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ArribaL'ultimo Neruda

Col Memorial de Isla Negra si chiude uno dei periodi più intensi e significativi dell'attività creativa di Pablo Neruda, che vede punte eminenti, oltre che nel libro citato, in Estravagario, nei Cien sonetos de amor, testi che si aggiungono alle Odas, al Canto general, alle Residencias ai Veinte poemas per qualificare definitivamente un artista di segno personalissimo imponendolo con statura inconfondibile sul panorama poetico internazionale.

Il titolo di questo capitolo è alquanto improprio; esso risponde solo a una comodità di trattazione, perché Neruda smentisce subito le possibili congetture che si potevano fare dopo il considerevole sforzo creativo rappresentato dal Memorial, come punto finale posto dal poeta alla propria attività. Ho già sottolineato che il Memorial de Isla Negra si presenta, nell'edizione originale, come un libro aperto; lo conclude, infatti, un canto a Matilde, dichiarato «frammento». Tale canto verrà ripreso solo nel 1967 ne La Barcarola, anzi tolto dal Memorial, come mostra la terza edizione delle Obras Completas e posto all'inizio della nuova raccolta. Così che il Memorial si chiude con il poema «El futuro es espacio». Tra la pubblicazione del Memorial de Isla Negra e La Barcarola Neruda pubblica tuttavia altri due libri, Arte de pájaros e Una casa en la arena, che compaiono nel 1966. Il primo di questi testi è edito con tavole a colori che riproducono esemplari dell'ornitologia cilena cantati dal poeta. Si tratta di un nuovo omaggio sentimentale alla propria terra, forse ispirato dalla policromia degli uccelli dei Caraibi, cantati nella Canción de gesta, poiché il progetto del libro è remoto e il poeta ne aveva spesso parlato. Nel 1966 il libro è un fatto compiuto e dal punto di vista artistico ci offre un Neruda teso a un'interpretazione sottile delle presenze che «controvento e contromare» sono per lui un simbolo vitale347. Gli uccelli che muovono il paesaggio della patria erano apparsi frequentemente nella poesia nerudiana, in particolare l'álbatros, l'aquila, il cóndor, le colombe, i gabbiani, il cigno, la pernice, il «flamenco»; ma qui il poeta non si limita alla loro menzione, a un'allusione generica, o a farne dei simboli esterni, bensì tende a un'interpretazione che coinvolge un'ampia zona interiore, anche se il sottotitolo di ogni composizione, presentando la denominazione scientifica latina di ogni uccello, sembra voler trarre in inganno spostando l'attenzione del lettore sul piano della scienza.

Neruda si identifica in modo trasparente con gli uccelli cantati, per una aspirazione intima: «ciò che vola in me si manifesta / nell'equazione errante delle loro ali»348. Gli uccelli sono esaltati in quanto riflesso di questa aspirazione; il loro insegnamento ha origini remote, viene dai territori dell'infanzia; per Neruda essi rappresentano il riscatto dal peso della materia, da ciò che costringe l'uomo alla terra e lo lega alla morte:


Muere la planta y otra vez se entierra,
vuelven los pies del hombre al territorio,
sólo las alas huyen de la muerte.
El mundo es una esfera de cristal,
el hombre anda perdido si no vuela:
no puede comprender la transparencia.
Por eso yo profeso
la claridad que nunca se detuvo
y aprendí de las aves
la sedienta esperanza,
la certidumbre y la verdad del vuelo349.



La tavolozza nerudiana ritorna in queste liriche ai colori più netti, alle gradazioni che le sono caratteristiche, lontane dalle note accese presenti nella celebrazione degli uccelli venezolani nella Canción de gesta. Ciò qualifica in più ampia dimensione interiore il testo, che si realizza artisticamente in linee geometriche perfette, quelle sempre celebrate dal poeta come estrinsecazione della bellezza. Ma in Arte de pájaros Neruda non si sottrae neppure alla tentazione di riprendere se stesso, definendosi, in «El pájaro yo», un «uccello furioso / della tempesta tranquilla», in un tono che ripete il sottile umorismo di certe composizioni di libri precedenti, soprattutto di Estravagario, o almeno la nota più scanzonata. Né manca un nuovo canto all'amata, alla «Matildina Silvestre», ne «El pájaro ella». La celebrazione degli uccelli cileni è, comunque, per il poeta un nuovo pretesto per confessarsi, per interpretare e manifestare se stesso, nella lezione permanente che le cose e la vita gli hanno dato nel corso degli anni. La chiusa del libro lo conferma:


Yo, poeta
popular, provinciano, pajarero,
fui por el mundo buscando la vida:
pájaro a pájaro conocí la tierra:
reconocí donde volaba el fuego:
la precipitación de la energía
y mi desinterés quedó premiado
porque aunque nadie me pagó por eso
recibí aquellas alas en el alma
y la inmovilidad no me detuvo350.



