturalmente i genitori di Serafina e di don Álvaro approvano la vendetta del marito, che tuttavia si ribella alla tirannia della legge dell'onore. Nessuno, infatti, è del tutto innocente: tutti hanno una parte di colpa, anche se è il destino che ha determinato gli eventi. Dopo la vendetta, dopo il delitto, don Juan esperimenta una sorta di pentimento o di disperazione; si sente colpevole verso tutti e richiama su di sé la vendetta:


   Un cuadro es,
que ha dibujado con sangre
el pintor de su deshonra.
Don Juan Roca soy: matadme
todos, pues todos tenéis
vuestras injurias delante:
tú, don Pedro, pues te vuelvo
triste y sangriento cadáver
una beldad que me diste;
tú, don Luis, pues muerto yace
tu hijo a mis manos; y tú,
—153→
Príncipe, pues me mandaste
hacer un retrato, que
pinté en su rojo esmalte.
¿Qué esperáis? Matadme todos.187



È questa la prima volta che in un dramma d'onore l'uccisore mostra pentimento ed è la prima volta che si può riconoscere l'atteggiamento di condanna di Calderón nei riguardi dell'imperativo tirannico dell'onore.

Il principe Orsini, quasi a premiare l'assassino, interviene per proteggere il disperato marito e ne favorisce la fuga:


Ninguno intente injuriarle;
que empeñado en defenderle
estoy... Esas puertas abre.

 (Abre Abelardo la puerta que cerró y sale don Juan) 

Ponte en un caballo ahora,

 (A don Juan)  

y escapa bebiendo el aire.188



Il dramma è stato definito «comedia patética». Vi è chi ha almanaccato sulle possibilità di uno svolgimento diverso se i personaggi si fossero comportati in altro modo189, ma non è il caso di insistervi. Il dramma è come Calderón lo ha pensato e qui è da celebrare che il drammaturgo abbia reso meno sicuro del proprio diritto di morte il vendicatore, dandogli una nota nuova di umanità. Senza dubbio era un fatto nuovo e non sappiamo se il pubblico lo apprezzò o forse abbia   —154→   rimpianto le caratteristiche crudeli dei drammi precedenti. Ma El pintor de su deshonra sembra pervaso di un'aria diversa, in certo modo rinascimentale, forse per l'ambientazione a Napoli, città di profonda suggestione culturale per la sensibilità spagnola.

Tre grandi drammi, quelli di Calderón, dove il delitto è inteso come riscatto, ma diviene anche tragedia personale, specchio di un mondo tirannicamente sottoposto all'apparenza, avulso dai grandi ideali politici e religiosi, alieno da ogni forma di comprensione e di perdono.





  —[156]→  

ArribaAbajo- II -

L'America nel teatro ispanico


  —157→  

ArribaAbajo- 1 -

Scoperta americana e conquista nel teatro di Lope de Vega


L'America è stata un punto rilevante di riferimento per il teatro spagnolo del Secolo Aureo, in particolare per autori come Lope de Vega, Tirso de Molina e Calderón. Storia e invenzione si mescolano nelle loro commedie, opere che contribuirono a diffondere una particolare figura, quella dell'«indiano», destinata ad avere ampio spazio in seguito come motivo umoristico nel teatro breve del secolo XVIII190

Sulla presenza dell'America nel teatro spagnolo esiste una consistente serie di studi191. Sarebbe stato, del resto, del tutto inspiegabile se i drammaturghi del Siglo de Oro non si fossero interessati a una realtà cosí presente per la Spagna, quale era l'America. Una molteplicità di problemi, oltre alle grandi rimesse di oro e di altre ricchezze, manteneva viva l'immagine del mondo americano nella penisola, anzitutto quello della «diversità», problema malgrado tutto non ancora   —158→   superato, nonostante lo stupore provocato dalla scoperta dei grandi imperi, vinti e sottomessi, una diversità che non si limitava alle persone e ai costumi, ma che si estendeva alla religione, provocando gravi conflitti e il ricorso non di rado alla violenza, a sostegno di un malinteso zelo di conversione.

Anche se esistettero personaggi come il padre Las Casas, ancora risuona sconcertante la dichiarazione di un «apostolo» quale fu fra Toribio de Benavente, per il quale la conversione era impegno assoluto, tanto da sostenere che «Los que no quisieren de grado oír el santo Evangelio de Jesucristo, sea por fuerza: que aquí tiene lugar aquel proverbio más vale bueno por fuerza que malo por grado»192.

Nella sensibilità ispanica, tuttavia, doveva imporsi anche una diversa considerazione verso l'indigeno. Se ne fanno espressione, nel teatro del secolo XVI, Michael de Carvajal e Luis Hurtado de Toledo nell'Auto de las Cortes de la Muerte, opera pubblicata nel 1557, ma risalente, nella sua prima gestazione, si pensa, al 1552, più volte rappresentata nel Cinquecento e, a quanto sembra, unico dramma «americano» del secolo giunto a noi193, contemporaneo, quindi, almeno per il suo inizio, della Brevísima relación de la destruyción de las Indias, del padre Las Casas. Vi si dibatte una molteplicità di temi, tra i primi e più scottanti quello del diritto ispanico a muovere guerra agli indigeni, a impadronirsi delle loro terre e dei loro beni. L'opera entra, cioè, nel vivo di una polemica ardente, nella quale il Las Casas aveva gran parte e che contribuì a stabilire, con gli apporti di Francisco de Vitoria nelle Relecciones teológicas, il moderno diritto dei popoli.

