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L'umorismo, arma femminista nel teatro di Sor Juana

Giuseppe Bellini


Università di Milano




Hombres necios que acusáis
a la mujer sin razón,
sin ver que sois la ocasión
de lo mismo que culpáis.
Si con ansia sin igual
solicitáis su desdén,
¿por qué queréis que obren bien
si las incitáis al mal?
[...]


(Redondilla: «Contra las injusticias de los hombres al hablar de las mujeres»)1                


«... ¿Quien no creerá, viendo tan generales aplausos, que he navegado viento en popa y mar en leche, sobre las palmas de las aclamaciones comunes? Pues Dios sabe que no ha sido muy así: porque entre las flores de esas mismas aclamaciones se han levantado y despertado tales áspides de emulaciones y persecuciones cuantas no podré contar; [...]. Cierto, señora mía, que algunas veces me pongo a considerar que el que se señala o le señala Dios, que es quien sólo lo puede hacer, es recibido como enemigo común, porque parece a algunos que usurpa los aplausos que ellos merecen, o que hace estanque de las admiraciones a que aspiraban, y así le persiguen [...]».


(Sor J. I. DE LA CRUZ, Respuesta a Sor Filotea de la Cruz)2                


Queste citazioni, versi di una nota redondilla, passi della non meno nota Respuesta che il 1.º marzo 1691 Sor Juana Ines de la Cruz -al secolo Juana de Asbaje- inviava a Sor Filotea de la Cruz, alias all'amico ed estimatore, il vescovo di Puebla de los Angeles, Fernández de Santa Cruz -improvviso quanto ingiustificato censore della suora messicana nella Carta de Sor Filotea, datata 5 novembre 1690-, immettono efficacemente nella psicologia e nel dramma della famosa «Fénix de México», quale la consacrò la fama, ripetendo significativamente il plauso già di Lope de Vega, «Fénix de los Ingenios». Ma immettono non solo nel significato di una vita combattuta, tra il senso inquietante di una possibile colpa, quella dell'ingegno, che avrebbe potuto coinvolgere la salute dell'anima, e la coscienza del diritto della donna allo studio, a recare una sua voce nell'ambito della cultura, letteraria non solo, ma scientifica e teologica3.

Il «caso» sorjuanino non è tanto determinato dalla precoce intelligenza di colei che a tre anni leggeva correttamente, a sei divorava libri, a otto componeva versi in latino e quando fu condotta nella capitale meravigliò tutti, non tanto per l'ingegno, quanto per la «memoria y noticia que tenía en edad que parecía que apenas había tenido tiempo para aprender a hablar»4 -a tredici anni, ormai alla corte vicereale, damigella della viceregina Marchesa di Mancera, sottoposta a un rigoroso esame in tutte le discipline da parte di quaranta tra eruditi e professori universitari, la giovane si difese così bene da assomigliare, secondo il Viceré, che tale prova aveva voluto, a un galeone reale che si difendesse da «pocas chalupas que le embistieran»5-, dall'improvviso suo ingresso ili convento, all'età di sedici anni -mistero ancora irrisolto, ma che da sempre ho ritenuto determinato dalla improvvisa scoperta della propria illegittimità, come del resto il testamento della madre conferma6-, quanto dall'aver osato intervenire in argomenti teologici.

Nella Carta Athenagórica (1690), infatti, Sor Juana aveva criticato il Sermón del Mandato, del noto gesuita portoghese, Padre Vieyra, in particolare là dove sosteneva che «la mayor fineza de Cristo fue que no quiso la correspondencia de su amor para sí», opponendo che la «mayor fineza» di Cristo consisteva invece nei «beneficios negativos; esto es, los beneficios que nos deja de hacer, porque sabe lo mal que los hemos de corresponder»7. Con ciò la suora veniva ad estendere, come nota Octavio Paz8, la sfera del libero arbitrio, poiché, in ultima analisi, per lei il maggior dono di Dio consisteva neh'abbandonare alla sua sorte la creatura.

L'allarme delle autorità religiose dovette essere molto, allorché si accorsero del significato dello scritto sorjuanino, che peraltro lo stesso vescovo Fernández de Santa Cruz aveva pubblicato. Di qui l'inizio di quel tentativo, che si protrasse negli anni, di far tacere voce così pericolosa. La Carta de Sor Filotea, insinuando il dubbio sulla bontà delle opere e sulla possibile dannazione eterna, ottenne lo scopo: la Respuesta fu l'ultimo e meditato scritto di Sor Juana, una sorta di testamento, ma anche un'ardita autodifesa, il primo e più alto documento «femminista» -nel senso più alto del termine- della letteratura occidentale. In esso, ¿incora una volta la monaca affermava la bontà della sua condotta, l'indomabile tensione verso il sapere, il diritto della donna di pervenirvi e di esprimersi, in piena libertà di giudizio, rispettando la libertà del giudizio altrui.