Anche Una casa en la arena351, libro soprattutto di prose poetiche, anche se non manca qualche composizione lirica, rappresenta un clima intimo, di riflessione e di ricordo, fissazione nel tempo di sensazioni e di episodi, di interpretazioni animiche, tipicamente nerudiano. Il testo può essere avvicinato, in tal senso, soprattutto alle prose di Anillos. Ma l'animismo del poeta non si limita a interpretare la natura in chiave umana, bensì in tale chiave interpreta le cose che lo circondano, particolarmente le «statue di prua», le polene riunite a Isla Negra e poste a dominare i suoi libri, gli oggetti che gli sono cari. Sulla continua presenza dei ricordi dell'infanzia352, sulla presenza dell'oceano, che domina, sottofondo possente, tutto il clima del libro, che lo apre e lo conclude, interpretato da Neruda nel significato di eterna vita -«Non lo legate. Non lo richiudete. Sta ancora nascendo. Scoppia l'acqua sulla pietra e s'aprono per la prima volta i suoi infiniti occhi. Ma si chiudono di nuovo, non per morire, bensì per continuare a nascere»353.- le «fanciulle di legno» rivivono, manifestazioni di una spiritualità nella quale egli si riflette. Il vigore creativo del poeta si manifesta nell'efficacia di uno stile che, apparentemente piano, scava profondamente nell'intimo del lettore, facendolo partecipe dei sentimenti, delle nostalgie, delle suggestioni, dei rimpianti e della tenerezza. Come antiche divinità, ma non senz'anima, le polene popolano le pagine de Una casa en la arena. Neruda le presenta per atteggiamenti suggestivi che ne definiscono la dimensione interiore. La «Medusa II» ha ancora gli occhi volti al nordest, il gran corpo disposto come sulla prua, inclinato verso l'oceano; la «Sirena» rappresenta la condensazione delle esperienze di vita e di mare; la «María Celeste» è sorpresa nell'improvviso pianto invernale: «misteriose lacrime scendono dai suoi occhi di cristallo e restano sulle sue guance, senza cadere»354; la «Novia» è la più dolente, col volto screpolato dalle intemperie e le mani consumate. Per Neruda le polene non sono semplici oggetti, ma esseri nei quali si compendia l'esperienza della vita; esse si comportano come creature vive, in un contatto non più materiale col mondo. La «Cymbelina» è una purissima «fidanzata» che il poeta spiritualizza, come già fece per gli oggetti cantati nelle Odas: «Oh sogno della nave turbolenta, rosa di sale, arancia chiara, ninfea»355. Per Neruda essa rappresenta il simbolo di una ancor non accettata destinazione terrestre e nel suo atteggiamento si identifica con trasporto: «È pura notte, pura distanza, pura rosa e chiarità tranquilla, virtù celeste. Mai si sa se volerà o navigherà d'improvviso, senza avvertimento nella sua notte o sulla nave impressa come una colomba nel vento»356.

Libro di intimità raccolta, Una casa en la arena reca anche ricordi di momenti infelici; è il significato della prosa dal titolo «Premio Nobel en Isla Negra (1963)», nella quale è ricordata la vicenda del mancato conferimento della prestigiosa distinzione al poeta, quando tutti la davano per certa: «Mettemmo un gran catenaccio al vecchio portone di Isla Negra e ci approvvigionammo di alimenti e di vino rosso. Aggiunsi alcuni romanzi polizieschi a queste prospettive di isolamento». Quindi, passato il pericolo e udita per radio la notizia che il premio era stato concesso ad altri, il ritorno alla tranquillità e al contatto semplice con gli uomini: «Matilde e io rimaniamo tranquilli. Con solennità togliamo il gran catenaccio al vecchio portone perché tutti continuino a entrare senza bussare alle porte della mia casa. Come la primavera».

La delusione evidente del poeta è nascosta sotto il tono apparentemente staccato. La prosa in questione fu scritta nei giorni immediatamente successivi all'avvenimento, più per gli amici che per confortare se stesso. Il valore come documento umano si unisce a quello artistico, per la perfetta struttura della prosa, il movimento, la bellezza delle descrizioni dell'avvicinarsi della primavera357. Queste pagine ribadiscono il clima personale sul quale si regge Una casa en la arena, del resto documentato anche dai versi di «Amor para este libro», nei quali il poeta, rivolgendosi alla donna amata, sottolinea il contrasto tra la sua potenza di essere vivente e il destino terrestre, in un panorama naturale che rimane intatto, mentre prosegue inarrestabile la vita del mondo:


Matilde, el tiempo pasará gastando y encendiendo
otra piel, otras uñas, otros ojos, y entonces
el alga que azotaba nuestras piedras bravías,
la ola que construye, sin cesar, su blancura,
todo tendrá firmeza sin nosotros,
todo estará dispuesto para los nuevos días
que no conocerán nuestro destino.



La Barcarola e Fulgor y muerte de Joaquín Murieta, editi nel 1967, rappresentano una nuova svolta nella poesia nerudiana. Il poeta esce, infatti, dal clima raccolto che caratterizza i due libri precedenti, soprattutto Una casa en la arena, e senza abbandonare i motivi preferiti, anzi, tornando a ricollegarsi al Memorial de Isla Negra -e ai libri precedenti-, per il tema dell'amore, di Matilde, passa a celebrare in una concezione eroica la storia americana, si esprima essa nelle figure di Lord Cochrane, di Artigas, o in quella di Joaquín Murieta, cui fa contrasto la figura di Chivilcoy, ossia dell'opportunista, del furfante disposto a ogni compromesso, del trasformista: «Se sparisco ricompaio con un altro sguardo: è lo stesso. / Sono un eroe imperituro non ho inizio né fine e la mia morale consiste in un piatto di pesce fritto»358.