  —159→  

Anche nell'Auto è posto in rilievo il contrasto tra evangelizzazione e operato degli spagnoli. Le testimonianze indigene dei tempi della conquista abbondano di denunce relative al contrasto tra la predicazione evangelica e il reale trattamento riservato agli indios, tanto che la croce finì in molti casi per divenire per essi simbolo non della salvezza, ma della persecuzione194. I due drammaturghi danno anch'essi spazio nella loro opera a questa denuncia:


... cuando los dioses mudos,
bestiales, falsos y rudos,
adorábamos sin ser,
ninguno nos perturbaba
ni mataba ni robaba
ni hacía crudas guerras,
y agora que ya, ¡cuitados!,
nos habíamos de ver
un poco más regalados
por sólo tener los grados
de Cristiandad en tal ser,
parece que desafueros,
homicidios, fuegos, brasas,
casos atroces y fieros,
por estos negros dineros
nos llueven en nuestras casas195.



Riaffiora nell'Auto il clima proprio delle Danzas de la Muerte, nella difesa implicita di una onorabilità dell'agire, ma anche nel disprezzo assoluto per le ricchezze. L'oro non è qui   —160→   il «poderoso caballero» che con amaro umorismo condannerà Quevedo196, bensì la causa prima di ogni male, come denuncerà Guamán Poma de Ayala nella Nueva Corónica y Buen Gobierno, che invia al re Filippo III nel febbraio del 1615197.

Gli autori dell'Auto de las Cortes de la Muerte nell'impostazione del loro dramma rappresentano bene la coscienza religiosa ispanica. Essi stanno dalla parte dell'indio, come numerosi cronisti, a partire da fra Toribio de Benavente198 e da   —161→   Cieza de León, che nell'abbondanza dell'oro americano vedono un pericolo per la Spagna stessa e la sua economia199. Una radicata corrente, quella appunto che si esprime nelle Danzas de la Muerte, è presente nella condanna della sete smodata di ricchezza, e nel dramma si comprende la durezza delle accuse che il cacique formula, stabilendo un duro contrasto morale tra il mondo indigeno e quello ispanico, pienamente nella linea lascasiana del «buon selvaggio»:


Oh, hambre pestilencial
de aqueste oro maldito,
[...]
Que aunque la India es tenida
por simple, cierto no yerra
en despreciarlo, y lo olvida;
que al fin es tierra cocida
en las venas de la tierra.
¿Qué campos no están regados
—162→
con la sangre que a Dios clama
de nuestros padres honrados,
hijos, hermanos, criados
por robar hacienda y fama?
¿Qué hija, mujer ni hermana
tenemos que no haya sido
más que pública mundana
por esta gente tirana
que todo lo ha corrompido?
Para sacar los anillos
¿qué dedos no se cortaron,
qué orejas para zarcillos
no rompieron sus cuchillos,
qué brazos no destrozaron,
qué vientres no traspasaron
las espadas con gran lloro?
De estos males ¿qué pensaron?,
¿que en sus cuerpos sepultaron
nuestros indios su tesoro?200



Si ha l'impressione di leggere una pagina della Brevísima201,   —163→   ma gli autori del dramma non possono limitarsi alla denuncia: essi aprono la via alla speranza per il popolo indio, prospettando l'intervento di Dio, se ormai convertiti continueranno a venerarlo, giacché da altri demoni egli li ha già liberati:


creedme que os librará
de estos lobos robadores.
Servid a Dios, mis hermanos,
con corazón limpio y puro,
agora que sois cristianos...202



Scrive il Ruiz Ramón che l'Auto de las Cortes de la Muerte è l'unico testo «importante» che tratti il tema americano nel teatro del secolo XVI e che «apparentemente» prenda partito per l'«ilustre Obispo de Chiapas»203. Ma sul finire del secolo, o nell'immediato inizio del Seicento, Lope de Vega porta un suo contributo sostanzioso all'«americanismo» nel teatro del Siglo de Oro.

Nell'opera di Lope, poesia e teatro, i riferimenti al mondo americano sono numerosi, soprattutto per il Perú204, non solo   —164→   perchè il vicereame era, per le sue straordinarie ricchezze, centro attrattivo preminente all'epoca, ma perchè vi si trovavano, temporaneamente, con cariche politiche rilevanti, amici e conoscenti, ai quali il «Fénix» si sentiva profondamente legato, come don Juan de Mendoza y Luna, marchese di Montesclaros, viceré illuminato, grande amico degli anni ispanici. In altri casi ad orientare la sua attenzione furono vincoli di amicizia familiare; ciò avvenne per la famiglia del conquistatore dell'Araucania, don García Hurtado de Mendoza, marchese di Cañete, che Ercilla aveva punito, per rancori personali, nell'Araucana, con il completo oblio205. Ma neppure dovette essere indifferente la considerazione in cui Lope teneva, per il suo poema, l'Ercilla, e certamente anche l'Oña de El Arauco domado.

