Col Memorial de Isla Negra si chiude uno dei periodi più intensi e significativi dell'attività creativa di Pablo Neruda, che vede punte eminenti, oltre che nel libro citato, in Estravagario, nei Cien sonetos de amor, testi che si aggiungono alle Odas, al Canto general, alle Residencias ai Veinte poemas per qualificare definitivamente un artista di segno personalissimo imponendolo con statura inconfondibile sul panorama poetico internazionale.
Il titolo di questo capitolo è alquanto improprio; esso risponde solo a una comodità di trattazione, perché Neruda smentisce subito le possibili congetture che si potevano fare dopo il considerevole sforzo creativo rappresentato dal Memorial, come punto finale posto dal poeta alla propria attività. Ho già sottolineato che il Memorial de Isla Negra si presenta, nell'edizione originale, come un libro aperto; lo conclude, infatti, un canto a Matilde, dichiarato «frammento». Tale canto verrà ripreso solo nel 1967 ne La Barcarola, anzi tolto dal Memorial, come mostra la terza edizione delle Obras Completas e posto all'inizio della nuova raccolta. Così che il Memorial si chiude con il poema «El futuro es espacio». Tra la pubblicazione del Memorial de Isla Negra e La Barcarola Neruda pubblica tuttavia altri due libri, Arte de pájaros e Una casa en la arena, che compaiono nel 1966. Il primo di questi testi è edito con tavole a colori che riproducono esemplari dell'ornitologia cilena cantati dal poeta. Si tratta di un nuovo omaggio sentimentale alla propria terra, forse ispirato dalla policromia degli uccelli dei Caraibi, cantati nella Canción de gesta, poiché il progetto del libro è remoto e il poeta ne aveva spesso parlato. Nel 1966 il libro è un fatto compiuto e dal punto di vista artistico ci offre un Neruda teso a un'interpretazione sottile delle presenze che «controvento e contromare» sono per lui un simbolo vitale347. Gli uccelli che muovono il paesaggio della patria erano apparsi frequentemente nella poesia nerudiana, in particolare l'álbatros, l'aquila, il cóndor, le colombe, i gabbiani, il cigno, la pernice, il «flamenco»; ma qui il poeta non si limita alla loro menzione, a un'allusione generica, o a farne dei simboli esterni, bensì tende a un'interpretazione che coinvolge un'ampia zona interiore, anche se il sottotitolo di ogni composizione, presentando la denominazione scientifica latina di ogni uccello, sembra voler trarre in inganno spostando l'attenzione del lettore sul piano della scienza.
Neruda si
identifica in modo trasparente con gli uccelli cantati, per una
aspirazione intima: «ciò che vola
in me si manifesta / nell'equazione errante delle loro
ali»
348.
Gli uccelli sono esaltati in quanto riflesso di questa aspirazione;
il loro insegnamento ha origini remote, viene dai territori
dell'infanzia; per Neruda essi rappresentano il riscatto dal peso
della materia, da ciò che costringe l'uomo alla terra e lo
lega alla morte:
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La tavolozza
nerudiana ritorna in queste liriche ai colori più netti,
alle gradazioni che le sono caratteristiche, lontane dalle note
accese presenti nella celebrazione degli uccelli venezolani nella
Canción de gesta.
Ciò qualifica in più ampia dimensione interiore il
testo, che si realizza artisticamente in linee geometriche
perfette, quelle sempre celebrate dal poeta come estrinsecazione
della bellezza. Ma in Arte de pájaros Neruda non si sottrae
neppure alla tentazione di riprendere se stesso, definendosi, in
«El pájaro yo», un
«uccello furioso / della tempesta
tranquilla»,
in un tono che ripete il sottile umorismo di
certe composizioni di libri precedenti, soprattutto di Estravagario, o almeno la
nota più scanzonata. Né manca un nuovo canto
all'amata, alla «Matildina Silvestre», ne
«El pájaro ella». La
celebrazione degli uccelli cileni è, comunque, per il poeta
un nuovo pretesto per confessarsi, per interpretare e manifestare
se stesso, nella lezione permanente che le cose e la vita gli hanno
dato nel corso degli anni. La chiusa del libro lo conferma:
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Anche Una casa en la
arena351,
libro soprattutto di prose poetiche, anche se non manca qualche
composizione lirica, rappresenta un clima intimo, di riflessione e
di ricordo, fissazione nel tempo di sensazioni e di episodi, di
interpretazioni animiche, tipicamente nerudiano. Il testo
può essere avvicinato, in tal senso, soprattutto alle prose
di Anillos. Ma
l'animismo del poeta non si limita a interpretare la natura in
chiave umana, bensì in tale chiave interpreta le cose che lo
circondano, particolarmente le «statue di prua», le
polene riunite a Isla Negra
e poste a dominare i suoi libri, gli oggetti che gli sono cari.
Sulla continua presenza dei ricordi dell'infanzia352,
sulla presenza dell'oceano, che domina, sottofondo possente, tutto
il clima del libro, che lo apre e lo conclude, interpretato da
Neruda nel significato di eterna vita -«Non lo legate. Non lo richiudete. Sta ancora
nascendo. Scoppia l'acqua sulla pietra e s'aprono per la prima
volta i suoi infiniti occhi. Ma si chiudono di nuovo, non per
morire, bensì per continuare a
nascere»
353.-
le «fanciulle di legno» rivivono, manifestazioni di una
spiritualità nella quale egli si riflette. Il vigore
creativo del poeta si manifesta nell'efficacia di uno stile che,
apparentemente piano, scava profondamente nell'intimo del lettore,
facendolo partecipe dei sentimenti, delle nostalgie, delle
suggestioni, dei rimpianti e della tenerezza. Come antiche
divinità, ma non senz'anima, le polene popolano le pagine de
Una casa en la
arena. Neruda le presenta per atteggiamenti suggestivi che
ne definiscono la dimensione interiore. La «Medusa II» ha ancora gli
occhi volti al nordest, il gran corpo disposto come sulla prua,
inclinato verso l'oceano; la «Sirena» rappresenta la
condensazione delle esperienze di vita e di mare; la
«María Celeste»
è sorpresa nell'improvviso pianto invernale: «misteriose lacrime scendono dai suoi occhi di
cristallo e restano sulle sue guance, senza
cadere»
354;
la «Novia»
è la più dolente, col volto screpolato dalle
intemperie e le mani consumate. Per Neruda le polene non sono
semplici oggetti, ma esseri nei quali si compendia l'esperienza
della vita; esse si comportano come creature vive, in un contatto
non più materiale col mondo. La «Cymbelina» è una
purissima «fidanzata» che il poeta spiritualizza, come
già fece per gli oggetti cantati nelle Odas: «Oh sogno della nave turbolenta, rosa di sale,
arancia chiara, ninfea»
355.