In questo senso si spiega l'atteggiamento della suora messicana nei confronti dell'uomo, dominatore della cultura, unico autorizzato alla parola. Mentre Sor Juana venera -né poteva diversamente- i saggi che la Chiesa proponeva ad esempio, i suoi stessi altolocati amici ecclesiastici, in grazia della cui protezione, e di quella dei Viceré, poté continuare a coltivare gli studi, seguendo la sua passione, finendo per fare della sua cella il maggior centro intellettuale della Messico del tempo, dai suoi scritti traspare frequentemente una fondamentale disistima per l'uomo, tanto che recenti investigatori dell'opera e della vita della suora sono giunti a parlare di complessi freudiani e persino di possibili tendenze lesbiche, da nulla documentate9.

Nella poesia ci sovviene di «Silvio», ripudiato per certe note che si intravvedono poco oneste10; nella redondilla citata Contra las injusticias de los hombres al hablar de las mujeres, gli uomini vengono detti «necios»; nella Respuesta a Sor Filotea la monaca protesta la sua totale negazione per il matrimonio: «[...] Entreme religiosa, porque aunque conocía que tenía el estado cosas (de las accesorias hablo, no de las formales), muchas, repugnantes a mi genio, con todo, para la total negación que tenía al matrimonio, era lo menos desproporcionado y lo más decente que podía elegir, en materia de seguridad que deseaba, de mi salvación. [...]»11. In realtà era lo studio la passione di Sor Juana. Perciò la scarsa importanza data agli uomini, non certo le supposte delusioni amorose in età giovanile, apparentemente attestate dalla poesia amorosa. Questa poesia non va al di là, come più volte ho sostenuto12, di un esercizio rituale, condotto con abilità e anche con note sincere,se si vuole, indotte dal tema. Ma verso l'uomo in genere Sor Juana non mostra malevolenza: ne rileva le note negative, piuttosto, non di rado con fine umorismo, o anche calcando la mano. È quanto avviene nel teatro, soprattutto in quell'opera maestra che è Los empeños de una casa. E basterebbe questa commedia a dare posto a Sor Juana tra i migliori drammaturghi del «Siglo de Oro», nonostante taluni squilibri di struttura, o qualche prolissità nei monologhi13.

Los empeños de una casa fu rappresentata il 4 ottobre 1683, a México, in casa del Contador don Fernando Deza, in occasione di un festeggiamento offerto al Vicerè Conte di Paredes, per l'ingresso solenne del nuovo Arcivescovo, don Francisco de Aguilar y Seijas. L'altra commedia, Amor et más laberinto, fu invece rappresentata a Madrid l'11 gennaio 1689, per il compleanno del Conte di Galve, già Viceré del Messico e intimo di Sor Juana14. Ma quest'ultima è opera mitologica, della quale la suora scrisse solo il primo e il terzo atto, né per le sue caratteristiche entra nel nostro tema, come del resto non entrano gli «autos sacramentales», tra i quali prezioso El Divino Narciso, per alcuni superiore ai migliori di Calderón de la Barca15.

L'interesse de Los empeños de una casa sta anche nel fatto che la «función» ci è pervenuta integra, vale a dire con tutte le parti di cui si componeva, per una durata temporale che certamente superava abbondantemente le due ore che alcuni studiosi del teatro coloniale hanno concluso essere normali per le rappresentazioni dell'epoca. Los empeños de una casa è, infatti, una commedia in tre atti, preceduta da una loa allegorica, a sua volta seguita da una letra cantata; tra il primo e il secondo atto, come tra questo e il terzo, sta un sainete, preceduto sempre da una letra cantata; a conclusione viene un sarao.

La commedia di cui trattiamo entra appieno nel clima del teatro barocco e precisamente tra quelle opere «de enredo», o «de capa y espada» di cui abbonda il teatro spagnolo, massima espressione Lope de Vega. Appunto a Lope, nel consueto esercizio di ricerca delle fonti, vi è chi fa risalire l'opera di Sor Juana, precisamente a La discreta enamorada16. È un accostamento di poco conto, come lo è il pensare a Calderón per la somiglianza del titolo, Los empeños de un acaso17.