Su un piano più riservato e intimo è lecito anche ricordare l'esistenza della misteriosa «Amarilis indiana», che nell'«Epístola a Belardo» -nome con il quale si riferiva a Lope-, lo definiva «milagro» e a lui si offriva come «una alma pura a tu valor rendida»206. Infine non dovette avere poca parte, in questo orientamento, la diffusione delle opere teatrali di Lope nel vicereame peruviano207, che certamente   —165→   accentuò il suo interesse per quella parte del mondo coloniale americano.

Nel 1614 Lope de Vega pubblica la Parte Cuarta delle sue Comedias, dove è compreso il dramma El Nuevo Mundo descubierto por Cristóbal Colón, l'opera più notevole del teatro lopiano d'argomento americano. Si suppone che il dramma risalga, nella sua composizione, al periodo 1598-1603208, ma v'è chi propende per il 1605209. Tra gli stessi anni pare si debba porre la composizione di un'altra commedia americana, El Arauco domado, e forse, secondo alcuni, l'Auto sacramental de La Araucana, più probabilmente del 1599, anche se il dramma appare alle stampe solo nel 1625, a Madrid, nella Parte XX delle Comedias.

El Nuevo Mundo non è considerato da gran parte della critica tra i drammi più felici del grande drammaturgo. Già il Menéndez y Pelayo sottolineava negativamente il prevalere in esso della fedeltà storica sui valori drammatici e lo giudicava una creazione intrinsecamente debole, una delle opere peggiori del prolifico drammaturgo210. Ma El Nuevo Mundo non manca di meriti artistici; è comunque un documento importante per la presenza del tema americano nel teatro spagnolo del Siglo de Oro e per la considerazione in cui in Spagna era tenuto Cristoforo Colombo, la cui figura era stata alquanto appannata dai noti pleitos promossi contro la Corona dagli eredi dello Scopritore, a difesa dei diritti sanciti dalle   —166→   Capitulaciones di Santa Fe e limitati dalle successive revisioni.

Che Lope nel dramma si rifaccia con insistenza alla cronaca è stato rilevato puntigliosamente dal Campos, il quale sottolinea nel testo l'assoluta prevalenza di Gómara, con qualche presenza minima di Cieza de León211. Ciò confermano anche Lemartinel e Minguet, che tuttavia ampliano la gamma dei riferimenti, individuandone di nuovi, tra essi i Naufragios, di Alvar Núñez Cabeza de Vaca, almeno per certi nomi che compaiono nell'opera212. Ma giustamente il Minguet afferma che la commedia gli appare del tutto degna di riscatto, in particolare perché l'opera ha il merito di esporre in termini generali la maggior parte dei grandi problemi che la rivelazione di un mondo e di un'umanità nuovi hanno posto agli uomini del secolo XVI e che oggi noi continuiamo a porci213.

Tralasciando l'ulteriore rassegna dei giudizi critici favorevoli o sfavorevoli, confesserò che El Nuevo Mundo lascia alquanto perplessi e per valutarne i pregi occorre superare il primo disorientamento, come già scrissi in altro luogo214. Anzitutto   —167→   la commedia si configura come un'esaltazione della Scoperta in quanto finalizzata all'evangelizzazione, ma vi si mescolano diversi temi, tra essi quello dell'avventura erotica e della ricchezza. Lope è attratto dalla figura di Colombo, ne celebra il valore e la rettitudine, lo spirito cristiano, ma vede il mondo indigeno come curiosità e gli abitanti come personaggi ingenui, di fronte ai quali si afferma la maturità intellettuale e civile degli spagnoli. Né mancano note di umorismo genuino, che dovevano divertire il pubblico e ciò fin dall'inizio del primo atto, allorchè re Giovanni II di Portogallo rifiuta l'offerta di Colombo e lo consiglia di rivolgersi ai castigliani, «que se creen fácilmente». Lope ottiene, così, immediata adesione dagli spettatori, che sanno bene come l'impresa sia risultata a tutto vantaggio della Spagna.

Lo spirito religioso informa tutto il dramma, una vera e propria «comedia de santos», dove il glorificato è lo Scopritore e lo è la Croce miracolosa, che resiste ai tentativi di distruzione del capo indigeno Dulcanquellín e cresce sempre più rigogliosa, tanto da convincerlo, finalmente, con forza:


Sin duda que es verdadera
la cristiana religión;
quien dijere que no, muera215.



