—[102]→ —103→
Che il teatro di
Lope de Vega e quello di Calderón de la Barca rispondano a
due sensibilità e a due istanze diverse è assodato.
Introducendo La vida
es sueño il Gasparetti notava che se Lope è un
«benevolo trovatore della realtà», se egli
coglie la vita «in tutti i suoi aspetti», trovando
motivi d'arte dovunque e comunque fuori della sua coscienza,
Calderón nel suo teatro afferma e concreta dei simboli,
«li veste di panni più o meno
secenteschi, più o meno spagnoli, e li trasforma in
uomini»
, ma soprattutto «sente
la morte in tutto il suo mistero, in tutto il suo
orrore»
123
.
È fuor di dubbio che Calderón inauguri nel suo teatro un atteggiamento nuovo. Vi è chi124 ha rimproverato al dramma calderoniano la tirannia dei postulati morali cui l'autore lo sottomette: fede, rispetto cieco e incondizionato dell'autorità regia, intangibilità dell'onore. Nel teatro di Calderón la ragione domina il sentimento, l'idealismo è ideologia, il culto dell'onore tirannia; ne vengono personaggi di scarsa sensibilità, sottoposti alla tirannia del pregiudizio, mentre l'intelligenza frena le passioni.
—104→Tutto vero, o in parte vero; ma esistono anche qualità grandemente positive: semplificazione dell'azione, un dialogare in genere nutrito, anche se talvolta eccessivo, versificazione sempre fluida e ispirata. Queste qualità si impongono su quelle negative, le fanno addirittura scomparire. Il drammaturgo porta ai massimi risultati la fiorente arte teatrale che eredita da Lope, tappa finale di un processo che consolida nella Spagna la coscienza di un teatro nazionale. Anzi, per il Ruiz Ramón ciò che per altri è negativo diviene positivo. Scrive a proposito dei personaggi calderoniani:
El personaje calderoniano, criatura extraordinariamente lúcida, intensamente vuelto hacia adentro de sí mismo, se entrega con pasión al análisis de su propio mundo, dueño siempre de su razón y de su palabra. La razón y su verbo, por medio de sucesivas interrogaciones, encadenadas con rigurosa lógica las unas a las otras, hacen aflorar a la superficie, en ordenada trabazón, las múltiples facies de la problemática interior, cifra de la problemática de la existencia del hombre en el mundo. En cada personaje calderoniano hay, como base de su personalidad, una genial voluntad de orden y de claridad mental que combate hasta sus últimos reductos el desorden y el caos. Esa necesidad de orden es la raíz última de la palabra dramática de los personajes calderonianos. Si son personajes razonadores, lo son por un profundo imperativo de claridad. Su más constante pasión, auténticamente constitutiva de su personalidad, es, sin duda alguna, la pasión del orden.125 |
E tuttavia, un
ammiratore di Calderón come il Meregalli afferma che cercare
una mentalità filosofica nel drammaturgo è deludente;
egli lo definisce un conformista, uno che «segue —105→
compattamente una dottrina, la scolastica, rinsanguata ai
suoi tempi dal contributo della neoscolastica
spagnola»
126,
ma aggiunge:
se come filosofo, cioè come pensatore consapevole e logico, Calderón non può essere preso sul serio, ciò non toglie che non ci sia nella sua poesia la traccia di una inconsapevole inquietudine, di una intuizione personale della vita assolutamente indipendente, appunto perché inconsapevole e sfuggente quindi al controllo della censura interiore come dell'Inquisizione esteriore. Come in Dante, personalità in parecchi aspetti assai affine a Calderón, ci sono germi di un mondo nuovo, sintomi di una intuizione assolutamente indipendente da quella confessionale che egli accettava pienamente, cosi l'adesione sincera ma esteriore al dogma che troviamo in Calderón non intacca l'originalità della sua Weltanschauung. In questo senso egli può dunque essere chiamato un pensatore e le opere sue che meglio rappresentano questa intuizione si possono legittimamente chiamare, in sostituzione di una parola più aderente ma difficile da trovare, «filosofiche».127 |
In che modo qualificare, ad esempio, drammi come La devoción de la Cruz, El purgatorio de San Patricio, soprattutto La vida es sueño, ma anche El mágico prodigioso? Usciamo dalla difficoltà definendoli «drammi di pensiero», opere «problematiche», nelle quali la religione ha parte determinante. Calderón non è un filosofo, nel senso di elaboratore di un sistema, ma è certamente un personaggio che sente la vita come problema, che riflette su di essa, come riflette sui grandi disegni di Dio. Tutto ciò egli esprime attraverso —106→ la rappresentazione drammatica, in opere di eccezionale significato, che danno un tono del tutto particolare al teatro ispanico.