Per Neruda essa rappresenta il simbolo di una ancor non accettata
destinazione terrestre e nel suo atteggiamento si identifica con
trasporto: «È pura notte, pura
distanza, pura rosa e chiarità tranquilla, virtù
celeste. Mai si sa se volerà o navigherà
d'improvviso, senza avvertimento nella sua notte o sulla nave
impressa come una colomba nel vento»
356.
Libro di
intimità raccolta, Una casa en la arena reca anche ricordi di momenti
infelici; è il significato della prosa dal titolo
«Premio Nobel en Isla Negra
(1963)», nella quale è ricordata la
vicenda del mancato conferimento della prestigiosa distinzione al
poeta, quando tutti la davano per certa: «Mettemmo un gran catenaccio al vecchio portone
di Isla Negra e ci approvvigionammo di alimenti e di vino rosso.
Aggiunsi alcuni romanzi polizieschi a queste prospettive di
isolamento».
Quindi, passato il pericolo e udita per
radio la notizia che il premio era stato concesso ad altri, il
ritorno alla tranquillità e al contatto semplice con gli
uomini: «Matilde e io rimaniamo
tranquilli. Con solennità togliamo il gran catenaccio al
vecchio portone perché tutti continuino a entrare senza
bussare alle porte della mia casa. Come la
primavera».
La delusione evidente del poeta è nascosta sotto il tono apparentemente staccato. La prosa in questione fu scritta nei giorni immediatamente successivi all'avvenimento, più per gli amici che per confortare se stesso. Il valore come documento umano si unisce a quello artistico, per la perfetta struttura della prosa, il movimento, la bellezza delle descrizioni dell'avvicinarsi della primavera357. Queste pagine ribadiscono il clima personale sul quale si regge Una casa en la arena, del resto documentato anche dai versi di «Amor para este libro», nei quali il poeta, rivolgendosi alla donna amata, sottolinea il contrasto tra la sua potenza di essere vivente e il destino terrestre, in un panorama naturale che rimane intatto, mentre prosegue inarrestabile la vita del mondo:
La Barcarola e Fulgor y muerte de Joaquín
Murieta, editi nel 1967, rappresentano una nuova svolta
nella poesia nerudiana. Il poeta esce, infatti, dal clima raccolto
che caratterizza i due libri precedenti, soprattutto Una casa en la arena, e
senza abbandonare i motivi preferiti, anzi, tornando a ricollegarsi
al Memorial de Isla
Negra -e ai libri precedenti-, per il tema dell'amore, di
Matilde, passa a celebrare in una concezione eroica la storia
americana, si esprima essa nelle figure di Lord Cochrane, di
Artigas, o in quella di Joaquín Murieta, cui fa contrasto la
figura di Chivilcoy, ossia dell'opportunista, del furfante disposto
a ogni compromesso, del trasformista: «Se sparisco ricompaio con un altro sguardo:
è lo stesso. / Sono un eroe imperituro non ho inizio
né fine e la mia morale consiste in un piatto di pesce
fritto»
358.
Ai temi allusi si
aggiunga quello degli amici, come Rubén Azócar,
l'omaggio a Rubén Darío, il canto all'astronauta, il
ricordo delle città care al sentimento, alla storia
personale del poeta -Praga, Budapest, Parigi, Mosca, Santos,
Montevideo, Valparaíso- e di nuovo il ricordo della
«maschera marina», delle polene, e il panorama dei
motivi che muovono in questo libro il verso nerudiano è
completo. La «barcarola», ininterrotto
canto d'amore, si insinua dal prologo all'epilogo in ognuno dei
dodici episodi di cui è costituito il libro, come avveniva,
in parte, col mare in Una casa en la arena. Il motivo autobiografico
è presente di continuo, soprattutto nella «barcarola». Ha scritto
Fernando Alegría che «come in
ogni poesia autobiografica, esseri e cose funzionano come segni. A
volte i segni si autodefiniscono attraverso la ripetizione, o danno
essi stessi la loro chiave»
359.
Non solo i personaggi, ma le cose aprono spiragli verso
l'intimità nerudiana. La «barcarola» prende le mosse
da una dichiarazione d'amore a Matilde: «Amante, ti amo e mi ami e ti
amo»
360;
la reciprocità del sentimento è affermata come
stagione piena della vita; anche se Neruda ha presente il limite,
è continuamente cosciente della brevità umana
-«son corti i giorni, i mesi, la
pioggia, i treni»
-, egli riafferma la permanenza del
sentimento al disopra del tempo e il suo significato di valore
permanente: «e crescono nel mio cuore le
tue radici di frumento»
361.
I simboli ricorrenti nei Cien sonetos de amor, o almeno alcuni di essi
riferiti all'amata, si ripresentano ne La Barcarola; e si ripresenta -in metri
diversi, ottosillabi, endecasillabi, fino a versi di diciassette
sillabe, senza regolarità- il clima de Las uvas y el viento,
nell'evocazione delle contrarietà dei luoghi in cui
fiorì l'amore, di Capri, in particolare, di cui Neruda offre
un'interpretazione finissima, luminosa e vibrante di poesia,
trasformando l'isola in luogo d'origine dell'aurora362.