Ai temi allusi si aggiunga quello degli amici, come Rubén Azócar, l'omaggio a Rubén Darío, il canto all'astronauta, il ricordo delle città care al sentimento, alla storia personale del poeta -Praga, Budapest, Parigi, Mosca, Santos, Montevideo, Valparaíso- e di nuovo il ricordo della «maschera marina», delle polene, e il panorama dei motivi che muovono in questo libro il verso nerudiano è completo. La «barcarola», ininterrotto canto d'amore, si insinua dal prologo all'epilogo in ognuno dei dodici episodi di cui è costituito il libro, come avveniva, in parte, col mare in Una casa en la arena. Il motivo autobiografico è presente di continuo, soprattutto nella «barcarola». Ha scritto Fernando Alegría che «come in ogni poesia autobiografica, esseri e cose funzionano come segni. A volte i segni si autodefiniscono attraverso la ripetizione, o danno essi stessi la loro chiave»359. Non solo i personaggi, ma le cose aprono spiragli verso l'intimità nerudiana. La «barcarola» prende le mosse da una dichiarazione d'amore a Matilde: «Amante, ti amo e mi ami e ti amo»360; la reciprocità del sentimento è affermata come stagione piena della vita; anche se Neruda ha presente il limite, è continuamente cosciente della brevità umana -«son corti i giorni, i mesi, la pioggia, i treni»-, egli riafferma la permanenza del sentimento al disopra del tempo e il suo significato di valore permanente: «e crescono nel mio cuore le tue radici di frumento»361. I simboli ricorrenti nei Cien sonetos de amor, o almeno alcuni di essi riferiti all'amata, si ripresentano ne La Barcarola; e si ripresenta -in metri diversi, ottosillabi, endecasillabi, fino a versi di diciassette sillabe, senza regolarità- il clima de Las uvas y el viento, nell'evocazione delle contrarietà dei luoghi in cui fiorì l'amore, di Capri, in particolare, di cui Neruda offre un'interpretazione finissima, luminosa e vibrante di poesia, trasformando l'isola in luogo d'origine dell'aurora362. Matilde è ancora, come nei Cien sonetos de amor «chiara e oscura», «bruna e dorata», «simile al grano e al vino e al pane della patria»363. Il poeta-amante ne riafferma la funzione vitale, l'identità positiva e germinante con la terra, cantata fin dai Versos del Capitán: «nella tua bocca mi hai dato l'ombra e la musica e il fango terrestre»364. In forme nuove, con nuova terminologia, Neruda celebra l'oggetto dell'amore, fa una rapida sintesi, per punti eminenti, di momenti decisivi per la sua vita. Ai frammenti presi dall'ultimo libro del Memorial aggiunge, in questo inizio della «barcarola», un nuovo frammento, che intitola «Viajeros», nel quale ricorda la luce dell'Asia sull'amata, la steppa, i territori di Samarkanda e di Bokhara visitati con Matilde. Il canto d'amore è interrotto da un improvviso insorgere di preoccupazioni per la patria, sconvolta dal terremoto, e per gli amici. Immagini raccapriccianti e intensamente umane di morte e di distruzione dominano «Terremoto en Chile»: «la povera famiglia che nasce e che soffre di nuovo il terrore e la fenditura, / il suolo che allontana i piedi e divide il volume dell'anima / fino a renderla un fazzoletto, un pugno di polvere, un gemito»365. Il richiamo a «Cataclismos», dei Cantos ceremoniales, è evidente.

Con questa struttura la «barcarola» si snoda, interrotta dai dodici episodi allusi. La felicità dell'amore, nella seconda ripresa del canto, è sostituita dal ricordo sempre vivo della Francia, in «Serenata de París», del passato remoto -la residenza in rue Huchette; Vallejo- e di un più recente, o permanente passato d'amore, che permette il riprendere della «barcarola», la quale torna alla patria e all'amata, all'affermazione di una vitalità poetica non incasellabile in schemi fissi:


Yo cambié tentas veces de sol y de arte poética
que aún estaba sirviendo de ejemplo en cuadernos de melancolía
cuando ya me inscribieron en los nuevos catálogos de los optimistas,
y apenas me habían declarado oscuro como boca de lobo o de perro
denunciaron a la policía la simplicidad de mi canto
y más de uno encontró profesión y salió a combatir mi destino
en chileno, en francés, en inglés, en veneno, en ladrido, en susurro366.



Il sottile umorismo di Neruda fa capolino discretamente in questi versi; ma al disopra dell'odio egli afferma la bontà intrinseca del messaggio recato con la sua poesia ed esteso ad amici e a nemici: «Qui reco la luce e la estendo al cattivo compagno»367. In particolare Neruda afferma la natura inevitabile della sua funzione: «Aprirà la sua cantina la notte e io dormo coperto di stelle. E canto. / Giungerà la mattina con la sua rosa rotonda sulla bocca. E io canto / Io canto. Io canto. Io canto. Io canto»368.

Il ritorno alla patria, l'assenza, o meglio il timore dell'assenza di Matilde -che riconduce a momenti angosciati espressi nei Cien sonetos de amor- apre la strada al terzo episodio, «Corona del Archipiélago para Rubén Azócar», al canto, cioè, dell'amico defunto. La tristezza del ricordo introduce la ripresa della «barcarola», con la riflessione sugli anni e sul tempo che va erodendo progressivamente le vite, del poeta e dell'amata: «Va il tempo affondando forse nel mio corpo, nel tuo corpo, una rosa, / e come un termometro l'età della rosa discende nella terra»369. Benché egli affermi di rinascere continuamente: «è l'alba nel mio sangue»370.

Tra espressioni d'amore e inquietudini la patria impone nuovamente la sua immagine, la primavera insinua i colori delicati del mese di settembre, ma il poeta insegue ricordi di morte. Si apre, così, il quarto episodio, «Fulgor y muerte de Joaquín Murieta», storia del leggendario cileno, cercatore d'oro in California. Neruda risuscita il mito e canta nel bandito Murieta il simbolo della rivolta della povera gente contro l'ingiustizia e il sopruso: «Da questo momento il Popolo ripete come una campana sotterrata la mia lunga cantata a lutto»371. È questo uno degli episodi di maggior rilievo de La Barcarola. La poesia nerudiana rivela accenti inediti, una molteplicità di cadenze, attraverso il ricorso ai metri più vari, dal sonetto al «romance», al consueto verso lungo e maestoso che va fino a diciassette sillabe, per suscitare un clima eroico. La semplice vicenda di Joaquín Murieta diviene gesta epica. Il tema viene ripreso nella trascrizione drammatica. Il bandito ucciso nel 1853 a Panoche Pass dai Rangers è, per Neruda, un fantasma vivo che ancora percorre la California372. La dimensione leggendaria e mitica del personaggio, con le sue gesta e la morte atroce, lo impongono al poeta come «protagonista di un'epoca dura», con la suggestione che esercita l'eroe destinato alla sconfitta, il «vendicatore senza speranza»373. Neruda è il bardo che narra la storia, che interviene originalmente a sollecitare l'attenzione, il consenso, lo sdegno e il compianto dello spettatore. Le esperienze teatrali di Lorca sono fatte proprie dal poeta, non in un'imitazione passiva: il ricorso al coro per la «cantata» di Murieta richiama il magistero di Lorca, che a distanza di tanti anni, improvvisamente dà frutto nell'amico. L'opera è intesa in un significato aperto, affidata totalmente all'interpretazione del regista. Gli avvertimenti dell'autore sono chiari: «Questa è un'opera tragica, ma, anche, in parte è scritta come scherzo. Vuol essere un melodramma, un'opera e una pantomima. Dico questo al regista perché inventi situazioni o ogetti fortuiti, vestiti, arredamenti. Le stelle che compaiono in una scena devono aprirsi grandi come ruote sopra gli spettatori. I sorveglianti (precursori del Ku-Klux-Klan) possono arrivare su cavalli di legno, i frequentatori del cabaret possono avere baffi giganteschi»374. Per il corteo funebre Neruda raccomanda molta pateticità, «una pateticità stracciona, che confini col grottesco», come ricorda di aver visto in un atto No a Yokohama, in un teatro di periferia375. La dichiarazione di non avere ambizioni teatrali è certo sincera e fu confermata dall'atteggiamento schivo del poeta in occasione della rappresentazione dell'opera a Milano, nell'aprile del 1970: «Non ho vanità di autore teatrale e, come si può vedere, do conto dei miei limiti. D'altra parte, non ho mai capito nulla di quanto si trattava in quell'opera giapponese. Spero che lo stesso accada agli spettatori di questa tragedia»376. L'esperimento drammatico è rimasto unico nell'opera di Neruda, ma la sua validità artistica è indiscutibile.