In questo senso uno dei testi più rilevanti è La devoción de la Cruz, che si inserisce nella linea della grande devozione ispanica al simbolo del riscatto del cristianesimo, intorno al quale nella letteratura devota erano fiorite leggende edificanti, intrise di un meraviglioso fondato sullo straordinario intervento divino. L'opera del drammaturgo spagnolo interpretava una sensibilità diffusa. Scrive il Montiel:
La España del barroco se sentía atraída por hechos de los «milagros», lo maravilloso y lo sobrenatural. Junto a esto, y quizá fuera la causa más importante, la catolicidad del siglo XVII se plasmaba en una amplia visión de la Cruz como símbolo de redención y de vida eterna. El entusiasmo por el misterio sacrosanto de la cruz estaba en el ambiente de la época.128 |
Calderón compone il dramma tra il 1623 e il 1625 approssimativamente, epoca in cui la sua vita è scossa da esperienze traumatiche, difficili, tuttavia, da chiarire. Alla base dell'opera stanno letture varie, fonti facilmente individuabili: il giovane drammaturgo doveva aver letto l'abbondante letteratura corrente in Spagna, dedicata al segno della croce, dalla Introducción al símbolo de la fe, di fra Luis de Granada, ai Misterios de la Misa, di frate Alonso de la Cruz, alle Historias prodigiosas de diversos sucesos acaecidos en el mundo, opera collettiva di Pierre Bovistau, Claude Tesserant e Francois Belleforest, pubblicata in traduzione a Madrid nel 1603, senza escludere, naturalmente, alcuni «exemplos» —107→ del Conde Lucanor, di Juan Manuel, e il precedente suggestivo del Esclavo del demonio, di Mira de Amescua.
La devoción de la Cruz è un testo teso, costruito su un succedersi di intrighi e di fatti violenti, su drammi interni che sfociano in dure manifestazioni esterne. I personaggi presentano singolare dimensione, appaiono tormentati, divisi, ribelli contro sé e contro il mondo. Le loro esistenze non vedono momenti sereni, non conoscono sentimenti che li avviino alla felicità, ma unicamente tormento. Anche l'amore è fonte di violenza. Ribelli verso se stessi prima che verso gli altri, sono come dominati da un furore interno, da un desiderio di distruzione che si esercita su loro stessi prima che sugli altri. Forse Calderón trasfonde in questo testo parte del suo dramma personale e in Eusebio, personaggio principale, plasma la sua controfigura: pio e malvagio al tempo stesso, preoccupato per la salvezza della propria anima e ciò nonostante dedito al male.
Julia, la donna amata, è ugualmente soggetto e causa di tormento. Le azioni dei due sono volte alla vendetta, si direbbe con disperazione, non nascono da una disposizione naturale al male. Vi è sempre una causa, grande o piccola, ma che per i protagonisti ingigantisce, li porta al male, li fa precipitare nel gorgo del peccato.
Il luogo
dell'azione è Siena; tutto si svolge in un paesaggio toscano
appena abbozzato. Come di consueto vi è un bosco, luogo del
mistero, dove si consumano i delitti, ma dove si verificano pure
eventi portentosi. La croce è il segno che domina la vita di
Eusebio: venuto al mondo fortunosamente -non conosce né il
padre, né la madre-, ai piedi di una croce, nel bosco,
l'uomo ne reca il segno sul petto e in ogni occasione proprio la
croce interverrà a preservarne la vita, alla fine
convincendolo che il cielo l'ha segnato con essa «para
públicos efectos / de alguna causa
secreta»
129.
—108→
In un lungo monologo egli descrive i casi singolari che gli
sono accaduti al segno della croce, passo che doveva attrarre
fortemente, con tanti eventi meravigliosi, l'attenzione rapita
degli spettatori.
Ma ecco l'amore: innamorato di Julia, Eusebio le scrive di nascosto lettere ardenti, che la donna custodisce, ma che scoperte dal fratello, Lisandro, sono la causa perché egli sfidi a duello l'innamorato, in quanto ha mancato, come vuole l'onesto procedere, di parlarne al padre o a lui stesso, che gli è amico. Nel duello Eusebio ha la meglio, ma prima che il ferito muoia farà in modo che possa confessarsi, poiché la confessione è necessaria alla salvezza dell'anima. Eusebio è, come dire, ossessionato da questo impegno in punto di morte, tanto che, datosi a vita banditesca, in quanto perseguitato per l'uccisione di Lisandro, allorché i suoi uomini fanno prigioniero un sacerdote, Alberto -al quale restituisce la libertà poiché con sé reca un libro, i Milagros de la Cruz, unico bene di cui s'impossessa-, si fa promettere che nell'ultimo istante della sua vita non gli farà mancare la confessione.