Matilde è ancora, come nei Cien sonetos de amor «chiara e
oscura», «bruna e dorata», «simile al grano
e al vino e al pane della patria»363.
Il poeta-amante ne riafferma la funzione vitale, l'identità
positiva e germinante con la terra, cantata fin dai Versos del Capitán:
«nella tua bocca mi hai dato l'ombra e
la musica e il fango terrestre»
364.
In forme nuove, con nuova terminologia, Neruda celebra l'oggetto
dell'amore, fa una rapida sintesi, per punti eminenti, di momenti
decisivi per la sua vita. Ai frammenti presi dall'ultimo libro del
Memorial
aggiunge, in questo inizio della «barcarola», un nuovo
frammento, che intitola «Viajeros», nel quale
ricorda la luce dell'Asia sull'amata, la steppa, i territori di
Samarkanda e di Bokhara visitati con Matilde. Il canto d'amore
è interrotto da un improvviso insorgere di preoccupazioni
per la patria, sconvolta dal terremoto, e per gli amici. Immagini
raccapriccianti e intensamente umane di morte e di distruzione
dominano «Terremoto en
Chile»: «la povera
famiglia che nasce e che soffre di nuovo il terrore e la fenditura,
/ il suolo che allontana i piedi e divide il volume dell'anima /
fino a renderla un fazzoletto, un pugno di polvere, un
gemito»
365.
Il richiamo a «Cataclismos», dei
Cantos
ceremoniales, è evidente.
Con questa struttura la «barcarola» si snoda, interrotta dai dodici episodi allusi. La felicità dell'amore, nella seconda ripresa del canto, è sostituita dal ricordo sempre vivo della Francia, in «Serenata de París», del passato remoto -la residenza in rue Huchette; Vallejo- e di un più recente, o permanente passato d'amore, che permette il riprendere della «barcarola», la quale torna alla patria e all'amata, all'affermazione di una vitalità poetica non incasellabile in schemi fissi:
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Il sottile
umorismo di Neruda fa capolino discretamente in questi versi; ma al
disopra dell'odio egli afferma la bontà intrinseca del
messaggio recato con la sua poesia ed esteso ad amici e a nemici:
«Qui reco la luce e la estendo al
cattivo compagno»
367.
In particolare Neruda afferma la natura inevitabile della sua
funzione: «Aprirà la sua cantina
la notte e io dormo coperto di stelle. E canto. / Giungerà
la mattina con la sua rosa rotonda sulla bocca. E io canto / Io
canto. Io canto. Io canto. Io canto»
368.
Il ritorno alla
patria, l'assenza, o meglio il timore dell'assenza di Matilde -che
riconduce a momenti angosciati espressi nei Cien sonetos de amor- apre la
strada al terzo episodio, «Corona del
Archipiélago para Rubén Azócar»,
al
canto, cioè, dell'amico defunto. La tristezza del ricordo
introduce la ripresa della «barcarola», con la
riflessione sugli anni e sul tempo che va erodendo progressivamente
le vite, del poeta e dell'amata: «Va il
tempo affondando forse nel mio corpo, nel tuo corpo, una rosa, / e
come un termometro l'età della rosa discende nella
terra»
369.
Benché egli affermi di rinascere continuamente: «è l'alba nel mio
sangue»
370.
Tra espressioni
d'amore e inquietudini la patria impone nuovamente la sua immagine,
la primavera insinua i colori delicati del mese di settembre, ma il
poeta insegue ricordi di morte. Si apre, così, il quarto
episodio, «Fulgor y muerte de
Joaquín Murieta», storia del leggendario
cileno, cercatore d'oro in California. Neruda risuscita il mito e
canta nel bandito Murieta il simbolo della rivolta della povera
gente contro l'ingiustizia e il sopruso: «Da questo momento il Popolo ripete come una
campana sotterrata la mia lunga cantata a
lutto»
371.
È questo uno degli episodi di maggior rilievo de La Barcarola. La poesia
nerudiana rivela accenti inediti, una molteplicità di
cadenze, attraverso il ricorso ai metri più vari, dal
sonetto al «romance», al consueto
verso lungo e maestoso che va fino a diciassette sillabe, per
suscitare un clima eroico. La semplice vicenda di Joaquín
Murieta diviene gesta epica. Il tema viene ripreso nella
trascrizione drammatica. Il bandito ucciso nel 1853 a Panoche Pass
dai Rangers è, per Neruda, un fantasma vivo che ancora
percorre la California372.
La dimensione leggendaria e mitica del personaggio, con le sue
gesta e la morte atroce, lo impongono al poeta come «protagonista di un'epoca dura»,
con
la suggestione che esercita l'eroe destinato alla sconfitta, il
«vendicatore senza
speranza»
373.
Neruda è il bardo che narra la storia, che interviene
originalmente a sollecitare l'attenzione, il consenso, lo sdegno e
il compianto dello spettatore. Le esperienze teatrali di Lorca sono
fatte proprie dal poeta, non in un'imitazione passiva: il ricorso
al coro per la «cantata» di Murieta richiama
il magistero di Lorca, che a distanza di tanti anni,
improvvisamente dà frutto nell'amico. L'opera è
intesa in un significato aperto, affidata totalmente
all'interpretazione del regista. Gli avvertimenti dell'autore sono
chiari: «Questa è un'opera
tragica, ma, anche, in parte è scritta come scherzo. Vuol
essere un melodramma, un'opera e una pantomima. Dico questo al
regista perché inventi situazioni o ogetti fortuiti,
vestiti, arredamenti. Le stelle che compaiono in una scena devono
aprirsi grandi come ruote sopra gli spettatori. I sorveglianti
(precursori del Ku-Klux-Klan) possono arrivare su cavalli di legno,
i frequentatori del cabaret possono avere baffi
giganteschi»
374.