Non v'è dubbio che Sor Juana fu lettrice di Lope e di Calderón, ma non meno lo fu di Alarcón, suo compatriota, di Cervantes e sicuramente di Lope de Rueda. Nel mondo coloniale il teatro aveva avuto presto grande favore, sin dagli inizi della colonizzazione e dell'evangelizzazione. In Messico, inoltre, il teatro indigeno non era stato senza influenza su quello importato, soprattutto per la scenografia e per l'introduzione della danza. La Chiesa aveva spesso fatto ricorso al teatro, a fini edificanti, sì, ma anche di divertimento onesto, di richiamo per una società popolare varia per componente razziale. Lo conferma la stessa Sor Juana, autrice di numerosi e agili Villancicos, composti in occasione di feste religiose e da rappresentarsi in chiesa, con intervento di tipi diversi, anche di negri, nel loro caratteristico spagnolo. Valga d'esempio il VII Villancico, III Nocturno, del juego per San Pedro Nolasco, del 1677, dove un negro portoricano rallegra la festa cantando «al son de un calabazo», ritmi che sembrano di oggi:


¡Tumba, la-lá-la; tumba, la-lé-le;
que donde ya Pilico, escrava no quede!
¡Tumba, tumba, la-lé-le; tumba, la-lá-la,
que donde ya Pilico, no quede escrava!18


Ciò che intendo dire è che Sor Juana non è da considerarsi, per la sua opera teatrale, esclusivamente un'autrice dell'età barocca. Alla fonte della sua arte drammatica stanno i grandi autori non solo del Seicento, ma del Cinquecento ispanico, come Lope de Rueda, appunto, e Cervantes. Certo, la scenografia del teatro sorjuanino non è più quella semplicissima dei Pasos mediani, che a detta di Cervantes «era una manta vieja tirada con dos cordeles de una parte a otra, que hacía lo que llaman vestuario, detrás de la cual estaban los músicos, cantando sin guitarra algún romance antiguo»19, bensì estremamente elaborata, con interni sontuosi e giardini, visibili attraverso «rejas» complici, cambi di luci tra notte e giorno, musiche e canti. Rappresentazione di una società raffinata, europeizzante, se Sor Juana pone l'azione della sua commedia nella celebre Toledo, in un ambiente che molto conserva del Rinascimento.

Ma se la parte «alta» della società, quella che è, quasi per via naturale, protagonista «autorizzata» della commedia, raffinata nel vivere e nel parlare, e che si complica la vita per questioni d'amore e di gelosia, segue il «patrón» barocco, quella «bassa», formata dai servi, segue il «patrón» del teatro cinquecentesco. In ciò assai vicina a Lope de Rueda per gli effetti caricaturali, fonte di schietto divertimento per il pubblico.

In Los empeños de una casa il teatro di Sor Juana presenta, in questo senso, una singolare bivalenza: specchio della società cortigiana, di fronte alla quale la commedia veniva rappresentata, è al tempo stesso caricatura e critica di detta società, proprio attraverso l'elemento popolare, servi, che ha per fine di svuotare il mito. Nella parte «bassa» dei protagonisti la parola è decisiva della comicità, in contrasto singolare con il linguaggio dei «signori», che per questo effetto si svuota di vigore, diviene falso, quasi irreale. E come la parola diviene essenziale il gesto. Per volontà dell'Autrice, o suo malgrado, in Los empeños de una casa si effettua una divaricazione tra i due mondi, che nell'ultimo atto trasforma addirittura la cemmedia in uno straordinario entremés, dove gli orpelli perdono il loro lucore, il sapore popolare diviene dominante, trasformando la commedia d'intrigo in riuscita caricatura.

La trama de Los empeños de una casa è intricatissima, ma non inconsueta. Al centro stanno due innamorati, don Carlo e doña Leonor, i quali sarebbero felici, se non intervenissero altri pretendenti e innamorati. Se così non fosse, del resto, la commedia sarebbe terminata prima di iniziare. Invece Leonor e Carlos sono concupiti rispettivamente da don Pedro e da doña Ana, sua sorella. A sua volta doña Ana è amata da don Juan; ma poiché ciò che già si possiede manca di importanza, e poiché l'amore «es villano / en el trato y la bajeza», e «e ofende de la fineza, la donna disprezza l'amore di don Juan e persegue quello di don Carlos, in verità più per il dispetto che sia di un'altra che per vero affetto. Capriccio femminile irresistibile, se doña Ana confessa piangendo: «conozco que estoy errando / y no me puedo enmendar». In don Pedro, che tenta di rapire Leonor, è invece caratteristica la brutalità del maschio.