La famiglia di Julia è il centro della disgrazia, il luogo dell'infelicità. Eusebio è cresciuto con feroci istinti, preferisce l'esercizio delle armi, ma l'amore per la fanciulla è ardente e sincero; egli pensa di farla sua sposa, senonché la tirannia dell'onore, dopo che le ha ucciso il fratello, costringe la ragazza, contro la sua volontà, a chiudersi in convento. Di qui la decisione del giovane di farla sua ad ogni costo, anche penetrando nel luogo santo. Questo farà, infatti, ma quando, —109→ vinte le resistenze della sventurata sta per averla, scopre su di lei il suo stesso segno di croce e allora fugge, lasciando interdetta la donna, che avendo comunque ceduto alla passione e sentendosi tradita decide di fuggire dal convento e di darsi anche lei a vita banditesca. Donne di questo tipo non sono ormai una novità nel teatro spagnolo, dopo El esclavo del demonio di Mira de Amescua.
Anche Julia, come già la Lizarda della commedia amescuana citata, sarà una delinquente compiuta, soprattutto ingrata e assassina. Lungo è l'elenco dei suoi misfatti, dei quali essa stessa farà relazione a Eusebio, quando lo ritrova, prima di ucciderlo, per punirlo del supposto tradimento. Calderón accentua i particolari della ferocia femminile, come se in un istintivo confronto volesse riscattare il genere maschile. Ma Julia proviene da una famiglia in cui il delitto è di casa: il padre ha ucciso la moglie, nel bosco, solo perché era possibile il sospetto che, incinta, durante la sua assenza si potesse pensare che lo aveva tradito, anche se aveva la certezza che nessun tradimento vi era stato. Sono i preludi dei maggiori drammi di «celos».
Nella commedia, tuttavia, il mistero si fa denso, le carte si imbrogliano, tutto incupisce, finché si arriva al chiarimento tra i due protagonisti; un chiarimento drammatico, poiché Eusebio si rivela essere fratello di Julia; ma gli eventi, saggiamente guidati dalla mano di Dio, hanno evitato l'incesto.
Quanto a coloro che hanno portato turbamento, essi non possono non pagare. Eusebio viene ucciso, infatti, dagli uomini del padre, ma la devozione alla croce gli ottiene da Dio, cosa meravigliosa, come con abbondanza avviene nei Milagros di Berceo, di ritornare per un momento alla vita, allorché si avvicina Alberto, il sacerdote, che lo assolve in confessione. Poi il giovane torna a sprofondare definitivamente nella morte.
—110→Davanti a tanto portento Julia si ravvede, decide di rientrare per sempre in convento e si abbraccia alla Croce, ma da essa è trasportata in cielo. Sulla terra rimane solo l'infelice, ma non innocente, padre, a versare lacrime amare sull'accaduto, dopo aver dato ulteriore prova della sua incapacità di comprendere gli eventi, quando alla radice di tanto sconvolgimento sta proprio il suo irrazionale e delittuoso agire.
Dramma di grande
vitalità La
devoción de la Cruz, reso compatto da legami di forte
tensione, «una de las
tragedias de más penetrante efecto del Siglo de
Oro»
, secondo il Valbuena
Briones130.
Non mancano neppure, a contrasto, elementi comici, i soliti
graciosos, ora
vittime, ora mezzi per chiarire gli eventi. Come sempre, anche se
nel dramma la donna è coprotagonista, in realtà essa
ha un ruolo passivo di fronte agli uomini, né vi è
figura materna che diffonda tenerezza e comprensione. La
società nel teatro di Calderón, come nella
realtà, è duramente maschilista.
Intorno alle vicende de La devoción de la Cruz, tuttavia, si crea, alla fine, un grande senso di pietà per le vittime dei loro stessi errori e degli equivoci della vita. Per quanto incredibile, consolano l'evento miracoloso del ritorno momentaneo alla vita di Eusebio e l'ascesa al cielo di Julia, miracoli della devozione alla croce, ma soprattutto segni della misericordia di Dio verso le vittime di un destino avverso131.
Dramma significativo, sulla medesima linea del precedente quanto a fede nell'intervento provvidenziale di Dio è El purgatorio —111→ de San Patricio, che Calderón compone nel 1628. L'opera s'incentra -luogo geografico l'Irlanda, corte del re Egerio-, sulla figura di un criminale, Ludovico, che attraverso la fede in Dio, aiutato da San Patrizio, patrono del paese, ottiene la salvezza, nonostante la sua condotta.