Tornando a La Barcarola, il libro continua nell'alterno succedersi accennato e conclude con un «Solo de sal», sull'improvviso trasformarsi del giorno in tristezza. Ricorda l'Alegria che «sale» è un termine vitale per Neruda, di sofferenza e di purificazione377. Il poema rappresenta, in effetti, come la purificazione finale di questo lungo viaggio d'amore attraverso la geografia, le persone, le cose, il ricordo, il tempo, compiuto da Neruda e da Matilde. La tristezza repentina del canto scaturisce dai ricordi dell'infanzia e della giovinezza, da quelli dell'Asia, di un Vietnam diverso, visitato nel 1928, ora paragonato allo spettacolo di rovina cui l'ha ridotto la guerra. Neruda si identifica nel dolore e nella resistenza del popolo vietnamita: «sono i nostri dolori quei dolori distanti / e la resistenza dei distrutti è parte concreta della mia anima»378. Il secolo oscuro, al suo crepuscolo, che sarà tema centrale di Fin de mundo, è già presente in tutta la sua nota più tragica nell'epilogo de La Barcarola. E tuttavia essa conclude con un'ennesima apertura al futuro:


Es la hora, amor mío, de apartar esta rosa sombría,
cerrar las estrellas, enterrar la ceniza en la tierra:
y en la insurrección de la luz, despertar con los que despertaron
o seguir en el sueño alcanzando la otra orilla del mar que no tiene otra orilla379.



Nel 1968 Pablo Neruda pubblica una nuova raccolta poetica, Las manos del día, e un libro a due mani, con Miguel Ángel Asturias, Comiendo en Hungría, interpretazione in chiave vitalista e poetica della «tavola felice». L'angolazione dalla quale Neruda parte è sempre quella che lo ha portato a cantare in Estravagario l'«ora azzurra del pranzo», quella «infinita dell'arrosto», «panetterie planetarie / tavole con fragole alla panna, / e un piatto come la luna / dove tutti pranziamo»380. La fame ancestrale del mondo americano denunciata dal poeta, i secoli di fame maya, la gran fame dei castigliani conquistatori lo inducono a un'attenzione costante, come egli dichiara, per la tavola: «Queste fami camminano nel nostro sangue e ci hanno dotati di una curiosità infinita per quanto si mangia. Queste fami riunite ci hanno dato un appetito divoratore»381. Pagine curiose e finissime -e anche qualche poesia-, sono dedicate alla cucina ungherese, in chiave di rivendicazione del diritto dei popoli a sfuggire al bisogno: «Con pietra, bastone, coltello e scimitarra, con fuoco e tamburo avanzano i popoli alla tavola. I grandi continenti denutriti erompono in mille bandiere, in mille indipendenze. E tutto va alla tavola: il guerriero e la guerriera. Sopra la tavola del mondo, con tutto il mondo a tavola, voleranno le colombe. Cerchiamo nel mondo la tavola felice. Cerchiamo la tavola dove il mondo impari a mangiare. Dove apprenda a mangiare, a bere, a cantare! La tavola felice»382.

Las manos del día, breve raccolta, ma di molto interesse, presenta un Neruda continuamente alla ricerca di se stesso, intento costantemente a confessarsi nella propria umanità, nelle irrinunciabili aspirazioni. Ma il clima è sempre più autunnale, nel senso positivo del termine, s'intende, vale a dire quale espressione di una stagione di piena maturità nella quale si acuiscono i problemi vitali. L'Alazraki ha osservato che in questa raccolta Neruda accetta «con un sapore di mea culpa» il fatto che le sue mani non abbiano costruito gli oggetti, ma che man mano si avanza il senso di colpa cede alla volontà di affermazione; che per «utile o utilitaria» che sia la poesia non può competere con l'utilità delle cose; che «in ultima istanza gli unici doveri del poeta sono i doveri verso se stesso e la propria arte»383; ossia, egli «riafferma la sua fede nella poesia come la creazione di questo io essenziale tante volte fatto tacere»384. Ma se esiste una volontà nerudiana che si manifesta nella sua creazione artistica, è quella di essere in ogni momento libero di esprimere se stesso, anche nei momenti in cui più decisamente sembra piegare la sua poesia a un'«utilità». Se egli si sente colpevole di non aver attestato altro che «l'eroismo delle altre mani / e la procreatrice costruzione / che dita morte sollevarono / e che dita vive continuano»385, tuttavia, per la sua missione di poeta «popolare» si sente partecipe di quanto gli altri hanno fatto; anch'essi dal suo nulla hanno tratto qualcosa: «e loro, da tanto nulla che trassi / dal nulla mio, / presero qualcosa e gli servi la mia vita»386.