In breve: don Pedro rapisce Leonor mentre sta con don Carlos che, nella difesa, ferisce un cugino della fidanzata -che l'ha riconosciuta, ma non il rapitore-, e deve porsi in salvo. «Embozado» don Pedro consegna alla sorella l'ambita preda; nella stessa casa capita poi don Carlos, chiedendo rifugio presso l'innamorata doña Ana. Nella medesima casa sta anche don Juan, che la serva Celia ha nascosto, per danaro: sospettoso di doña Ana, che si mostra ormai «distratta» con lui, don Juan vuol vedere cosa c'è sotto. Ciascun personaggio sta nello stesso palazzo all'insaputa dell'altro. Ma doña Ana, che conosce quasi tutto il segreto -meno, naturalmente la presenza del suo spasimante- tesse abilmente le fila della complicata trama. Ne vengono equivoci infiniti, fraintendimenti causati dalla vista, a distanza, e dall'udito. Infine, il risultato è che: don Juan crede doña Ana amante di don Carlos; don Carlos crede Leonor amante di don Pedro; Leonor crede don Carlos amante di doña Ana; don Pedro, da parte sua, prosegue testardo il suo disegno di conquistare Leonor, ed è gioco del servo Castañón. Sullo sfondo di tanta confusione si aggira la poco confortante figura di don Rodrigo, padre di Leonor, che di fronte al rapimento della figlia -da chi fatto resta fino all'ultimo per lui misterioso-, esige riparazione onorevole, venga da chiunque; alla fine, chiariti gli equivoci, il «buon» vecchio afferma:


Como se case Leonor
y quede mi honra sin riesgo,
lo demás importa nada;
y así, Don Carlos, me alegro
de haber ganado tal hijo.


Da qui possiamo partire nel nostro esame della commedia: versi sciatti, orrendi, quelli citati, espressioni poco «consonantes» con la categoria del personaggio, anche se povero, o meglio di non floride sostanze, sempre nobile, e per di più anziano. È questa una rottura nei confronti degli schemi correnti del teatro centrato sul tema del «pundhonor». Evidentemente Sor Juana, critico del suo tempo, intende distruggere nel personaggio il simbolo tirannico, che tanto aveva fatto infierire la società maschilista ispanica sulla donna. Sor Juana non crede più, è chiaro, nei tabù della società in cui vive e disprezza le forme tiranniche che la difesa dell'onore aveva assunto. Così il vecchio, e con lui il tema dell'onore, naufragano nel ridicolo, nello squallore del facile accomodamento, declassato anche nell'espressione.

Mentre le donne, nella commedia della suora messicana, presentano una loro dimensione, gli uomini appaiono sempre carenti. Doña Ana è un'abile burattinaia, intrigante e svelta, anche nel finale, quando, al chiarirsi la serie degli equivoci, riacchiappa prestamente il suo don Juan, cosciente che se solo tarda un momento perderà ogni vantaggio: «La mano ofrezco -dice- / y también el alma»; e l'ingenuo don Juan: «Y yo, Señora, la acepto, / porque vivo muy seguro / de pagaros con lo mesmo».

L'equilibrio del «galanteo» sembrerebbe ristabilito. Furbizia della donna, «tontería» del povero innamorato, che in sostanza non ha capito niente, è stato solo gabbato. Anche questo personaggio maschile, che passeggia la sua gelosia, con scarsa vista, per le stanze-labirinto della casa dell'amata-ingrata amante, diviene figura grottesca. La soluzione finale, in realtà, non fa che accentuare le prospettive di ulteriori dure offese all'onore di don Juan. Che forse, nelle intenzioni di Sor Juana, è anche una presa in giro del mitico «Don Juan» conquistatore irresistibile. L'autrice ricorre qui a un'abile tecnica distruttiva, che si avvale, più che di fatti concreti, di suggerite possibilità negative. E il personaggio affonda nel ridicolo.

Non meno negativo è don Pedro. Di proposito la suora lo mostra testardo amante, ciecamente focoso, per nulla delicato postulante d'amore, perciò predestinato a fiaschi colossali. Egli è, infatti, l'unico nella commedia a rimanere veramente burlato e solo; deve accontentarsi che la sorella si sposi, accettare la burla, che quasi lo ha reso muto: «Tan corrido; ¡vive el Cielo! / de lo que me ha sucedido / estoy, que ni a hablar acierto».