È stata giustamente celebrata l'«hábil pluma» con cui il drammaturgo descrive un mondo di profezie e di miracoli, onde far presa sui sentimenti religiosi degli spettatori132. Introduce al dramma una scena di naufragio: due individui si salvano a stento dalla tempesta, Patricio e Ludovico, semplici mezzi del disegno divino, provenienti da uno spazio misterioso, il mare, sradicati quindi dai legami con la terra, quasi emanazione dell'infinito mistero.
Patricio rappresenta il bene e la fede, Ludovico il male e la mancanza di fede. La condotta di quest'ultimo è nefanda; egli fa sfoggio, con baldanza, ma non senza un interiore tormento, delle sue scelleratezze, incurante di legge umana e divina. In terra di infedeli Ludovico troverà simpatia e sarà premiato, mentre Patricio sarà reso schiavo e destinato a vili mestieri. Calderón non poteva non definire mondo del peccato quello musulmano: era la regola, in una nazione profondamente cattolica, che aveva sempre combattuto contro l'«infedele».
Luci e ombre agitano il dramma. La contesa è, come sempre, tra Dio e il demonio, tra il bene e il male. Patricio, liberato dalla schiavitù da un angelo, diverrà l'apostolo in Irlanda dell'evangelizzazione; Ludovico continuerà la sua vita di delitti, fino a uccidere Polonia, figlia del re e innamorata di lui, che lo ha aiutato a fuggire. Centro calamitante della commedia è una spaventosa caverna, il pozzo di San Patrizio, —112→ dove sono rappresentati il purgatorio, l'inferno, con le sue terribili pene, e il paradiso; una caverna situata in paraggi in cui «aun la luz del sol se esconde», luogo «intrincado», in tanti secoli mai calpestato da piede umano né da «inculta fiera»133. L'antro terrificante domina la fine della seconda «Jornada», descritto a colori conturbanti al «pueblo bárbaro», il padre e il suo piccolo seguito, da Polonia, tornata alla vita per intervento di San Patrizio:
|
Il procedere faticoso del verso, nel racconto della personale esperienza da parte di Polonia, rende efficacemente il suo stato d'animo; le incalzanti serie verbali accentuano il clima di terrore. La donna ha colto nella grotta, «horror del día», l'aspetto —113→ infernale. In qualche modo Calderón ripete qui, in breve sintesi, l'orrore dell'inferno dantesco, molto vicino, sembrerebbe, piuttosto a La Cristiada di Diego de Hojeda, e attraverso essa al Tasso della Gerusalemme liberata.
Interverrà Patricio per chiarire al re che ben diversa è la visione che ne ha chi arriva alla grotta pentito e confessato:
|
Ora i colori sono del tutto mutati, evocano un luogo se non di serenità, di quiete, non più d'orrore.
Nel frattempo Ludovico, in fuga, seguito dal gracioso, Juan Paulino -un contadino suo ostaggio, che minaccia sempre di morte-, va errando per paesi diversi, finché nella terza «Jornada» lo ritroviamo in Irlanda, sotto mentite spoglie, con il proposito di vendicare l'offesa fattagli a suo tempo da Filipo, promesso sposo di Polonia, che gli ha rinfacciato nel suo passato una condizione di schiavo. Ma in Irlanda tutto ora è cambiato: il re è morto e la nuova regina è Lesbia, sua figlia, poiché Polonia ha rinunciato al trono e si è data a vita di penitenza; tutti gli irlandesi si sono convertiti alla fede cristiana e anche Patricio è morto.
Invano Ludovico tende agguati a Filipo: un cavaliere misterioso fa sempre fallire il suo piano, finché una notte egli —114→ lo affronta con la spada, ma si rende conto che colpisce solo l'aria. Invitato, segue lo strano personaggio, che gli si rivela immagine della morte. La terrificante visione induce il peccatore a sottomettersi al volere di Dio, del quale impetra la misericordia. Ansioso di penitenza si dirigerà alla ricerca del purgatorio di San Patricio, al quale ora dà accesso un convento, eretto su un'isola circondata da una gelida laguna; vi si recherà solo, su una piccola imbarcazione, una cassa da morto. Dal pozzo Ludovico uscirà perdonato, poiché il suo pentimento è sincero; ne avrà avuto una visione meravigliosa, quella del paradiso, luogo splendido per piante, fiori, uccelli, città aurea dove, tra angeli e serafini, suono di dolci strumenti e armoniosi canti trionfano i felici. Alla fine della processione, cui presenzia, compare anche San Patricio, che lo abbraccia e lo rinvia sulla terra. Riferisce Ludovico:
|
—115→
Finale «meraviglioso», pervaso di convinta religiosità, come non poteva non essere in una commedia che si proponeva di edificare il pubblico. Per noi una bella favola della quale apprezziamo i delicati raggiungimenti, ma anche le trasparenti ingenuità, e certamente la felicità del verso e la sapienza cromatica.