Il passato, l'assenza, l'acqua col suo significato di mistero, il sole, la luna, la «fluviale passeggiata dell'odio»387, costruiscono l'epoca «raggiante e sporca» in cui il poeta afferma di essere vissuto, e di essersi abituato a nascere388. Il suo terrore per la guerra, con la rinnovata allusione al Vietnam389, costituisce un'ulteriore affermazione del dovere del poeta di denunciare il crimine e l'ingiustizia. Neruda riprende, quindi, la sua funzione e nella denuncia della tragedia ricompaiono i toni crudi e patetici con cui da sempre nella sua poesia contempla il dramma dell'uomo che finisce:


Han dejado una charca
de padre, madre e hijo:
busquemos
en ella,
busca tus propios huesos y tu sangre,
búscalos en el barro de Viet Nam,
búscalos entre otros tantos huesos:
ahora quemados ya no son de nadie,
son de todos,
son nuestros huesos, busca
tu muerte en esa muerte,
porque están acechándote los mismos
y te destinan a ese mismo barro390.



Gli stessi cupi accenti echeggeranno in Fin de mundo, in una serie assillante di problemi che riflettono nel poeta quelli dell'umanità, in un mondo in cui egli vorrebbe invece raccogliere «tutto l'amore che ancora non si sveglia»391. Ma Neruda continua a scandagliare in se stesso, nella sua condizione di essere destinato alla polvere, di fronte all'indifferenza con cui la vita continua: «pensi si, si, che se tu fossi morto / non solo non sarebbe accaduto nulla, / ma che mai vi fu tanta festa / come nel bel giorno del tuo funerale»392. Hernán Loyola ha scritto che ne Las manos del día la circostanza centrale è costituita dall'angoscia di sentire la morte avvicinarsi, ma senza il ritorno al clima delle Residencias, bensì con un'obiettiva e terribile presa di coscienza393. Di qui la materia riflessiva che domina la raccolta.

A pochi giorni dal suo sessantacinquesimo compleanno Neruda pubblica Aún, presso il suo primo editore, Nascimento, dedicandolo, come indica il «colophon», «a coloro che, in Cile e in altre nazioni, lo stimano e lo amano»394. La breve raccolta, ventotto composizioni di corta estensione, presenta punti di contatto con Las manos del día, ma soprattutto con il clima de Una casa en la arena e, in particolare, con quello del Memorial de Isla Negra. Neruda non scioglie, qui, canti d'amore a Matilde, ma alla terra, alla geografìa di un'Araucania intima, al «chiaro Ercilla»395 che «ci scoprì a noi stessi»396, ai nomi magici del sud cileno, dei quali il poeta sente continuamente l'operante suggestione. Il clima di «memoria» e di confessione, proprio del Memorial, è caratteristico di Aún; il mondo dell'infanzia torna ad agitarsi, a vivere, come in Donde nace la lluvia. Si spiega, in questo senso, la protesta di adesione spirituale al «silenzio con radici»397, dal quale il poeta afferma di aver tratto la propria origine, la selva; la terra, tante volte cantata come sostanza spirituale della sua vita, è nuovamente interpretata dal poeta in questo significato398, come lo è la presenza del mare399. Dal fondo del tempo e dei ricordi compare una figura, dimenticata nel Memorial, quella di José Ángel Reyes, il «sempiterno», nonno del poeta, vissuto centodue anni, evocato in un atteggiamento familiare, con la coppa colma di vino che «tremava come una farfalla»400. Il libro si chiude col commiato del poeta il quale rivendica il diritto di essere se stesso: «Ti prego: lasciami intranquillo. / Vivo con l'oceano intrattabile, e mi costa molto il silenzio. / Muoio con ogni giorno. / Muoio con ogni giorno in ogni onda. / Ma il giorno non muore / mai. / Non muore. / E l'onda? / Non muore. / Grazie»401.

Fin de mundo è pubblicato nel medesimo anno di Aún, 1969, e afferma la propria validità come uno dei testi più preoccupati e profondi dell'opera di Neruda. In esso il poeta si identifica pienamente con il destino dell'umanità. Nei suoi poemi l'uomo appare oppresso da un crudele destino di distruzione e di morte. Prospettive di colossali catastrofi si contrappongono alla persistenza nel poeta di una fede ostinata nella salvezza. In un verso Neruda ribadisce la propria funzione: «Il mio dovere è vivere, morire, vivere»402. Più tardi, accennando a questo passaggio, egli ha spiegato403 che prendendo parte alla vita dell'uomo il poeta vive e muore con lui, ma torna a vivere in funzione dell'«uomo infinito», indistruttibile malgrado le molte morti individuali; dovere del poeta è, perciò, di continuare a infondere la speranza.

In Fin de mundo Neruda presenta l'aspetto più negativo dell'attuale realtà del mondo. Le illusioni, sempre numerose, si perdono nella delusione, il male insidia tenacemente i timidi germogli del bene. Il poeta osserva con angoscia le cose, interpretando il messaggio negativo di un'età in cui le prospettive felici naufragano progressivamente nella tristezza. Le grandi speranze poste dall'umanità nel futuro, alla fine del secondo conflitto mondiale, si sono rivelate infondate; all'era di pace e di ritrovata fratellanza tanto attesa s'è sostituita una nuova epoca di guerre e di tradimenti. Neruda ricorda le grandi figure della storia contemporanea, che lottarono per la liberazione dei popoli, dal Ché ai leaders dell'indipendenza africana, uccisi a tradimento, la spaventosa guerra del Vietnam, gli avvenimenti di Praga, che finiscono per oscurare il significato positivo di eventi come la rivoluzione cubana. La bomba atomica sganciata sul Giappone è, per Neruda, all'origine della violenza che domina il mondo. Dalla «fabbrica totale della morte», dal «nucleo scatenato», viene la grande minaccia per il futuro, che porterà al suicidio dell'universo404. Il poeta osserva con angoscia l'uomo che procrea nel tormento e vive nella prospettiva di essere distrutto dalla bomba, divorato da mandibole di macchine feroci, schiacciato da un carro armato. La macchina, spietata e crudele, è il nuovo simbolo dell'età infelice che viviamo. L'apparente efficienza del mondo, mito ingannevole della società moderna, è causa dell'inaridirsi delle qualità umane, motivo d'infelicità e di morte per l'umanità.