È l'apoteosi della religione e l'ultimo atto può concludere con il trionfo di Colombo, prescelto da Dio per il riscatto del mondo americano alla fede cattolica. Lope presenta i   —168→   sovrani entusiasti e il re Fernando -non già «secco» con lo Scopritore come denuncerà il figlio del Genovese216 -lo proclama nuovo Alessandro, anzi superiore a lui, perchè in soli otto mesi conquistò un mondo, e di nuovo ribadisce il significato simbolico del suo nome:


Vos tenéis lauros y palmas
de capitán sin segundo,
que a España habéis dado un mundo
y a Dios infinitas almas.
Cristóbal, vuestro apellido
os da alabanza, Colón,
que autor de tal redención
algo de Cristo ha tenido.
Vos, Cristóbal, como el santo
de estos mares ya vecinos,
hoy pasáis los peregrinos
en hombros que pueden tanto.
Y no es comoquiera el vuelo
que con ellos podéis dar,
pues pasándolos el mar,
les dais el puerto del cielo.
Y mirad que os digo en esto
de vuestros hombros y vos
que o se ha puesto en ellos Dios
o al menos su Iglesia ha puesto.217



  —169→  

Con il Predestinato è l'occasione di celebrare il luogo d'origine, Genova, ma anche la Spagna:


Hoy queda gloriosa España
de aquesta heroica victoria,
siendo de Cristo la gloria
y de un genovés la hazaña,
y de otro mundo segundo
Castilla y León se alaba218.



Termina in questo modo la commedia di Lope, libero interprete della storia, attento sempre a proiettare sulla patria e sui suoi re la gloria della diffusione della fede. Le rappresentazioni allegoriche appesantiscono, come d'uso, il dramma, ma sono presto dimenticate per la piacevolezza della trama, che mescola novità, meraviglia, scene d'amore e di «celos», vivo anche tra gli indigeni, e una sottile vena erotica che, mentre pone in rilievo la disponibilità delle indie, e quindi l'attrattiva degli spagnoli, incoraggia al meticciato quale mezzo per la parificazione dei due mondi, a tutto vantaggio della Spagna, s'intende. Dice, infatti, l'india Tacuana:


... que vuestros hijos pobres
jueguen ricos al tejuelo
con el oro de estos montes,
o los traigáis a casar
con nuestras hijas, adonde,
mezclándose nuestra sangre,
seamos todos españoles219.



  —170→  

È un embrassons nous attraverso il sesso, ma non doveva mancare un ultimo guizzo «pícaro», l'esaltazione della donna spagnola, della quale si rimpiange non vada nuda come le donne indigene, perchè, «A andar así las mujeres / de España, ¿quién se quejara?»220 Abiltà captatoria dell'astuto drammaturgo, che certamente doveva provocare, con l'ilarità, un fragoroso applauso.

Di indole diversa è El Arauco domado che, come detto, risale, con ogni probabilità, al 1599221. È questo un dramma abbastanza sconcertante, per la poca linearità della sua struttura, per le molte cadute di tono e numerose incongruenze. Si direbbe un'opera immatura, o almeno, che Lope compose con poche preoccupazioni, che non fossero quella dichiarata della celebrazione di don García Hurtado de Mendoza, «pacificatore» del Cile, e della sua casata. La commedia è dedicata al figlio del celebrato, quale «prenda» che restituisce «a su dueño», dolendosi di non aver comunicato prima al mondo «cosas tan admirables que, como sucedidas en el otro, parecen imposibles»222.

L'opera è un caratteristico lavoro su commissione, come d'uso, e già aveva soddisfatto a tale compito il «cileno» Pedro de Oña, ma con ben altro risultato artistico, nel poema dallo stesso titolo, El Arauco domado, pubblicato nel 1596,   —171→   dove esaltava il vincitore degli Araucani, ostentatamente oscurato, come si è detto, dall'autore de La Araucana.

I due poemi citati costituiscono il punto di riferimento per Lope, che da essi trae nomi di personaggi e notizie di vicende e di battaglie, intervenendo liberamente, ad affermare così nel dramma, nel bene e nel male, la propria originalità. Ma il testo appare sconnesso, scarsamente logico nelle sue scansioni e i protagonisti piuttosto falsi e incolori, mentre la versificazione è trascurata, affrettata, e presenta noiose ripetizioni di vocaboli che «afean» la rima o l'assonanza.

La vicenda è quella della sottomissione degli Araucani e della cattura e morte, per impalamento, del loro capo supremo, Caupolicán. Il primo atto si apre su una scena idilliaca del mondo indigeno. Lope era stato certamente colpito dall'episodio de El Arauco domado, in cui Oña presenta la splendida Fresia al bagno. Con compiacimento, animato da sottile erotismo, il poeta cileno immortalava la bianca bellezza femminile dell'indigena -stonatura evidente-, capace di far fremere di desiderio anche l'acqua che l'accoglieva. Tutto è finezza nel poema, straordinaria poesia già barocca.

Nel suo dramma Lope ripete originalmente l'incanto; l'innamorato Caupolicán parla di una donna che supera in bianchezza i «vidrios» del mare: «tú, que a sus vidrios en blancura excedes»; e tutto è lasciato al potere evocativo della parola e all'immaginazione del pubblico per l'adeguamento al mondo altro:


Desnuda el cuerpo hermoso,
       dando a la luna envidia,
       y quejarase el agua por tenerte;
baña el pie caluroso,
       si el tiempo te fastidia,
       vendrán las flores a enjugarte y verte;
los árboles a hacerte
—172→
      sombra con verdes hojas;
las aves armonía,
y de la fuente fría
       la agradecida arena, si el pie mojas,
a hacer con mil enredos
sortijas de diamantes a tus dedos223.