Quanto ai personaggi, essi non presentano una grande dimensione, non rivelano un'indagine psicologica approfondita, restano piuttosto alla superficie, soprattutto il malvagio, sempre uguale. Ma la commedia «de santos» non esigeva molto, in quanto, nella sostanza, opera di «propaganda» della fede e della moralità, in un ambiente ben disposto ad accoglierla.
Le fonti ispiratrici del dramma sono denunciate dallo stesso Calderón nei versi finali, al fine di dare credibilità al tema: la leggenda del purgatorio di San Patrizio era antica, si era andata affermando nel secolo XII. Di essa vi è presenza in codici latini, come il Tractatus de Purgatorio, opera di un monaco di Saltrey. La prima versione spagnola è del secolo XIII; nel secolo XVII la leggenda rivive in Spagna non solo nel teatro di Calderón, ma in quello di Montalbán, autore nello stesso anno di una Vida y Purgatorio de San Patricio.
Quanto a
La vida es
sueño, dramma principe del teatro calderoniano,
l'argomento è arcinoto, centrato filosoficamente sul
problema del libero arbitrio. Un dramma teso, dove diversi sono,
tuttavia, i punti che sfuggono alla logica, come il ritenere, da
parte del sovrano di Polonia, che il figlio, cresciuto in prigione,
in catene, vestito miserabilmente di una pelle di animale, privo di
ogni educazione, possa migliorare —116→
i propri istinti; o il credere ciecamente nei segni del
male, poiché la madre di Segismundo incinta sogna cose
terribili, stragi di sangue, e venendo al mondo, il bimbo provoca
la morte della genitrice, segno della sua natura malvagia. Ma si
tratta di nei del tutto insignificanti, se si considera la
grandiosità del dramma, nel quale, anche per il Meragalli,
si documenta «quel bisogno istintivo di
raccoglimento interiore che sta al fondo di tutte le opere che,
essendo veramente grandi, non sono soltanto un'osservazione, ma
anche un'interpretazione della vita»
137
.
In un'opera di
teatro non poteva mancare l'elemento amoroso; il pubblico lo
richiedeva e perciò lo esigeva l'interesse immediato di
successo da parte del drammaturgo. Di qui che Segismundo si mostri
invaghito di Rosaura, giunta in Polonia per vendicarsi di Astolfo,
che l'ha lasciata per sposare la cugina Estrella, onde pervenire al
trono. Una serie di equivoci, di scambi di persona, di
camuffamenti, di identità improvvisamente rivelate complica,
more solito, la trama, fino alla soluzione finale, come
sempre felice: dove Astolfo sposa Rosaura -figlia clandestina di
Clotaldo, consigliere del re e carceriere altolocato del principe-,
Segismundo dà la sua mano -ormai di re, vinto il padre- a
Estrella, presta ad adeguarsi: «Yo gano / en merecer
dicha tanta»
138
. Un uomo nobile, infatti, vale l'altro, ma il re vale ancora di
più.
Chi avrà la peggio sarà il povero Clarfn, servo e gracioso di Rosaura, il quale, per aver cercato di sfuggire alla morte, muore —117→ invece realmente, colpito da una pallottola vagante, dimostrando, questo si, che vi è un destino stabilito da Dio, al quale non è possibile sottrarsi. L'avvertimento è severo:
|
Come contagiato da questo richiamo il vecchio re ribadisce il concetto, facendo esempio della propria situazione di fronte alla ribellione del figlio:
140 —118→
Sono questi i grandi temi che riscattano del dramma ogni difetto, ogni incongruenza; temi subito sentiti dal pubblico, poi dal lettore.