Per il corteo funebre Neruda raccomanda molta pateticità,
«una pateticità stracciona, che
confini col grottesco»,
come ricorda di aver visto in un
atto No a Yokohama, in un teatro di periferia375.
La dichiarazione di non avere ambizioni teatrali è certo
sincera e fu confermata dall'atteggiamento schivo del poeta in
occasione della rappresentazione dell'opera a Milano, nell'aprile
del 1970: «Non ho vanità di
autore teatrale e, come si può vedere, do conto dei miei
limiti. D'altra parte, non ho mai capito nulla di quanto si
trattava in quell'opera giapponese. Spero che lo stesso accada agli
spettatori di questa tragedia»
376.
L'esperimento drammatico è rimasto unico nell'opera di
Neruda, ma la sua validità artistica è
indiscutibile.
Tornando a La Barcarola, il libro continua nell'alterno succedersi accennato e conclude con un «Solo de sal», sull'improvviso trasformarsi del giorno in tristezza. Ricorda l'Alegria che «sale» è un termine vitale per Neruda, di sofferenza e di purificazione377. Il poema rappresenta, in effetti, come la purificazione finale di questo lungo viaggio d'amore attraverso la geografia, le persone, le cose, il ricordo, il tempo, compiuto da Neruda e da Matilde. La tristezza repentina del canto scaturisce dai ricordi dell'infanzia e della giovinezza, da quelli dell'Asia, di un Vietnam diverso, visitato nel 1928, ora paragonato allo spettacolo di rovina cui l'ha ridotto la guerra. Neruda si identifica nel dolore e nella resistenza del popolo vietnamita: «sono i nostri dolori quei dolori distanti / e la resistenza dei distrutti è parte concreta della mia anima»378. Il secolo oscuro, al suo crepuscolo, che sarà tema centrale di Fin de mundo, è già presente in tutta la sua nota più tragica nell'epilogo de La Barcarola. E tuttavia essa conclude con un'ennesima apertura al futuro:
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Nel 1968 Pablo
Neruda pubblica una nuova raccolta poetica, Las manos del día, e un
libro a due mani, con Miguel Ángel Asturias, Comiendo en Hungría,
interpretazione in chiave vitalista e poetica della «tavola
felice». L'angolazione dalla quale Neruda parte è
sempre quella che lo ha portato a cantare in Estravagario l'«ora azzurra del pranzo»,
quella
«infinita dell'arrosto»,
«panetterie planetarie / tavole con
fragole alla panna, / e un piatto come la luna / dove tutti
pranziamo»
380.
La fame ancestrale del mondo americano denunciata dal poeta, i
secoli di fame maya, la gran fame dei castigliani conquistatori lo
inducono a un'attenzione costante, come egli dichiara, per la
tavola: «Queste fami camminano nel
nostro sangue e ci hanno dotati di una curiosità infinita
per quanto si mangia. Queste fami riunite ci hanno dato un appetito
divoratore»
381.
Pagine curiose e finissime -e anche qualche poesia-, sono dedicate
alla cucina ungherese, in chiave di rivendicazione del diritto dei
popoli a sfuggire al bisogno: «Con
pietra, bastone, coltello e scimitarra, con fuoco e tamburo
avanzano i popoli alla tavola. I grandi continenti denutriti
erompono in mille bandiere, in mille indipendenze. E tutto va alla
tavola: il guerriero e la guerriera. Sopra la tavola del mondo, con
tutto il mondo a tavola, voleranno le colombe. Cerchiamo nel mondo
la tavola felice. Cerchiamo la tavola dove il mondo impari a
mangiare. Dove apprenda a mangiare, a bere, a cantare! La tavola
felice»
382.
Las manos del día,
breve raccolta, ma di molto interesse, presenta un Neruda
continuamente alla ricerca di se stesso, intento costantemente a
confessarsi nella propria umanità, nelle irrinunciabili
aspirazioni. Ma il clima è sempre più autunnale, nel
senso positivo del termine, s'intende, vale a dire quale
espressione di una stagione di piena maturità nella quale si
acuiscono i problemi vitali. L'Alazraki ha osservato che in questa
raccolta Neruda accetta «con un sapore
di mea culpa»
il fatto che le sue mani non
abbiano costruito gli oggetti, ma che man mano si avanza il senso
di colpa cede alla volontà di affermazione; che per
«utile o utilitaria» che sia la poesia non può
competere con l'utilità delle cose; che «in ultima
istanza gli unici doveri del poeta sono i doveri verso se stesso e
la propria arte»383;
ossia, egli «riafferma la sua fede nella
poesia come la creazione di questo io essenziale tante volte fatto
tacere»
384.
Ma se esiste una volontà nerudiana che si manifesta nella
sua creazione artistica, è quella di essere in ogni momento
libero di esprimere se stesso, anche nei momenti in cui più
decisamente sembra piegare la sua poesia a
un'«utilità». Se egli si sente colpevole di non
aver attestato altro che «l'eroismo
delle altre mani / e la procreatrice costruzione / che dita morte
sollevarono / e che dita vive continuano»
385,
tuttavia, per la sua missione di poeta «popolare» si
sente partecipe di quanto gli altri hanno fatto; anch'essi dal suo
nulla hanno tratto qualcosa: «e loro, da
tanto nulla che trassi / dal nulla mio, / presero qualcosa e gli
servi la mia vita»
386.
Il passato,
l'assenza, l'acqua col suo significato di mistero, il sole, la
luna, la «fluviale passeggiata
dell'odio»
387,
costruiscono l'epoca «raggiante e
sporca»
in cui il poeta afferma di essere vissuto, e di
essersi abituato a nascere388.