Intimamente implicato nella vita del proprio simile, Neruda osserva con dolorosa partecipazione la fine miserabile del secolo. Ormai la natura gli si presenta come un bene perduto; l'innocenza è sottoposta al martirio; i bimbi soccombono senza colpa nella ricorrente piaga della guerra; i beni supremi si perdono definitivamente. La morte è di nuovo presenza che domina gli esseri, di fronte al fallimento dei miti in cui avevano creduto, e l'assenza di Dio, una volta ancora denunciata dal poeta; essa presiede, perciò, le prospettive umane, e gli oggetti ne attestano in modo straziante la gratuità crudele: il cappello caduto, la scarpa bruciata, il mucchio «postumo» di occhiali, l'uomo, la donna, la città divenuti cenere, denunciano la pazzia del secolo che si distrugge con le proprie armi micidiali405.

Nella tenera enumerazione degli oggetti, nell'allusione ai corpi inanimati, alle costruzioni abbattute dalla furia distruttrice, la partecipazione nerudiana al dramma che tutti ci coinvolge si manifesta nella dimensione più profonda. Per denunciare la pazzia del mondo, il poeta ricorre a simboli di lunga tradizione negativa nella sua poesia, dal cappello alle scarpe, alla cenere, ora resi patetici nell'implicazione del concetto di morte innocente. La capacità emotiva della poesia nerudiana si rivela soprattutto nella menzione degli oggetti che sopravvivono alla morte di coloro cui appartennero; è il caso della bambola dell'Asia, abbandonata dalla bimba che invano tentò di sfuggire alla morte:


Muñeca del Asia quemada
por los aéreos asesinos,
presenta tus ojos vacíos
sin la criatura de la niña
que te abandonó cuando ardía
bajo los muros incendiados
o en la muerte de los arrozales406.



La denuncia va continuamente dall'esterno all'interno; Neruda manifesta anche un senso di colpa per aver continuato a vivere «quando uccidevano gli altri»407. L'ostentato prosaismo del linguaggio si presenta in Fin de mundo come un tentativo di resistere alle suggestioni liriche, per rendere con maggior serietà il peso della tragedia, la preoccupazione del poeta giunto a un momento cruciale della vita, nel quale si impone un bilancio che necessariamente implica un giudizio sull'età in cui gli è toccato di vivere. La problematica nerudiana si aggira continuamente intorno al perché della vita e del mondo. Il mare, simbolo in Estravagario dell'eternità e dell'indifferenza di fronte alla vicenda dell'uomo408, torna in Fin de mundo a riconoscere il poeta, ma senza chiarirgli il mistero del mondo409. E Neruda, come per trovare un'ancora cui afferrarsi, torna a ribadire la ragione della sua poesia:


Para los pueblos fue mi canto
escrito en la zona del mar
y viví entre el mar y los pueblos
como un centinela secreto
que defendía sus batallas
lleno de amor y de rumor:
porque soy el hombre sonoro,
testigo de las esperanzas
en este siglo asesinado.
Cómplice de la humanidad
con mis hermanos asesinos410.



La raccolta si chiude su una data, 1970, e su una prospettiva di altri trent'anni incerti. Neruda ha scritto: «Al contrario di tutti i miei libri, quest'ultimo è un libro amaro, una specie di incubo sulla crudeltà e la cattiveria del Secolo XX. Naturalmente, come in tutte le mie opere, vi sono fiori e uccelli e alcuni temi meno dolorosi»411. Al disopra dell'angoscia e del dubbio il poeta ribadisce infatti il suo dovere di affermare l'«uomo infinito», il trionfo della felicità, e di nuovo la permanenza del mondo.

Nel 1970 Neruda pubblica altri due libri, La espada encendida e Las piedras del cielo. Il primo è un originale poema della creazione, immerso nell'atmosfera mitica e magica del sud magellanico e della fantastica «Città dei Cesari», città «incantata sulla cordigliera delle Ande, sulla riva di un gran lago», come scrive Vicuña Cifuentes, «pavimentata d'oro e d'argento massiccio», nella quale chi vi penetra «perde il ricordo della strada che ad essa lo condusse»412. Neruda ricorre a questi elementi leggendari per svolgere un nuovo capitolo della sua opera all'insegna dell'amore. Emir Rodríguez Monegal ha notato che la «sotterranea vena profetica nerudiana» si può vedere, più che nelle Memorias e nel Memorial de Isla Negra, in quest'ultimo libro poetico413. Nelle ottantasette composizioni di cui è costituito il poema Neruda racconta la storia sentimentale della prima coppia da cui ebbe origine il mondo americano, e in essa quella di un amore nel quale si identifica. La storia biblica richiamata dalla citazione iniziale della Genesi (III, 24) -«Cacciò, quindi, fuori l'uomo e pose all'oriente del giardino dell'Eden cherubini, e una spada di fuoco che mulinava da ogni parte per difendere l'albero della vita».- si snoda nel succedersi di spaventose minacce e di scoperte d'amore; sulla morte di un Dio i due protagonisti finiscono per attingere la propria divinità. All'inizio del poema, Neruda ne spiega l'argomento: «In questa favola si racconta la storia di un fuggitivo dalle grandi devastazioni che distrussero l'umanità. Fondatore di un regno situato nelle spaziose solitudini magellaniche, si decide a essere l'ultimo abitante del mondo, finché compare sul suo territorio una donzella evasa dall'aurea città dei Cesari. Il destino che li portò a confondersi solleva contro di essi l'antica spada di fuoco del nuovo Eden selvaggio e solitario. Al prodursi la collera e la morte di Dio, nella scena illuminata dal gran vulcano, questi esseri prendono coscienza della loro stessa divinità»414.