Il ragionare di questi personaggi giunti alla loro fine afferma l'ineluttabilità di un destino stabilito da chi è più potente dell'uomo, per quanto questi cerchi di cambiarlo, ma di cambiarlo senza peraltro conoscerlo. Clotaldo riequilibra le cose e al disperato sovrano ricorda che il destino può essere vinto dalle opere:
|
Parole che non trovano ascolto nel re, il quale ribadisce:
|
Tutto sarà ben diverso, sappiamo. Di fronte alla passività e alla rassegnazione di Basilio starà, da parte di Segismundo, —119→ la volontà di cambiare direzione agli eventi. Ma per tornare all'inizio del dramma, esso si inaugura con aspri accenti, dominato da un precipitoso galoppar di cavalli che, da alture impervie, tra rovi, sterpi e nude rocce, precipitano, si potrebbe dire, entro i confini della Polonia. È Rosaura che, vestita da uomo, accompagnata dal servo, Clarín, si introduce nello spazio estraneo e ostile, decisa a vendicare l'offesa fattale dall'amante, che l'ha abbandonata per pretendere al trono dello zio, Basilio, disposto a dividere il potere con lacugina sposandola.
Nei versi iniziali si coglie un clima tragico, reso agitato dalle metafore barocche:
|
Nella cupa
atmosfera del tramonto, in un paesaggio desolato, mentre scendono
precipitosamente le tenebre, Rosaura —120→
scopre uno strano edificio, «un palacio tan breve, / que el sol
apenas a mirar se atreve»
, più
simile a una roccia, «peñasco que ha rodado de la
cumbre»
144.
La curiosità muove la donna, sempre seguita dal servo,
benché riluttante e timoroso, a penetrare all'interno
dell'edificio per una porta che è piuttosto antro di una
caverna; subito i due sono colpiti da un suono di catene, al quale
si mescola una voce di acuto lamento: «¡Ay,
mísero de mí!, ¡Y ay
infelice!»145
.
Mistero del luogo e mistero della voce. La curiosità può più della paura e i due hanno modo di ascoltare il prolungato monologo di Segismundo in catene. Egli leva alta la sua protesta contro la situazione iniqua in cui si trova. Una sorta di panorama meraviglioso del possibile si prospetta ora nel testo, evocato dalle parole del prigioniero, passo celebre in cui Calderón dispiega tutta la sapienza e la bellezza dei suoi cromatismi, delle metafore, la liricità di cui è maestro, rendendo vivo il tormento di chi è privato della libertà. Una filosofia della disperazione prende corpo, riallacciandosi al senso biblico della colpa originale, insoddisfacente risposta per Segismundo, che incalza il cielo con domande angosciate:
|
Segue la serie famosa degli esempi: l'uccello, il bruto, il pesce, il ruscello, tutti godono di una libertà che mai il prigioniero ha avuto. Il lungo lamento sfocia in disperata ribellione. La rappresentazione tragica conclude in un clima di cupo splendore.
Fatto inaudito, ma non tanto, quello del principe; anche in Spagna erano esistiti di questo tipo di arbitrio esempi significativi e uno non molto remoto, certo ancora ricordato: quello, già richiamato a proposito di El castigo sin venganza di Lope, del principe don Carlos, erede di Filippo II, imprigionato e lasciato morire in isolamento, sembra per lo squilibrio mentale, gli eccessi di furore che lo rendevano inadatto, pericoloso per la successione al trono. Dramma reale sul quale si è fondata tanta parte della propaganda contraria al «Re Prudente».
Forse lo spettatore dell'epoca riandava, dentro di sé, a questo sinistro episodio della storia del regno e il dramma calderoniano doveva fare, quindi, presa profonda, attestando al tempo stesso che l'ossequio del drammaturgo all'istituzione monarchica non era poi così assoluto.
Altro momento
altissimo de La vida
es sueño è costituito dal monologo di
Segismundo, allorché si risveglia nella prigione, dopo la
sua breve e tumultuosa avventura a corte. Ricorso di coloro che
avevano cercato di opporsi alla manifestazione del suo carattere
violento era stato il sogno: stesse attento, che forse tutto era un
sogno. Tra le nebbie di un vago ricordo, riprendendo poco a poco
coscienza, l'impressione —122→
di aver sognato si afferma sempre più nello
sventurato principe, ma la reazione non sarà né la
disperazione, né la ribellione, bensì -succede nelle
commedie e lo imponeva il programma- l'accettazione di una lezione
che lo induce a riflettere sulla vanità della vita e sulla
bontà delle opere. Gli aveva ricordato Clotaldo, suo
carceriere, personaggio enigmatico147,
che «aun en
sueños / no se pierde el hacer
bien»
148.