Il suo terrore per la guerra, con la rinnovata allusione al
Vietnam389,
costituisce un'ulteriore affermazione del dovere del poeta di
denunciare il crimine e l'ingiustizia. Neruda riprende, quindi, la
sua funzione e nella denuncia della tragedia ricompaiono i toni
crudi e patetici con cui da sempre nella sua poesia contempla il
dramma dell'uomo che finisce:
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Gli stessi cupi
accenti echeggeranno in Fin de mundo, in una serie assillante di problemi
che riflettono nel poeta quelli dell'umanità, in un mondo in
cui egli vorrebbe invece raccogliere «tutto l'amore che ancora non si
sveglia»
391.
Ma Neruda continua a scandagliare in se stesso, nella sua
condizione di essere destinato alla polvere, di fronte
all'indifferenza con cui la vita continua: «pensi si, si, che se tu fossi morto / non solo
non sarebbe accaduto nulla, / ma che mai vi fu tanta festa / come
nel bel giorno del tuo funerale»
392.
Hernán Loyola ha scritto che ne Las manos del día la circostanza
centrale è costituita dall'angoscia di sentire la morte
avvicinarsi, ma senza il ritorno al clima delle Residencias, bensì con
un'obiettiva e terribile presa di coscienza393.
Di qui la materia riflessiva che domina la raccolta.
A pochi giorni dal
suo sessantacinquesimo compleanno Neruda pubblica Aún, presso il suo
primo editore, Nascimento, dedicandolo, come indica il
«colophon», «a coloro che,
in Cile e in altre nazioni, lo stimano e lo
amano»
394.
La breve raccolta, ventotto composizioni di corta estensione,
presenta punti di contatto con Las manos del día, ma soprattutto con il
clima de Una casa en
la arena e, in particolare, con quello del Memorial de Isla Negra. Neruda
non scioglie, qui, canti d'amore a Matilde, ma alla terra, alla
geografìa di un'Araucania intima, al «chiaro Ercilla»
395
che «ci scoprì a noi
stessi»
396,
ai nomi magici del sud cileno, dei quali il poeta sente
continuamente l'operante suggestione. Il clima di
«memoria» e di confessione, proprio del Memorial, è
caratteristico di Aún; il mondo dell'infanzia torna ad
agitarsi, a vivere, come in Donde nace la lluvia. Si spiega, in questo senso,
la protesta di adesione spirituale al «silenzio con radici»
397,
dal quale il poeta afferma di aver tratto la propria origine, la
selva; la terra, tante volte cantata come sostanza spirituale della
sua vita, è nuovamente interpretata dal poeta in questo
significato398,
come lo è la presenza del mare399.
Dal fondo del tempo e dei ricordi compare una figura, dimenticata
nel Memorial,
quella di José Ángel Reyes, il
«sempiterno», nonno del poeta, vissuto centodue anni,
evocato in un atteggiamento familiare, con la coppa colma di vino
che «tremava come una
farfalla»
400.
Il libro si chiude col commiato del poeta il quale rivendica il
diritto di essere se stesso: «Ti prego:
lasciami intranquillo. / Vivo con l'oceano intrattabile, e mi costa
molto il silenzio. / Muoio con ogni giorno. / Muoio con ogni giorno
in ogni onda. / Ma il giorno non muore / mai. / Non muore. / E
l'onda? / Non muore. / Grazie»
401.
Fin de mundo è
pubblicato nel medesimo anno di Aún, 1969, e afferma la propria
validità come uno dei testi più preoccupati e
profondi dell'opera di Neruda. In esso il poeta si identifica
pienamente con il destino dell'umanità. Nei suoi poemi
l'uomo appare oppresso da un crudele destino di distruzione e di
morte. Prospettive di colossali catastrofi si contrappongono alla
persistenza nel poeta di una fede ostinata nella salvezza. In un
verso Neruda ribadisce la propria funzione: «Il mio dovere è vivere, morire,
vivere»
402.
Più tardi, accennando a questo passaggio, egli ha
spiegato403
che prendendo parte alla vita dell'uomo il poeta vive e muore con
lui, ma torna a vivere in funzione dell'«uomo
infinito», indistruttibile malgrado le molte morti
individuali; dovere del poeta è, perciò, di
continuare a infondere la speranza.
In Fin de mundo Neruda presenta
l'aspetto più negativo dell'attuale realtà del mondo.
Le illusioni, sempre numerose, si perdono nella delusione, il male
insidia tenacemente i timidi germogli del bene. Il poeta osserva
con angoscia le cose, interpretando il messaggio negativo di
un'età in cui le prospettive felici naufragano
progressivamente nella tristezza. Le grandi speranze poste
dall'umanità nel futuro, alla fine del secondo conflitto
mondiale, si sono rivelate infondate; all'era di pace e di
ritrovata fratellanza tanto attesa s'è sostituita una nuova
epoca di guerre e di tradimenti. Neruda ricorda le grandi figure
della storia contemporanea, che lottarono per la liberazione dei
popoli, dal Ché ai leaders dell'indipendenza africana, uccisi a
tradimento, la spaventosa guerra del Vietnam, gli avvenimenti di
Praga, che finiscono per oscurare il significato positivo di eventi
come la rivoluzione cubana. La bomba atomica sganciata sul Giappone
è, per Neruda, all'origine della violenza che domina il
mondo. Dalla «fabbrica totale della
morte»,
dal «nucleo
scatenato»,
viene la grande minaccia per il futuro, che
porterà al suicidio dell'universo404.
Il poeta osserva con angoscia l'uomo che procrea nel tormento e
vive nella prospettiva di essere distrutto dalla bomba, divorato da
mandibole di macchine feroci, schiacciato da un carro armato. La
macchina, spietata e crudele, è il nuovo simbolo
dell'età infelice che viviamo. L'apparente efficienza del
mondo, mito ingannevole della società moderna, è
causa dell'inaridirsi delle qualità umane, motivo
d'infelicità e di morte per l'umanità.