Il valore emblematico della vicenda è trasparente. Neruda canta nella coppia che rifonda l'umanità, se stesso e Matilde; la divinizzazione dei due protagonisti al segno dell'amore, e nonostante le insidie, è quella stessa dei due innamorati che hanno ritrovato la stagione felice; la predestinazione dell'incontro tra Rhodo e Rosía è la medesima cantata più volte da Neruda per quanto riguarda lui stesso e l'amata. Una nota di acceso erotismo percorre tutto il poema; la coppia finisce per amarsi senza inibizioni, con trasporto totale. Anche per questo accento il poema conferma la costante novità della poesia nerudiana, pur su un antico filone erotico che viene dai primi libri, da Crepusculario, dai Veinte poemas de amor, e che continua a serpeggiare nelle Residencias e quasi in tutto il resto dell'opera nerudiana. Ne La espada encendida la nota erotica si depura, però, delle sue implicazioni corpose per l'intensità del trasporto, in un lirismo che elimina ogni nota peccaminosa; l'amore è ricondotto all'innocenza delle origini, anteriore al concetto di peccato, diviene forza per resistere alla paura della solitudine, all'ira degli dei, ai cataclismi, alla spada di fuoco minacciosa del vulcano, dio che uccide. La coppia, vittoriosa nel nome dell'amore, si dispone, nel canto finale, a due voci, a un nuovo inizio dell'umanità; dice Rosía: «Da tutta la morte giungemmo all'inizio della vita»415.

Nelle trenta composizioni de Las piedras del cielo, è un diverso Neruda che ci si presenta, anche se la luminosità della poesia de La espada encendidasembra esaltarsi nel canto, non più solamente della semplice pietra -di lungo significato positivo nell'opera nerudiana-, ma delle pietre più preziose del creato. Concha Meléndez ha definito la raccolta un libro «di tranquilla bellezza, di quietato ardore; fiamma che non brucia e ci solleva a una delle più belle provincie della sua residenza sulla terra»416. Ma se Neruda vede riflettersi nelle pietre la bellezza del cielo417 e di esse canta la varietà luminosa -dal quarzo al turchese, allo smeraldo, allo zaffiro, all'agata marina, al topazio, alla cornalina, all'ametista...-, ma anche le pietre semplici del fiume, la pietra della roccia, il suo verso diviene presto inquieto e richiama gli accenti de Las piedras de Chile. Per il poeta, infatti, le pietre costituiscono una lezione di eternità negata alla fragilità dell'uomo che «si abbatte e disfa la sua materia, / la sua parola e la sua voce si sbriciolano»418. E mentre il tempo scorre senza scalfire le pietre, esercita il suo potere sull'essere vivente, in un rapido processo di distruzione: «La pietra intatta ignora / il passeggero passo del verme»419. Sono accenti inquietanti che richiamano ancora la lezione di Quevedo, al quale in questo crepuscolo della vita Neruda si sente sempre più vicino. Ma il poeta reagisce di nuovo, nel canto finale, alla prospettiva di una morte senza destino, con una nuova professione di permanenza:


piedra seremos, noche sin banderas,
amor inmóvil, fulgor infinito,
luz de la eternidad, fuego enterrado,
orgullo condenado a su energía,
única estrella que nos pertenece420.



Geografía infructuosa appare nel 1972, e continua il clima pensoso de Las piedras de Chile, la nota sempre più marcata del poeta metafisico. Il rallentamento dell'attività nerudiana, che interrompe il ritmo consueto delle sue pubblicazioni, si spiega con gli impegni della carica di ambasciatore a Parigi, ma anche con l'intermittenza della malattia. «Tra l'Ambasciata e la mia malattia -scrive nel novembre 1971421- non ho lavorato per nulla alle mie cose e ho due libri inconclusi che mi attendono». Quando appare Geografía infructuosa -il cui primo titolo era Geografía inconclusa-, Neruda ne afferma il valore: «credo che sia uno dei miei libri più maturi»422. Nella nota apposta alla fine del volume egli spiega come si andò formando il libro: «L'anno 1971 implicò molti mutamenti nelle mie abitudini. Per questo e per non sembrare enigmatico senza ragione essenziale lascio testimonianza di spostamenti, malattie, gioie e malinconie, climi e regioni diverse che si alternano in questo libro. Qualcosa fu scritto tra Isla Negra e Valparaíso, e su altre strade del Cile, quasi sempre in automobile, catturando il paesaggio successivo. Pure in automobile furono scritti molti altri poemi, in autunno e d'inverno, sulle strade della Normandia francese»423. Libro composito, quindi, tormentato e terminato senza un piano fisso. In Francia Neruda combatteva la fatica degli impegni politici e l'assalto del male con viaggi frequenti alla sua casa di campagna in Normandia, acquistata dopo il Premio Nobel, alla quale dedicava molte cure. Una condizione inquieta domina visibilmente le pagine di Geografía infructuosa. Il cambio dell'aggettivo, da «inconclusa» a «infructuosa», ha un evidente significato: il primo rappresentava, infatti, la coscienza di un itinerario geografico-spirituale non compiuto; il secondo riflette un incupimento di clima, la considerazione dell'inutilità del viaggio nel tentativo di sfuggire a se stesso, infruttuoso di fronte all'insorgere dei problemi che da sempre tormentano, senza risposta, il poeta.

Dalla luminosità della prima composizione, scritta a Valparaíso, nella quale Neruda sembra identificarsi con la luce -«Io sono un uomo luce, con tanta rosa, / tanta gioia dissennata / che arriverò a morire di fulgore.»424- il tono diviene riflessivo. Già nella seconda lirica, «Ser», il poeta si vede, in sostanza, nel proprio limite, «un povero essere», un «orgoglio inutile, / un sarò vittorioso e sconfitto». La parola d'ordine della vita è «morte all'identità»; i corpi si succedono uguali; l'ombra allatta la tomba, e l'uomo è un continuo ripetersi425.