La delicata fanciulla, sensibile alla bellezza della natura, al mormorio della fonte, al canto degli uccelli, al rumore del mare, felice di aver conquistato un uomo come Caupolicán, che ha vinto Valdivia e del suo teschio ha fatto una coppa, delle sue ossa flauti, subirà un'improvvisa trasformazione a cominciare dalla fine del secondo atto, diverrà una fiera di fronte allo sposo sconfitto dalle truppe ispaniche, guidate da don García Hurtado de Mendoza, dichiarando di preferire la morte propria e del figlio Angol, piuttosto che sottomettersi ai vincitori. E nel terzo atto non solo si protesterà disposta a uccidere lei stessa il marito caduto prigioniero, al quale rimprovera di essere un «afeminado» pusillanime, ma sfracella contro le rocce un suo bimbo, per impedire che cada in servitù, quasi ad imitazione delle mitiche donne numantine di fronte ai romani conquistatori, delle quali certo non aveva notizia. Curiosamente mai rivolge contro di sè la furia distruttrice e alla fine lei stessa è spettatrice volontaria del terribile supplizio del consorte. Gran carattere femminile, secondo alcuni, esempio straordinario di passione per la libertà, nella cui figura Lope concentrerebbe i suoi momenti migliori di poesia drammatica224, a mio parere invece falso,   —173→   quasi caricaturale, scontata la funzione di rappresentare una forsennata difesa della libertà indigena.

Le altre figure del dramma non hanno che scarso rilievo, se si eccettua lo spagnolo Rebolledo, che funge da gracioso; una guardia infida, che per quanto ragioni, umoristicamente si vorrebbe, con i propri occhi, è preda del sonno; ma caduto nelle mani degli indigeni è capace di ordire un inganno che lo salva dall'essere arrostito e mangiato, dichiarandosi portatore di una terribile malattia infettiva, la «escapatoria». Egli riesce anche a far avvicinare la giovane araucana Gualeva agli spagnoli, provocando la sua innaturale ammirazione -«¡Oh, siempre hermosa nación!»225-, e nel fratello del condottiero celebrato improvvisi desideri, che il retto e «avisado» don García subito lo costringe a reprimere, restituendo la donna, che appare «fácilmente seducible»226, al legittimo consorte, carica di doni.

Gli indigeni sono considerati da Lope, e dai suoi spagnoli, esseri ingenui, un tanto ritardati, si direbbe, di fronte agli europei, violenti, ubriaconi e cannibali, vale a dire presentano tutte le tare negative che molti cronisti, a cominciare da Oviedo, avevano ampiamente propagandato. E tuttavia, molti dei capi araucani comprendono l'inevitabilità delle cose e si presentano desiderosi di sottomettersi, davanti al valore dei conquistatori e alle loro immancabili vittorie. In questo modo Lope affermava trasparentemente che la sua valorosa nazione rappresentava il meglio di fronte al mondo indigeno, poichè portava ordine civile e morale, al segno della religione.

  —174→  

Non c'è che dire, il grande drammaturgo era un buon propagandista. La Spagna è, infatti, sempre la preoccupazione principale di Lope de Vega, e lo è l'esaltazione del valore nazionale, della correttezza verso la donna, anche indigena, la celebrazione dei sovrani (Carlo V che passa la corona a Filippo II e quindi del nuovo re). Il primo impegno, nel dramma, è però di sottolineare, con il valore di don García, la nobiltà della casata dei Mendoza, che fa risalire a doña María de Castilla, quindi a stirpe regale, accontentando così anche la strana curiosità nobiliare dell'araucano Teucapel. Ed è qui dove la commedia si presenta più discutibile, diciamo addirittura insopportabile, per la smaccata intenzione laudatoria, che certamente poteva essere assolta con maggior misura, nel caso il drammaturgo lo avesse voluto, avendone tutte le possibilità.

Intenzione di Lope, naturalmente, è anche di celebrare il riscatto evangelico. Se gli araucani, lo stesso Caupolicán, si mostrano disposti in gran parte a venire a patti con gli spagnoli, la fine del capo indigeno diviene esemplare. L'infamante, e feroce, condanna viene affrontata si direbbe in modo impavido, non solo perchè Caupolicán è un guerriero valoroso -il drammaturgo esalta sempre il valore anche del nemico, per sottolineare la magnanimità degli spagnoli227-, ma   —175→   perché in lui la lotta interiore è stata vinta dall'anima. «Ábranse dos puertas -recita la didascalia- y véase a Caupolicán en un palo, diciendo asi, e segue una lunga protesta di pentimento e di fede.

Spettacolo edificante, senza dubbio, che faceva dimenticare la plausibilità delle cose, ossia impediva di pensare a come avrebbe mai potuto un impalato fare con tanto fervore un cosí lungo discorso. Del resto, come era stato possibile all'araucano Galvarino, una volta che l'«umanissimo» don García gli aveva fatto tagliare ambe le mani, correre, grondando sangue, dai suoi per proporsi quale esempio della crudeltà degli spagnoli? Ma il teatro supera ogni ostacolo e il pubblico, specie quello dei tempi di Lope de Vega, per quanto difficile e capriccioso, accettava ogni cosa, soprattutto se di mezzo vi era la religione.