Intimamente implicato nella vita del proprio simile, Neruda osserva con dolorosa partecipazione la fine miserabile del secolo. Ormai la natura gli si presenta come un bene perduto; l'innocenza è sottoposta al martirio; i bimbi soccombono senza colpa nella ricorrente piaga della guerra; i beni supremi si perdono definitivamente. La morte è di nuovo presenza che domina gli esseri, di fronte al fallimento dei miti in cui avevano creduto, e l'assenza di Dio, una volta ancora denunciata dal poeta; essa presiede, perciò, le prospettive umane, e gli oggetti ne attestano in modo straziante la gratuità crudele: il cappello caduto, la scarpa bruciata, il mucchio «postumo» di occhiali, l'uomo, la donna, la città divenuti cenere, denunciano la pazzia del secolo che si distrugge con le proprie armi micidiali405.
Nella tenera enumerazione degli oggetti, nell'allusione ai corpi inanimati, alle costruzioni abbattute dalla furia distruttrice, la partecipazione nerudiana al dramma che tutti ci coinvolge si manifesta nella dimensione più profonda. Per denunciare la pazzia del mondo, il poeta ricorre a simboli di lunga tradizione negativa nella sua poesia, dal cappello alle scarpe, alla cenere, ora resi patetici nell'implicazione del concetto di morte innocente. La capacità emotiva della poesia nerudiana si rivela soprattutto nella menzione degli oggetti che sopravvivono alla morte di coloro cui appartennero; è il caso della bambola dell'Asia, abbandonata dalla bimba che invano tentò di sfuggire alla morte:
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La denuncia va
continuamente dall'esterno all'interno; Neruda manifesta anche un
senso di colpa per aver continuato a vivere «quando uccidevano gli
altri»
407.
L'ostentato prosaismo del linguaggio si presenta in Fin de mundo come un tentativo
di resistere alle suggestioni liriche, per rendere con maggior
serietà il peso della tragedia, la preoccupazione del poeta
giunto a un momento cruciale della vita, nel quale si impone un
bilancio che necessariamente implica un giudizio sull'età in
cui gli è toccato di vivere. La problematica nerudiana si
aggira continuamente intorno al perché della vita e del
mondo. Il mare, simbolo in Estravagario dell'eternità e
dell'indifferenza di fronte alla vicenda dell'uomo408,
torna in Fin de
mundo a riconoscere il poeta, ma senza chiarirgli il mistero
del mondo409.
E Neruda, come per trovare un'ancora cui afferrarsi, torna a
ribadire la ragione della sua poesia:
|
La raccolta si
chiude su una data, 1970, e su una prospettiva di altri trent'anni
incerti. Neruda ha scritto: «Al
contrario di tutti i miei libri, quest'ultimo è un libro
amaro, una specie di incubo sulla crudeltà e la cattiveria
del Secolo XX. Naturalmente, come in tutte le mie opere, vi sono
fiori e uccelli e alcuni temi meno dolorosi»
411.
Al disopra dell'angoscia e del dubbio il poeta ribadisce infatti il
suo dovere di affermare l'«uomo infinito», il trionfo
della felicità, e di nuovo la permanenza del mondo.
Nel 1970 Neruda
pubblica altri due libri, La espada encendida e Las piedras del cielo. Il primo
è un originale poema della creazione, immerso nell'atmosfera
mitica e magica del sud magellanico e della fantastica
«Città dei Cesari», città «incantata sulla cordigliera delle Ande, sulla
riva di un gran lago»,
come scrive Vicuña
Cifuentes, «pavimentata d'oro e
d'argento massiccio»,
nella quale chi vi penetra «perde il ricordo della strada che ad essa lo
condusse»
412.
Neruda ricorre a questi elementi leggendari per svolgere un nuovo
capitolo della sua opera all'insegna dell'amore. Emir
Rodríguez Monegal ha notato che la «sotterranea vena profetica nerudiana»
si può vedere, più che nelle Memorias e nel Memorial de Isla Negra, in
quest'ultimo libro poetico413.
Nelle ottantasette composizioni di cui è costituito il poema
Neruda racconta la storia sentimentale della prima coppia da cui
ebbe origine il mondo americano, e in essa quella di un amore nel
quale si identifica. La storia biblica richiamata dalla citazione
iniziale della Genesi (III, 24) -«Cacciò, quindi, fuori l'uomo e pose
all'oriente del giardino dell'Eden cherubini, e una spada di fuoco
che mulinava da ogni parte per difendere l'albero della
vita»
.- si snoda nel succedersi di spaventose minacce e
di scoperte d'amore; sulla morte di un Dio i due protagonisti
finiscono per attingere la propria divinità. All'inizio del
poema, Neruda ne spiega l'argomento: «In
questa favola si racconta la storia di un fuggitivo dalle grandi
devastazioni che distrussero l'umanità. Fondatore di un
regno situato nelle spaziose solitudini magellaniche, si decide a
essere l'ultimo abitante del mondo, finché compare sul suo
territorio una donzella evasa dall'aurea città dei Cesari.
Il destino che li portò a confondersi solleva contro di essi
l'antica spada di fuoco del nuovo Eden selvaggio e solitario. Al
prodursi la collera e la morte di Dio, nella scena illuminata dal
gran vulcano, questi esseri prendono coscienza della loro stessa
divinità»
414.
Il valore
emblematico della vicenda è trasparente. Neruda canta nella
coppia che rifonda l'umanità, se stesso e Matilde; la
divinizzazione dei due protagonisti al segno dell'amore, e
nonostante le insidie, è quella stessa dei due innamorati
che hanno ritrovato la stagione felice; la predestinazione
dell'incontro tra Rhodo e Rosía è la medesima cantata
più volte da Neruda per quanto riguarda lui stesso e
l'amata. Una nota di acceso erotismo percorre tutto il poema; la
coppia finisce per amarsi senza inibizioni, con trasporto totale.