Il prigioniero conferma l'accettazione del concetto nel toccante
monologo, che si svolge in tono raccolto ed è quanto di
più profondo esprima il dramma:
|
Conclusione di
piena rassegnazione, nel coinvolgimento negativo di tutte le
apparenze della vita, del potere e della ricchezza. Segismundo
è un personaggio perfettamente in linea con la
spiritualità ispanica. Riecheggiano nel monologo non solo i
versi di Jorge Manrique -«nuestras vidas son los ríos /
que van a dar a la mar / que es el
morir»
150-,
ma il radicale senechismo iberico. Quevedo dirà che le
nostre vite sono —124→
cenere, polvere, ombra, nulla, e ciò che conta
è la condotta dell'uomo151.
Segismundo ha colto definitivamente il messaggio: «vivere
è sognare» e ciò che permane sta al di
là della vita. Perciò egli modifica con
volontà autonoma il corso del destino, divenendo arbitro
della propria ma anche dell'altrui sorte, sbaragliando così,
in pieno accordo con l'ideologia religiosa, false credenze,
superstizioni e timori.
Quando il padre, sconfitto, gli si inginocchia davanti, rassegnato a che il destino si compia, Segismundo non solo non lo uccide, ma gli si sottomette, non senza avergli prima rimproverato il modo errato in cui ha tentato di addolcire il suo carattere. È il momento della soluzione felice; tutti gridano alto il nome di Segismundo, il quale dà mostra immediatamente di avere il senso dello stato, premiando il suo carceriere e castigando il soldato che, liberandolo, ha tradito il suo sovrano. Anche questo succede in teatro, né ha torto chi esprime perplessità di fronte a questo come ad altri fatti152.
Il grandioso
dramma del disinganno ha così termine. Ne La vida es sueño
Calderón dà il momento più alto della sua
riflessione intorno all'uomo e alla vita. I personaggi non contano
tanto come tali, ma piuttosto come veicoli per una riflessione che
implica un giudizio definitivo sul mondo. Ci si spiega l'entusiasmo
dei romantici tedeschi, in particolare di Schlegel, per il
dramma153.
Il Rico ridimensiona il signifìcato —125→
metafisico dell'opera e afferma che in essa «rezuma el oficio del
teatro», ma riconosce tuttavia che «la pieza bulle en
sugerencias poéticas que invitan a una elaboración
intelectual»
154.
E la ricca serie di stimoli poetici che rende interessante e viva
La vida es
sueño, permettendo, al disopra di ogni tentazione
intellettualistica, di cogliere il dramma umano di Segismundo.
Maurice Molho ha parlato di una politica che funziona quale
supporto a una riflessione metafisica trascendente, applicata alla
realtà contingente di una lotta per il potere155,
ma la contingenza, in realtà, sfuma di fronte al richiamo
metafisico.
Di valore artistico più che notevole è anche El mágico prodigioso, una delle «comedias de santos» più vicine agli autos sacramentales. Commissionata a Calderón per le feste del Santissimo Sacramento del 1637 celebrate a Yepes, l'opera afferma la sua rilevanza nell'ambito delle dispute teologiche.
Nella commedia il drammaturgo ribadisce la forza del libero arbitrio e l'immensa misericordia di Dio, presentando un caso esemplare di virtù: la vicenda di Justina, contro la quale il demonio si accanisce invano, anche se il mondo, confuso e peccatore, è luogo propizio alla tentazione.
L'azione si concentra sugli sforzi del maligno tesi a perdere la fanciulla. Il diavolo ricorre a molteplici trasformazioni: professore —126→ di teologia e avvocato del male contro Cipriano; cavaliere che suscita le gelosie di Lelio e di Floro, innamorati di Justina; astrologo che ricorre alla magia; cortigiano e ruffiano, che cerca di portare tra le braccia di Cipriano la donna. Alla fine sarà uno spirito maligno sconfitto, costretto a riconoscere la virtù della fanciulla, il pentimento di Cipriano e la grandezza di Dio.
La tradizione martirologica è sapientemente drammatizzata da Calderón mescolando fonti pie e fonti profane: la Confessio S. Cypriani martyris atque pontificis, di dubbia attribuzione, la Vita et martyrium SS. Cypriany et Justinae, di Simeone Metaphrastes, la Legenda aurea sive bistorta lombardica, di Jacopo da Voragine, i Milagros de Nuestra Señora di Berceo -uno dei quali narra la vicenda di Teofìlo, il quale per mezzo di un fattucchiere ebreo entra in relazione con il demonio156-, la Celestina e il dramma El esclavo del demonio di Mira de Amescua.