Con queste osservazioni non intendo negare che El Arauco domado presenti momenti alti di poesia. Già ad alcuni ho accennato. Vorrei ancora richiamare il passo dell'atto III, in cui, nella preparazione del banchetto-orgia che precorre la battaglia, gli indigeni Quidora e Leocotón eseguono danze, mentre i musici cantano. La musicalità del verso torna qui alle caratteristiche perfezioni della poesia lopiana, nella celebrazione dell'amore. Il canto assume una nota originalissima anche per il ben dosato intervento nel ritornello di termini indigeni o che tali sembrano:


Piraguamonte, piragua,
       piragua, jevizarizagua.
       En una piragua bella,
toda la popa dorada,
       los remos de rojo y negro,
       la proa de azul y plata,
iba la madre de Amor
       y el dulce niño en sus plantas;
—176→
      el arco en las manos lleva,
flechas al aire dispara;
       el río se vuelve fuego,
       de las ondas salen llamas.
A la tierra, hermosas indias,
       que anda el Amor en el agua.
       Piraguamonte, piragua,
piragua, jevizarizagua;
       Bío, Bío,
       que mi tambo le tengo en el río.
[...]



E cosí di seguito, per un buon numero di versi. La scena si arricchisce cumulativamente e il ritmo trascina. Viene il sospetto che Gabriel García Márquez possa averla avuta presente quando, in Cien años de soledad, presenta l'arrivo delle variopinte matrone di Francia che, su una «extraña nave», una chiatta fatta di tronchi, trascinata da venti uomini, José Arcadio Segundo guida verso il porto fluviale di Macondo228. Naturalmente nel romanzo l'intenzione è dissacrante, mentre nella scena di Lope tutto è esaltazione ed entusiasmo.

Quanto all'«Auto sacramental» dal titolo La Araucana, esso tratta della conversione della regione cilena, i cui abitanti   —177→   finiscono per riconoscere in Caupolicán-Cristo, annunciato da Colocolo-San Giovanni Battista, il Salvatore. Il dramma si costruisce soprattutto su lunghi discorsi carichi di simbologia religiosa, e su numerosi interventi cantati, dove Lope ricorre ancora una volta a onomatopee pseudo-indigene e a vocaboli americani, come già nell'Arauco domado, ma direi qui alla lettura poco convincenti. Probabilmente il canto e la musica dovevano dare un altro risultato, tale da soddisfare, o entusiasmare addirittura gli spettatori che, come ha affermato il Vossler, «habian sido adiestrados todos en la escuela de los autos sacramentales»229. Scrive il Pfandl che la musicalizzazione vocale degli «Autos» consisteva in «solos, coros y música instrumental» e che il semplice accompagnamento di chitarra e di arpa dei tempi di Timoneda «se había convertido en los de Lope y Calderón en una verdadera orquesta, compuesta predominantemente de instrumentos de metal, de madera y de cuerda», cui bisogna aggiungere gli effetti sonori richiesti dalla «ilusión», come «el crepitar, humear y chirriar de toda clase de materias explosivas, el guerrero redoblar de los tambores y el roncar del trueno con poderosa naturalidad»230.

La scenografia era particolarmente curata e sontuosa. L'auto coronava la giornata del Corpus Domini, alla fine di una grande processione, alla quale partecipava spesso anche il sovrano con la corte. Sfilavano, quindi, i carri degli attori, riccamente adornati e rappresentanti palazzi, grotte, l'inferno con fiamme e dannati, il paradiso e quant'altro, elementi   —178→   che servivano ad esaltare lo scenario. Una complicata serie di macchine rendeva possibile la realizzazione di tutto ciò che fosse scaturito dalla fervida fantasia dell'autore. Tutto doveva essere godimento della vista e dell'udito; perciò questo tipo di composizioni, oggi, alla lettura, lascia perplessi. Lo notava già il Pfandl, il quale scriveva:

Así como la comedia ya hace tiempo que ha muerto al pasar de drama para la escena a drama para la lectura, los autos sacramentales ya no son más que mudos testigos de una vida desaparecida, pinturas ennegrecidas de un pasado de brillante colorido, notas sordas de una música extinguida desde hace dos siglos231.



Giudizio oggi rimesso in discussione. Ma continuiamo con le commedie. Che Lope sia autore di una commedia celebrativa di Cortés e della sua impresa, pare certo, anche se il testo rimane sconosciuto. Egli ne consegna il titolo in El peregrino en su patria: si tratta de La conquista de Cortés. E tuttavia, come scrive Carlos Romero, «la verdad es que nadie parece haberla visto nunca en los últimos siglos, impresa o manuscrita»232. Lo studioso tende, con documentate argomentazioni, a una possibile identificazione dell'opera con La conquista de México, dramma attribuito a Fernando de Zárate, e già sull'argomento era intervenuto233. Il Romero fissa il periodo in cui l'opera fu probabilmente composta, quello stesso de El Nuevo   —179→   Mundo e de El Arauco domado, anche se non perviene ancora a stabilire una precedenza cronologica tra le opere citate, che presentano, in verità, almeno per l'argomento, punti in comune, come lo studioso documenta attentamente234.