La mancanza di identità è favorita dalla meccanica del mondo che trasforma gli uomini in numeri426. La presenza della morte, la coscienza che l'uomo è stato posto al mondo per ripetere gesti uguali che conducono alla sepoltura, mentre la vita rinasce continuamente, ma con un crudo distacco tra uomo e uomo, tra chi muore e chi si presenta nuovo sulla scena, da alla poesia nerudiana una vibrazione forse mai conosciuta prima con la stessa intensità. Il paesaggio natale, la presenza della legna, riconducono improvvisamente l'aroma consueto; i fiori impongono i loro colori nell'estate della cordigliera; il mezzogiorno è «un orologio azzurro / estatico, rotondo»427, ma tra il paesaggio dell'anima e il poeta s'interpone la tristezza della pioggia, il freddo dell'inverno428. Il senso di un meccanico succedersi di giorni è reso drammatico dall'incalzare degli interrogativi intorno all'enigma della vita, al perché della morte. La coscienza quevedesca di essere «polvere peritura» contrasta con l'apparente immutabilità del creato, forse illusione:


Sí, no se altera nada pero tal vez se altera
algo, una brizna, el aire, la vida, o en fin, todo,
y cuando ya cambió todo ha cambiado,
se ha ido uno también, con nombre y huesos429.



La dolcezza del paesaggio della Normandia -«Io vivo ora in un paese così dolce, / come la pelle autunnale dell'uva»- non basta a ricondurre Neruda ad accenti più sereni, a un clima che superi, nella gioia di un godimento panico, l'incalzare sempre più pressante della metafisica. Del resto egli ribadisce sempre la condizione spirituale che dalle origini lo ha reso lo stesso sempre; non rifiuta la malinconia, che dichiara «inseparabile dall'anima», le «nubi strazianti», i «papaveri amari», che non sono «residui dell'età», «ma piuttosto complemento terreno della vita»430. È un dichiarare l'inevitabilità della problematica, che mai, per quanto riguarda Neruda, ha avuto un significato di ripiegamento, ma al contrario ha esaltato la coscienza di un dovere verso l'uomo. Il pensiero che si possa ritenere responsabile di questo atteggiamento l'età, muove il poeta a sottolineare la permanenza nella sua dimensione spirituale, e tutta la sua poesia lo dimostra. Non v'è dubbio, tuttavia, che l'avanzare degli anni, le condizioni fisiche431, la lontananza da una geografia che per Neruda ha sempre rappresentato una dimensione spirituale432, acuisce i problemi. Il ricordo diviene anch'esso tormento, perché del passato non rimane nulla; il poeta ha l'impressione di essere un sopravvissuto, ma ribadisce la partecipazione alla lotta, alle speranze e alle sconfitte degli uomini: «mi distribuii in frammenti / che entravano ed uscivano da altre vite»433. La lirica finale, cui appartengono questi versi, rappresenta un'ultima affermazione del significato della poesia nerudiana che si qualifica al segno della fratellanza.

L'ultimo libro, edito in vita il poeta, nel 1973 -altri libri ai quali stava attendendo potranno forse essere conosciuti un giorno se saranno sfuggiti alla furia distruttrice degli uomini del colpo di stato e al saccheggio- è dedicato alla rivoluzione cilena. Neruda torna, nella Incitación al nixonicidio y alabanza de la Revolución chilena, a un tipo di poesia politica per qualche aspetto vicina a quella della Canción de gesta. Nella «Spiegazione perentoria» egli afferma che il libro «non ha la preoccupazione né l'ambizione della delicatezza espressiva, né l'ermetismo nuziale» di alcuni dei suoi «libri metafisici»434. E aggiunge che come un esperto meccanico conserva i suoi «mestieri sperimentali»: «devo essere di tanto in tanto un bardo di utilità pubblica»435. Perciò non si preoccupa degli esteti: «E che gli squisiti esteti, se ve ne sono ancora, facciano un'indigestione: questi alimenti sono esplosivo e aceto per il consumo di alcuni. E buoni forse per la salute popolare. Non ho altra scelta: contro i nemici del mio popolo la mia canzone è offensiva e dura come pietra araucana»436.

Richiamandosi ai precedenti della più antica poesia, dei classici e dei romantici, Neruda ricorre, quindi, al libello e inizia il suo poema -di quarantaquattro composizioni- invocando Walt Whitman, per averne aiuto e ispirazione contro l'uomo che fa responsabile di quanto sta accadendo nel suo paese437. Il poema si snoda con lentezza, tratto perde mordente, ma riacquista vigore nella denuncia del «concubinato del danaro»438, delle responsabilità del «Capo insanguinato e imbroglione»439. Gli accenti di España en el corazón, le sue immagini inquietanti di morte e di vendetta, ritornano in qualche caso nel nuovo poema, nel quale si insinuano anche note umoristiche -come quando allude, in «Donna Casseruolina Legañín»440 in un ritmo di favola infantile, al chiassoso episodio della dimostrazione femminile anti-allendista ritmata dalle casseruole-; o confessioni che richiamano volutamente il poeta preferito, Quevedo441, o infine sollecitazioni alla lotta e al canto. Il poema si chiude sulla convocazione di Ercilla; la penultima composizione è un'ottava ormai famosa dell'Araucana, in cui Ercilla celebra il Cile e la sua gente, mai retta da alcun re, né sottomessa a straniero dominio. Nella composizione finale Neruda inserisce efficacemente, in un canto a due voci, i versi citati del poeta spagnolo, per concludere:


La estirpe popular esclarecida,
es como ayer fecunda y orgullosa
Y NO HA SIDO POR REY JAMÁS REGIDA
Y aunque sea atacada y agredida
Chile, mi Patria no será vencida
NI A EXTRANJERO DOMINIO SOMETIDA442.



Non era questa la realtà che Neruda era destinato a vedere negli ultimi giorni della sua vita.

Con questo libro la poesia nerudiana ribadisce la sua funzione di «utilità pubblica». Alla luce degli avvenimenti cileni il poema acquista soprattutto un profondo interesse umano. Ma tutta la poesia di Neruda, e la sua stessa figura, alla luce di tali avvenimenti vengono esaltate, poiché ne sottolineano l'intimo tormento. Alludendo al poeta e alla sua opera, richiamando un suo verso, Aragon ha scritto:


Toi qui sans doute mieux que nul toujours existes
Entre les deux épés de vivre et de mourir
O poète443.







 
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