Anche per questo accento il poema conferma la costante
novità della poesia nerudiana, pur su un antico filone
erotico che viene dai primi libri, da Crepusculario, dai Veinte poemas de amor, e che continua a
serpeggiare nelle Residencias e quasi in tutto il resto dell'opera
nerudiana. Ne La
espada encendida la nota erotica si depura, però,
delle sue implicazioni corpose per l'intensità del
trasporto, in un lirismo che elimina ogni nota peccaminosa; l'amore
è ricondotto all'innocenza delle origini, anteriore al
concetto di peccato, diviene forza per resistere alla paura della
solitudine, all'ira degli dei, ai cataclismi, alla spada di fuoco
minacciosa del vulcano, dio che uccide. La coppia, vittoriosa nel
nome dell'amore, si dispone, nel canto finale, a due voci, a un
nuovo inizio dell'umanità; dice Rosía: «Da tutta la morte giungemmo all'inizio della
vita»
415.
Nelle trenta
composizioni de Las
piedras del cielo, è un diverso Neruda che ci si
presenta, anche se la luminosità della poesia de La espada encendidasembra
esaltarsi nel canto, non più solamente della semplice pietra
-di lungo significato positivo nell'opera nerudiana-, ma delle
pietre più preziose del creato. Concha Meléndez ha
definito la raccolta un libro «di
tranquilla bellezza, di quietato ardore; fiamma che non brucia e ci
solleva a una delle più belle provincie della sua residenza
sulla terra»
416.
Ma se Neruda vede riflettersi nelle pietre la bellezza del
cielo417
e di esse canta la varietà luminosa -dal quarzo al turchese,
allo smeraldo, allo zaffiro, all'agata marina, al topazio, alla
cornalina, all'ametista...-, ma anche le pietre semplici del fiume,
la pietra della roccia, il suo verso diviene presto inquieto e
richiama gli accenti de Las piedras de Chile. Per il poeta, infatti, le
pietre costituiscono una lezione di eternità negata alla
fragilità dell'uomo che «si
abbatte e disfa la sua materia, / la sua parola e la sua voce si
sbriciolano»
418.
E mentre il tempo scorre senza scalfire le pietre, esercita il suo
potere sull'essere vivente, in un rapido processo di distruzione:
«La pietra intatta ignora / il
passeggero passo del verme»
419.
Sono accenti inquietanti che richiamano ancora la lezione di
Quevedo, al quale in questo crepuscolo della vita Neruda si sente
sempre più vicino. Ma il poeta reagisce di nuovo, nel canto
finale, alla prospettiva di una morte senza destino, con una nuova
professione di permanenza:
|
Geografía infructuosa
appare nel 1972, e continua il clima pensoso de Las piedras de Chile, la nota
sempre più marcata del poeta metafisico. Il rallentamento
dell'attività nerudiana, che interrompe il ritmo consueto
delle sue pubblicazioni, si spiega con gli impegni della carica di
ambasciatore a Parigi, ma anche con l'intermittenza della malattia.
«Tra l'Ambasciata e la mia malattia
-scrive nel novembre 1971421-
non ho lavorato per nulla alle mie cose e ho due libri inconclusi
che mi attendono».
Quando appare Geografía infructuosa
-il cui primo titolo era Geografía inconclusa-, Neruda ne afferma il
valore: «credo che sia uno dei miei
libri più maturi»
422.
Nella nota apposta alla fine del volume egli spiega come si
andò formando il libro: «L'anno
1971 implicò molti mutamenti nelle mie abitudini. Per questo
e per non sembrare enigmatico senza ragione essenziale lascio
testimonianza di spostamenti, malattie, gioie e malinconie, climi e
regioni diverse che si alternano in questo libro. Qualcosa fu
scritto tra Isla Negra e Valparaíso, e su altre strade del
Cile, quasi sempre in automobile, catturando il paesaggio
successivo. Pure in automobile furono scritti molti altri poemi, in
autunno e d'inverno, sulle strade della Normandia
francese»
423.
Libro composito, quindi, tormentato e terminato senza un piano
fisso. In Francia Neruda combatteva la fatica degli impegni
politici e l'assalto del male con viaggi frequenti alla sua casa di
campagna in Normandia, acquistata dopo il Premio Nobel, alla quale
dedicava molte cure. Una condizione inquieta domina visibilmente le
pagine di Geografía infructuosa. Il cambio
dell'aggettivo, da «inconclusa» a
«infructuosa», ha un evidente significato: il primo
rappresentava, infatti, la coscienza di un itinerario
geografico-spirituale non compiuto; il secondo riflette un
incupimento di clima, la considerazione dell'inutilità del
viaggio nel tentativo di sfuggire a se stesso, infruttuoso di
fronte all'insorgere dei problemi che da sempre tormentano, senza
risposta, il poeta.
Dalla
luminosità della prima composizione, scritta a
Valparaíso, nella quale Neruda sembra identificarsi con la
luce -«Io sono un uomo luce, con tanta
rosa, / tanta gioia dissennata / che arriverò a morire di
fulgore.»
424-
il tono diviene riflessivo. Già nella seconda lirica,
«Ser», il poeta si vede, in
sostanza, nel proprio limite, «un povero
essere»,
un «orgoglio inutile,
/ un sarò vittorioso e sconfitto».
La parola
d'ordine della vita è «morte
all'identità»
; i corpi si succedono uguali;
l'ombra allatta la tomba, e l'uomo è un continuo
ripetersi425.
La mancanza di
identità è favorita dalla meccanica del mondo che
trasforma gli uomini in numeri426.