Non ho competenza per intervenire sull'argomento. Lo stesso Ruiz Ramón ripubblica La conquista de México come opera di Fernando de Zárate235. Il mio esame si limita, quindi, al puro testo, che si presenta scorrevole nella versificazione e accentuatamente disinvolto per quanto attiene al succedersi degli eventi come realmente si verificarono, cosa che Lope nel Nuevo Mundo si guarda bene dal fare.

Infatti, La conquista de México, pur rifacendosi in modo evidente al cronista Francisco López de Gómara, fa un tutt'uno di quanto avvenuto, procedendo arbitrariamente. Ad esempio, nel primo atto, dopo l'incontro con lo spagnolo Aguilar, naufragato sulle coste dello Yucatán, primo interprete di Cortés, vediamo che, per avere una sorta di spia fedele nel mondo azteco, il condottiero gli combina un matrimonio con la nota doña Marina -Mariana, sottolinea lei, da convertita-, l'india che con altre era stata offerta al conquistatore, quando è ben noto che prima egli ne fece omaggio all'amico Portocarrero, poi, più tardi, la tenne a lungo come propria amante, quindi la fece sposare a un suo soldato, Juan Jaramillo.

Evidentemente il drammaturgo, chiunque egli sia, riteneva poco edificante che un eroe come Cortés si presentasse sulla scena fornito di un'amante e subito accasò la donna, giustificando cosí anche il fatto che, fedele allo sposo, fu lei a salvare il condottiero, avvertendolo della congiura dei capi indigeni   —180→   riuniti a Cholula, dei quali lo spagnolo fece strage esemplare.

Altro momento «infedele» è rappresentato dalla spedizione contro Pánfilo de Narváez, sbarcato sulle coste messicane: nel dramma lo scontro avviene prima che Cortés entri a Tenochtitlán, quando la realtà è ben diversa. E ancora, l'affondamento delle navi, sulle quali il conquistatore e la sua gente erano giunti ai lidi messicani, è presentato come ordito subdolamente da Cortés, quando esplicite sono le dichiarazioni di Bernal Díaz del Castillo -testimone dei fatti- nella Historia verdadera de la conquista de la Nueva España: egli sostiene, infatti, che la decisione fu palese, annunciata in un discorso preparatorio apposito alla truppa, dove si richiamavano fatti egregi, decisioni storiche, come quella di varcare il Rubicone da parte di Giulio Cesare. Ma il drammaturgo seguiva la versione diffusa da Gómara nella sua Historia de la conquista de México236, alla quale si oppone con orgoglio Díaz del Castillo, sostenendo che così non fu: «No pasó como dice, pues, ¿de qué condición somos los españoles para no ir adelante y estarnos en parte que no tengamos provecho y guerra?»237.

  —181→  

Uno dei pregi de La conquista de México è senza dubbio l'aspetto scenografico, particolarmente curato, come attestano le didascalie, che ne fanno uno spettacolo sontuoso e attraente, mentre il contenuto del dramma è scarno. Lo si può riassumere in poche parole: Cortés arriva in Messico, s'incontra con Montezuma, che vuol tenerlo lontano dalla capitale e gli offre ricchi doni, affronta Pánfilo de Narváez e lo sconfigge, lo fa prigioniero, aumenta con i soldati di costui le sue truppe ed entra in Tenochtitlán, dopo aver sconfitto l'Idolatria, che intendeva resistere sulle terre americane, imponendo invece il trionfo della Religione Cristiana, la quale incorona l'eroe:


      Este laurel, gran Cortés,
es digno de tu cabeza,
       pues tuviste la fiereza
de mi enemiga a los pies;
      victoria y tiempo te lleven
a la fama soberana.238



La figura e l'azione di Cortés sono perfettamente corrispondenti, qui, con alcuni miglioramenti morali, quelli accennati circa doña Marina, a quanto di lui aveva scritto il francescano Toribio de Benavente nella Carta al emperador, Carlo V, quando gli ricordava come, prima dell'arrivo del conquistatore, «el demonio nuestro enemigo era muy servido   —182→   con las mayores idolatrías y homecidios más crueles que jamás fueron [...]»239. Cortés era stato quindi il vero diffusore della fede.

L'opera esaminata si presenta come un misto tra il dramma d'avventura e quello teologico. La prima parte del secondo atto, infatti, offre una disputa tra personaggi allegorici, che poi ricompaiono alla fine del terzo atto: la Divina Provvidenza, «en un trono alto sentada»; la Religione Cristiana, «en las gradas», ai suoi piedi; l'Idolatria, che fa il suo ingresso con aspetto terrificante: «Sale la Idolatría con un vestido de negro sembrado de imágenes de oro, y un ídolo echando fuego por la boca»240. La natura demoniaca dell'Idolatria è denunciata chiaramente: è infatti figlia di Luzbel ed esce dal «centro profundo», preoccupata per la sua sorte futura, ora che la Religione le contende il possesso del continente. Non seguono dotte discussioni, ma solo argomenti contundenti che riconducono all'inferno la sconfitta potenza:

Cúbrase el trono, y la Idolatría se entre por la boca de fuego, y toquen trompetas y cajas; salgan por dos partes indios y españoles batallando, unos con arcos y flechas, y otros capitanes a caballo con las espadas desnudas, y Santiago delante, armado de blanco, con un pendón rojo.