L'infatuazione di Cipriano per Justina richiama in particolare, anche se qui non corrisposto, quella di Calisto per Melibea. Se l'innamorato della Celestina giurava di credere e di adorare come un Dio la fanciulla157, nel dramma calderoniano Cipriano non è diversamente ardente:
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E se Calisto si avvale della perfida mezzana per raggiungere la donna desiderata, Cipriano ricorre a uno straniero perché gli insegni la magia. Ma mentre nella Celestina tutto rimane sul piano del terreno, senza coinvolgimenti del «cielo», nel Mágico prodigioso la vicenda si svolge tra terra e cielo, o meglio, tra cielo e inferno. Infatti, per ottenere Justina Cipriano stringe un patto con il demonio, gli vende l'anima e con un pugnale intinto nel proprio sangue firma un contratto. In esso vi è tuttavia una clausola: che il giovane otterrà la fanciulla attraverso la magia.
Calderón indirizza il suo dramma all'affermazione apoteosica del libero arbitrio e della virtù. Il demonio, fallito il tentativo di confondere dialetticamente lo studente Cipriano, lo vince per mezzo della passione, del «loco amor». Da qui in avanti le arti demoniache si esercitano su Justina, ma il diavolo si scontra con una salda virtù cristiana che supera ogni tentazione. Si afferma così che Dio permette il male perché possa effettuarsi da parte della creatura umana una libera scelta, ma, come ha sottolineato il Wardropper la Provvidenza, in realtà, guida verso la verità, e Cipriano riconosce l'errore:
Habiendo reconocido la verdad, no vacila en rectificar su error electivo, sin temer las consecuencias de proclamarse cristiano en tiempos de persecuciones oficiales. El precio de su osadía es la muerte: una ejecución vulgar para los paganos, un glorioso martirio para los cristianos. El conocimiento a través de —128→ las experiencias personales realza, pues, la libertad para escoger.159 |
Che l'azione si svolga in tempi di persecuzione dei cristiani in epoca romana e che compaiano nomi di famiglie come i Collalto, di secoli posteriori160, o di papi e imperatori che nulla hanno a che vedere cronologicamente con gli eventi drammatizzati, non ha, alla fine, importanza. Ciò che realmente interessa nel Mágico prodigioso è il messaggio, la sua resa attraverso una scenografia sempre sorprendente, ricca di invenzioni.
Nel dramma si fondono elementi della commedia profana e della commedia «de santos». L'amore funge sempre da calamita per il pubblico e vale a sottolineare il problema centrale. Nel Mágico prodigioso le arti demoniache forniscono l'elemento drammatico e creano un'atmosfera fuori della normalità, con comparse e sparizioni del demonio, personaggio odiato dal pubblico devoto e al tempo stesso seguito con spasmodico interesse nelle sue arti malvage, con la confortante certezza che alla fine sarà sconfitto.
Né elemento di minor richiamo è la morte, attrazione del terrore. Quando finalmente Cipriano libera del mantello la donna desiderata, che il demonio gli offre attraverso magia, secondo il patto, e si accorge che si tratta solo di uno scheletro, la lezione è terrificante. Cipriano lo dichiara:
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Versi piatti, resi brutti anche da ripetizioni, ma la scenografia imposta da Calderón rende efficace il momento:
[...] sale Cipriano, trayendo abrazada una persona cubierta con manto y con vestido parecido al de Justina, que es fácil, siendo negro este manto y vestido; y han de venir de suerte que con facilidad se quite todo y quede un esqueleto, que ha de volar o hundirse, como mejor pareciere, como se haga con velocidad; si bien será mejor desaparecer por el viento.162 |
I due protagonisti trovano l'unione nella fede e nel martirio ed è la sconfitta del demonio. In uno scenario di grande raccapriccio, che presenta sullo sfondo il patibolo con le teste recise e i corpi dei due martiri, il diavolo, «en alto, sobre una sierpe», simbolo della tentazione, rende pubblica in modo drammatico la propria disfatta rivolgendosi direttamente agli spettatori:
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Punizione dura per
il menzognero. Più convincente finale per gli spettatori non
poteva trovare Calderón, anche se non nuovo, ma certamente
solenne. La battaglia tra Dio e il demonio non poteva che essere
vinta dal primo, che tutto dispone e governa. Il Wardropper
sottolinea che tra il drammaturgo e il suo pubblico, proprio su
questo si stabilisce una sorta di «intimidad
conspiradora» di fronte all'ottusità
dell'ingannato —131→
protagonista, Cipriano, una «ironía
dramática» che funziona in tutto il
dramma e che «corresponde a
los misterios de la religión
cristiana»
164.
Altri drammi presenta il teatro di Calderón in cui si dibattono i temi descritti, ma valgano i quattro esaminati a documentare il suo programmismo religioso e le alte qualità della sua arte.