La presenza della morte, la coscienza che l'uomo è stato
posto al mondo per ripetere gesti uguali che conducono alla
sepoltura, mentre la vita rinasce continuamente, ma con un crudo
distacco tra uomo e uomo, tra chi muore e chi si presenta nuovo
sulla scena, da alla poesia nerudiana una vibrazione forse mai
conosciuta prima con la stessa intensità. Il paesaggio
natale, la presenza della legna, riconducono improvvisamente
l'aroma consueto; i fiori impongono i loro colori nell'estate della
cordigliera; il mezzogiorno è «un
orologio azzurro / estatico, rotondo»
427,
ma tra il paesaggio dell'anima e il poeta s'interpone la tristezza
della pioggia, il freddo dell'inverno428.
Il senso di un meccanico succedersi di giorni è reso
drammatico dall'incalzare degli interrogativi intorno all'enigma
della vita, al perché della morte. La coscienza quevedesca
di essere «polvere peritura» contrasta con l'apparente
immutabilità del creato, forse illusione:
|
La dolcezza del
paesaggio della Normandia -«Io vivo ora
in un paese così dolce, / come la pelle autunnale
dell'uva»
- non basta a ricondurre Neruda ad accenti
più sereni, a un clima che superi, nella gioia di un
godimento panico, l'incalzare sempre più pressante della
metafisica. Del resto egli ribadisce sempre la condizione
spirituale che dalle origini lo ha reso lo stesso sempre; non
rifiuta la malinconia, che dichiara «inseparabile dall'anima»
, le «nubi strazianti»
, i «papaveri amari»
, che non sono
«residui dell'età»
,
«ma piuttosto complemento terreno della
vita»
430.
È un dichiarare l'inevitabilità della problematica,
che mai, per quanto riguarda Neruda, ha avuto un significato di
ripiegamento, ma al contrario ha esaltato la coscienza di un dovere
verso l'uomo. Il pensiero che si possa ritenere responsabile di
questo atteggiamento l'età, muove il poeta a sottolineare la
permanenza nella sua dimensione spirituale, e tutta la sua poesia
lo dimostra. Non v'è dubbio, tuttavia, che l'avanzare degli
anni, le condizioni fisiche431,
la lontananza da una geografia che per Neruda ha sempre
rappresentato una dimensione spirituale432,
acuisce i problemi. Il ricordo diviene anch'esso tormento,
perché del passato non rimane nulla; il poeta ha
l'impressione di essere un sopravvissuto, ma ribadisce la
partecipazione alla lotta, alle speranze e alle sconfitte degli
uomini: «mi distribuii in frammenti /
che entravano ed uscivano da altre vite»
433.
La lirica finale, cui appartengono questi versi, rappresenta
un'ultima affermazione del significato della poesia nerudiana che
si qualifica al segno della fratellanza.
L'ultimo libro,
edito in vita il poeta, nel 1973 -altri libri ai quali stava
attendendo potranno forse essere conosciuti un giorno se saranno
sfuggiti alla furia distruttrice degli uomini del colpo di stato e
al saccheggio- è dedicato alla rivoluzione cilena. Neruda
torna, nella Incitación al nixonicidio y alabanza de la
Revolución chilena, a un tipo di poesia politica per
qualche aspetto vicina a quella della Canción de gesta. Nella «Spiegazione perentoria»
egli afferma
che il libro «non ha la preoccupazione
né l'ambizione della delicatezza espressiva, né
l'ermetismo nuziale»
di alcuni dei suoi «libri metafisici»
434.
E aggiunge che come un esperto meccanico conserva i suoi
«mestieri sperimentali»: «devo essere di tanto in tanto un bardo di
utilità pubblica»
435.
Perciò non si preoccupa degli esteti: «E che gli squisiti esteti, se ve ne sono
ancora, facciano un'indigestione: questi alimenti sono esplosivo e
aceto per il consumo di alcuni. E buoni forse per la salute
popolare. Non ho altra scelta: contro i nemici del mio popolo la
mia canzone è offensiva e dura come pietra
araucana»
436.
Richiamandosi ai
precedenti della più antica poesia, dei classici e dei
romantici, Neruda ricorre, quindi, al libello e inizia il suo poema
-di quarantaquattro composizioni- invocando Walt Whitman, per
averne aiuto e ispirazione contro l'uomo che fa responsabile di
quanto sta accadendo nel suo paese437.
Il poema si snoda con lentezza, tratto perde mordente, ma
riacquista vigore nella denuncia del «concubinato del danaro»
438,
delle responsabilità del «Capo
insanguinato e imbroglione»
439.
Gli accenti di España en el corazón, le sue
immagini inquietanti di morte e di vendetta, ritornano in qualche
caso nel nuovo poema, nel quale si insinuano anche note umoristiche
-come quando allude, in «Donna Casseruolina
Legañín»440
in un ritmo di favola infantile, al chiassoso episodio della
dimostrazione femminile anti-allendista ritmata dalle casseruole-;
o confessioni che richiamano volutamente il poeta preferito,
Quevedo441,
o infine sollecitazioni alla lotta e al canto. Il poema si chiude
sulla convocazione di Ercilla; la penultima composizione è
un'ottava ormai famosa dell'Araucana, in cui Ercilla celebra il Cile e la sua
gente, mai retta da alcun re, né sottomessa a straniero
dominio. Nella composizione finale Neruda inserisce efficacemente,
in un canto a due voci, i versi citati del poeta spagnolo, per
concludere:
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Non era questa la realtà che Neruda era destinato a vedere negli ultimi giorni della sua vita.
Con questo libro la poesia nerudiana ribadisce la sua funzione di «utilità pubblica». Alla luce degli avvenimenti cileni il poema acquista soprattutto un profondo interesse umano. Ma tutta la poesia di Neruda, e la sua stessa figura, alla luce di tali avvenimenti vengono esaltate, poiché ne sottolineano l'intimo tormento. Alludendo al poeta e alla sua opera, richiamando un suo verso, Aragon ha scritto:
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