È la figura del «bobo», chiaramente. E Sor Juana infierisce su questa specie di innamorato, testardo e quasi bestiale. È qui dove l'umorismo sorjuanino maggiormente si dispiega, in un crescendo che esalta le radici popolari del comico. Protagonista attivo di questa «levadura» comica è il servo Castaño, che per raggiungere il padre di Leonor, al quale reca un biglietto di don Carlos chiarificatore intorno al rapimento della figlia, non trova di meglio, per uscire da una casa così frequentata di personaggi, che indossare le vesti di Leonor. Con la conseguenza di essere «galanteado» da don Pedro, il quale lo scambia per la donna appetita. Il servo -«gracioso» ne approfitta, superando la paura, per burlarsi dell'ottuso pretendente, e lo fa con linguaggio popolaresco, che immette efficacemente nel parlato della classe «bassa» del tempo, in Messico, ricorrendo a espressioni vernacole interessanti e alla menzione di personaggi che colorano di sé la vita della capitale della Nuova Spagna.

La nota umoristica va in crescendo, di pari passo con la «vestizione» di Castaño. Il quale finisce per coinvolgere, ad un certo momento, anche il pubblico spettatore, annullando così abilmente ogni divisione tra finzione e realtà:


-¿Qué parece, Señoras,
este encaje de ballena?
Ni puesta en sacristanes
pudiera estar más bien puesta.
Es cierto que soy hermosa.
¡Dios me guarde, que estoy bella!
Cualquier cosa me está bien,
porque el molde es rara pieza.
[...]
Ya estoy armado, y ¿quién duda
que en el punto que me vean
me sigan cuatro mil lindos
de aquestos que galantean
a salga lo que saliere,
y que a bulto se amartelan,
no de la belleza que es,
sino de la que ellos piensan?
Vaya, pues, de damería:
menudo el paso, derecha
la estatura, airoso el brío:
inclinada la cabeza,
un si es no es, al un lado;
la mano en el manto envuelta;
con el un ojo recluso
y con el otro de fuera;
y vamos ya, que encerrada
se malogra mi belleza.
Temor llevo de que alguno
me enamore.


È il caso proprio di don Pedro, che continua a inseguire, ottuso, il suo sogno «leonoriano». Per toglierselo di torno Castaño ricorre anche a un linguaggio volgare, che stupisce il poco sveglio innamorato, vittima del servo; il quale, nuovamente alle strette, finge di essere ricorso a tale linguaggio apposta per metterlo alla prova, e infine gli promette di cedergli.

Nei versi sopra citati, allorché Castaño si entusiasma di se stesso trasformato in donna, traspare la lettura dei Sueños di Quevedo, là dove il Desengaño scopre all'ingenuo scrittore, nell'inferno, di quali arti captatorie sono provviste le donne20. Ma nel passo di Sor Juana -ed è ricorso non nuovo nel teatro spagnolo- si dispiega una nota umoristica anche nei confronti del sesso maschile, che ha abdicato alle proprie prerogative virili per divenire qualcosa di ibrido, -almeno per la società maschilista, e soprattutto del tempo- oggetto solo di scherno: quei «lindos» che Quevedo faceva «brujuleadores» di monache e di vecchie, e dai quali gli stessi demoni affermavano «con ser tan feos» di non sentirsi per nulla sicuri21.

Interessante è notare, in Los empeños de una casa, come Castaño, quale espressione del «basso», sfugga alla demolizione che Sor Juana effettua nei riguardi degli uomini, anzi ne divenga in sua mano arma efficace. Attaccato ai bisogni fisiologici -la lunga tradizione ispanica in questo ambito ha nel Lazarillo en el Buscón due delle massime espressioni-, il servo pensa azitutto alla sopravvivenza, poi all'amore. Ma a «galantear» Celia, sua pari per condizione, si dedica, si direbbe, di mala voglia e nei suoi «ratos perdidos». Lo domina un naturale egoismo, che si manifesta nello spontaneo confronto tra la ricchezza di doña Ana e la scarsità di mezzi di Leonor, della quale, sfortunatamente, si è innamorato il padrone:


Señor, ¡qué casa tan rica
y qué dama tan bizarra!
¿No hubieras (¡pese a mis tripas
que claro es que ha de pesarles,
pues se han de quedar vacías!)
enamorado tú a aquésta
y no a aquella pobrecita
de Leonor, cuyo caudal
son cuatro bachillerías?