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Spettacolo invero straordinario, che doveva sicuramente entusiasmare i presenti. Dei personaggi allegorici fa parte anche un Idolo, che appare nel terzo atto, su un altare, «con   —183→   rostro y manos doradas, y sobre la fuente un gran cerco de rayos como sol», a predire, inutilmente, la sconfitta degli spagnoli.

Più che il testo è la rappresentazione a rendere interessante il dramma, che conclude su una scena sfolgorante di vittoria religiosa:

Acometan al muro, y los indios tiren flechas; con escalas y rodelas suban, denles en ellas los indios alcanciazos, vayan subiendo, y andando hasta entrar, y salga un carro en que venga la Religión Cristiana triunfando, y traiga a sus pies a la Idolatría, y por la puerta de la ciudad venga Cortés con su gente en orden, después de haber publicado victoria, y llegue el carro de la Religión, y ella le pone un laurel.242



È la vittoria finale e l'ingresso nella capitale azteca. Non certo così curati nella messa in scena si presentano sia El Nuevo Mundo che El Arauco domado, ma entrambi dimostrano un interesse non secondario di Lope de Vega per il mondo americano e la sua vicenda storica, interpretata a maggior gloria della Spagna e della religione. Ciò si coglie anche in un'opera drammatica come El Brasil restituido, uno dei testi storico-allegorici meno esaltanti del repertorio lopiano. Lo stesso Menéndez y Pelayo, che nel 1902 pubblicava l'inedito nella «Biblioteca de Autores españoles»243, si soffermava soprattutto sulle notizie storiche relative alla conquista olandese di Bahía, occupata l'8 maggio 1624. Egli definiva il dramma   —184→   , composto dal commediografo spagnolo sul finire del 1625,

una especie de loa donde no se ha de buscar fábula dramática de ningún género, sino exactitud histórica, buen lenguaje, fáciles versos y mucho entusiasmo patriótico, cualidades que nunca faltan en Lope.244



Il critico santanderino era davvero generoso nei suoi giudizi. Il testo di Lope non ha, a mio parere, altra attrattiva che il fatto di essere una delle sue opere. Quanto all'interesse e alla «facilità» della versificazione, sono del tutto discutibili nell'effettiva realizzazione. Possiamo invece affermare con tutta tranquillità che El Brasil restituido è un dramma faticoso, carico di riferimenti storici a personaggi, spagnoli e portoghesi, intervenuti nella spedizione di riconquista della colonia americana, divenuta di interesse anche per la corona ispanica. Il Portogallo e le sue colonie, d'America, d'Africa e d'Asia, era entrato ormai nell'orbita spagnola per via di successione ereditaria nel 1580, all'epoca di Filippo II, conseguenza di matrimoni che avevano alla fine consegnato la corona portoghese alla monarchia degli Asburgo.

Tra personaggi reali e personaggi allegorici, la Monarchia, la Fama, la Religione, l'Idolatria, l'Eresia, la vicenda si svolge faticosa e ciò che più colpisce, negativamente, finisce per essere la celebrazione incessante non solo del re Filippo IV, ma degli «eroici» personaggi che realizzano il riscatto del Brasile, presentato tra l'altro, simbolicamente, come femmina piumata -«El Brasil en figura de una dama india, con una   —185→   rueda de plumas y una flecha dorada como un dardo»245-, che proclama la sua felicità per aver conosciuto, con la conquista portoghese, il vero Dio, il che le permette di stabilire un vantaggio sui «fieros idólatras» che occupano la maggior parte del paese, mentre, dice, «limpia del antiguo barbarismo, / me baño en las corrientes del bautismo»246. Versi facili, certamente, come tanti altri, ma pure orrendi, anche se la comparsa della donna, di sicuro giovane e molto scoperta, e degli indigeni, poteva, come ritiene Adrien Roig, «causar sorpresa y admiración» come spettacolo teatrale247.

Tra lodi alla religione e alla Vergine Immacolata, alla croce e alla redenzione, la vicenda storica prende corpo, dall'invasione dei protestanti olandesi alla loro cacciata. La colpa prima di quanto accaduto è data agli ebrei «conversos», numerosi nella colonia portoghese, i quali avrebbero chiamato proprio i protestanti d'Olanda per liberarsi dei cattolici e tornare alla loro religione. L'avversione per il popolo ebraico è forte in Lope, ma né questa, né la celebrazione del valore ispano-portoghese riescono a dare vita al dramma, che suona falso   —186→   anche per quell'embrassons nous tra i due popoli iberici promosso e celebrato nel testo contro la storia, che nel 1640 riporterà il Portogallo all'indipendenza, ma non all'integrità del suo impero coloniale nel sud dell'Africa, in India e nell'Asia sud-orientale, del quale gli olandesi lo avevano ormai spogliato e per sempre.



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