Che è la stessa considerazione, nella comune povertà, di fronte alla serva Celia:


Señor, el mayor pesar
con que el amor nos baldona,
es querer una fregona
y no tener qué le dar;
pues si llego a enamorar
corrido y confuso quedo,
pues conseguirlo no puedo
por la falta de caudal.


Ancora una volta sono motivi che rispondono, nella commedia sorjuanina, a un'intenzione critica verso il mondo elitario, protagonista de Los empeños de una casa -ma che in senso più ampio sembra presentarsi come l'unico protagonista della vita-, ben convinta Sor Juana che il «basso» è ciò che più conta.

La figura del «comico popolare» è qui quella rilevata dal Bachtin, ossia dell'eliminazione delle gerarchie, delle barriere sociali22. Ciò avviene, in Los empeños de una casa, in particolare per l'intervento di Castaño, il quale ha il compito, attraverso l'umorismo, il grottesco, la mascheratura, di demolire il mondo d'apparenze formali dei dominanti. Se non fosse per le donne, che resistono, «impertérritas» direbbe García Márquez, intatte nella loro raffinata femminilità, fatta d'arte e d'intrigo, ma anche d'intelligenza, come in doña Ana, o di puro sentimento, come in doña Leonor. Alla quale ultima, anzi, la suora affida elementi preziosi della sua stessa biografia, saggiamente manipolati, ma non tanto da depistare completamente il lettore, al corrente della sua esistenza:


[...]
Decirte que nací hermosa
presumo que es excusado,
pues lo atestiguan tus ojos
y lo prueban mis trabajos.
[...]
Inclinéme a los estudios
desde mis primeros años
con tan ardientes desvelos,
con tan ansiosos cuidados,
que reduje a tiempo breve
fatigas de mucho espacio.
Conmuté el tiempo, industriosa,
a lo intenso del trabajo,
de modo que en breve tiempo
era el admirable blanco
de todas las atenciones,
de tal modo, que llegaron
a venerar como infuso
lo que fue adquirido lauro.
Era de mi patria toda
el objeto venerado
de aquellas adoraciones
la dejen por la que quieren?
y como lo que decía,
fuese bueno o fuese malo,
ni el rostro lo deslucía
ni lo desairaba el garbo,
llegó la superstición
popular a empeño tanto,
que ya adoraban deidad
el ídolo que formaron.
[...]
Entre estos aplausos yo,
con la atención zozobrando
entre tanta muchedumbre,
sin hallar seguro blanco,
no acertaba a amar a alguno,
viéndome amada de tantos.
[...]


Ma al di là di queste note, di suggestione così intima per chi ha seguito l'itinerario umano e intellettuale della suora messicana, Los empeños de una casa è dimostrazione efficace di come Sor Juana conoscesse il carattere non solo della donna, che finemente interpretava, ma anche dell'uomo in quanto ha di più negativo. Proprio questo poneva in rilievo efficacemente, ricorrendo all'umorismo. Del personaggio maschile la suora sottolinea l'assoluta inaffidabilità. Nella scena III del primo atto della commedia è doña Ana, conoscitrice abile del carattere maschile, a rilevare come l'uomo non si lasci sfuggire mai l'occasione, per quanto si dica innamorato:


¿qué voluntad hay tan fina
en los hombres, que si ven
que otra ocasión los convida
la dejen por la que quieren?


Partendo da questa premessa tutto il ripudio femminile si spiega. Ma occorre ancora osservare che proprio il ricorso all'umorismo e, soprattutto nell'atto finale, l'assurgere a protagonista di Castaño, reca un colpo decisivo alla demolizione di una società che vive solo di finzione. Lo splendido mondo di belle dame e di galanti, anche se tormentati, cavalieri si sfascia, svuotandosi di ogni vigore, per lasciare il posto unicamente a una realtà che è fatta di ben altre cose che la schermaglia d'amore. Ed è significativo che sia proprio il servo Castaño a chiudere la commedia, rivolgendosi all' «empaquetado» pubblico presente in casa del «contador» Deza:


[...]
-Y aquí, altísimos Señores,
y aquí, Senado discreto,
Los Empeños de una Casa
dan fin. Perdonad sus yerros.


Che è una forma come un'altra per dire che ognuno ha avuto la parte che gli spettava23.





 
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