Selecciona una palabra y presiona la tecla d para obtener su definición.
Indice


Abajo

Las Casas, Venezia e l'America

Giuseppe Bellini





  —39→  

All'attività in difesa dell'indigeno americano Bartolomé de Las Casas, è noto, dedicò tutta la sua lunga vita. Divenne celebre, perciò, come «l'Apostolo delle Indie». La sua è una delle figure più luminose della Spagna del secolo XVI. Voce instancabile, attività indefessa e coraggiosa, di un coraggio proprio di chi è cosciente di combattere per una causa giusta, tutto dà la misura di un uomo eccezionale, mosso da uno spirito ardente di generosità verso il prossimo, impegnato in una dura campagna senza compromessi possibili con la coscienza, resa più aspra, occorre dirlo, da un carattere focoso, non certo facile. E' tuttavia certo che solo per la presenza di personaggi come questo, la Spagna riscatta le molte azioni negative dei conquistatori e degli «encomenderos» in terra d'America.

Il frate era nato a Siviglia nel 1484. Conquistatore ed «encomendero» egli stesso, presto fu come toccato all'improvviso dalla grazia. Le inumane sofferenze degli indios dell'Española -destinati a scomparire in breve, per i maltrattamenti e per i contagi di malattie alle quali il loro fisico non poteva opporre resistenza-, colpirono profondamente il Las Casas. Si è spesso ripetuto che, quale nuovo San Paolo sulla strada di Damasco, un vero fulmine fu per lui il sermone, duramente accusatorio, pronunciato dal domenicano Antonio de Montesinos la terza domenica d'Avvento del 1511 nella cattedrale di Santo Domingo, denuncia cruda delle iniquità degli spagnoli e degli «encomenderos» nei confronti degli indigeni. Il Las Casas udirà risonare a lungo dentro di sé le parole del frate. Nel capitolo V, libro III della sua Historia de las Indias, torna a farvi riferimento e, richiamata la «gracia de predicar» del domenicano, sottolinea come egli fosse «aspérrimo en reprender vicios, y sobre todo, en sus sermones y palabras muy colérico, eficacísimo, y así hacía   —40→   o se creía que hacía, en sus sermones mucho fruto»1.

Fatto in modo che a udire il sermone, che intendeva pronunciare sul tema «Enviaron los fariseos a preguntar a San Juan Bautista quién era, y respondióles: Ego vox clamantis in deserto», fossero numerosi gli «encomenderos», e vi assistesse lo stesso Diego Colón, secondo «Almirante», il Montesinos dava inizio a una terribile reprimenda. Riferisce il Las Casas che il domenicano,

«... Hecha su introducción y dicho algo de lo que tocaba a la materia del tiempo del Advento, comenzó a encarecer la esterilidad del desierto de las conciencias de los españoles desta isla y la ceguedad en que vivían; con cuanto peligro andaban de su condenación, no advirtiendo los pecados gravísimos en que con tanta insensibilidad estaban continuamente zabullidos y en ellos morían. Luego toma sobre su tema así: "Para os lo dar a cognocer me he sobido aquí, yo che soy voz de Cristo en el desierto desta isla, y por vuestro corazón y con todos vuestros sentidos, la oigáis; la cual voz os será la más nueva que nunca oísteis, la más apera y dura y más espantable y peligrosa que jamás no pensasteis oír." Esta voz encareció por buen rato con palabras muy pugnitivas y terribles, que los hacían estremecer las carnes y que les parecía que ya estaban en el divino juicio. La voz, pues, en gran manera, en universal encarecida, declaroles cuál era o qué contenía en sí aquella voz: "Esta voz, dijo él, que todos estáis en pecado mortal y en él vivís y morís, por la crueldad y tiranía que usáis con estas inocentes gentes. Decid, ¿con qué derecho y con qué justicia tenéis en tan cruel y horrible servidumbre aquestos indios? ¿Con qué autoridad habéis hecho tan detestables guerras a estas gentes que estaban en sus tierras mansas y pacíficas, donde tan infinitas dellas, con muertes y estragos nunca oídos, habéis consumido? ¿Cómo los tenéis tan opresos y fatigados, sin dalles de comer ni curallos en sus enfermedades, que de los excesivos trabajos que les dais incurren y se os mueren, y por mejor decir, los matáis, por sacar y adquirir oro cada día? ¿Y qué cuidado tenéis de quien los doctrine, y conozcan a su Dios y criador, sean baptizados, oigan misa, guarden las fiestas y domingos? ¿Estos, no son hombres? ¿No tienen ánimas racionales? ¿No sois obligados a amallos come a vosotros mismos? ¿Esto no entendéis? ¿Esto no sentís? ¿Cómo estáis en tanta profundidad de sueño tan letárgico dormidos? Tened por cierto, que en el estado que estáis no os podéis más salvar que los moros o turcos que carecen y no quieren la fe de Jesucristo.»

  —41→  

Finalmente, de tal manera se explicó la voz que antes había muy encarecido, que los dejó atónitos, a muchos como fuera de sentido, a otros más empedernidos y algunos algo compungidos, pero a ninguno, a lo que yo después entendí, convertido. [...]»2.



Non v'è dubbio, la denuncia di frate Antonio era assai dura, e tuttavia, l'osservazione finale del Las Casas incide sulla natura «empedernida» del peccatore: nessuno si convertì, che egli sapesse, benché tutti, o molti dei presenti, fossero rimasti profondamente colpiti.

Marianne Mahn-Lot richiama il fatto che, all'epoca, Las Casas era già sacerdote, ma badava più che altro ai suoi interessi finanziari3. Non pertanto, il sermone dovette rappresentare per lui un violento richiamo, se a distanza di anni lo ricorda in modo così nitido e a tinte così drammatiche. Da quel momento Bartolomé decide di disfarsi dell'«encomienda» ereditata dal padre e inizia la sua campagna in favore degli indios, insistendo per un trattamento più umano. Nell'ordine dei domenicani non entrerà che più tardi, nel 1522, quando ormai la sua attività era da tempo iniziata, intensa e ardita. In questo impegno di difesa dell'indigeno e di denuncia, il Las Casas aveva trovato il motivo del suo stesso esistere, il senso di una missione di straordinaria portata, dal punto di vista spirituale e umano, che richiedeva piena dedizione. A tale missione il frate si dedicherà, infatti, anima e corpo, incurante delle incontabili inimicizie, delle lunghe e numerose attese nelle anticamere del potere, delle molte umiliazioni e delusioni, anche da parte di uomini di chiesa, ma confortato pure da autorevoli consensi.

Egli inaugura la sua campagna sotto il regno di Ferdinando il Cattolico, ma trova un vero estimatore ed amico in seguito, nel reggente, Cardinale Cisneros. Orecchio e animo attento gli presterà quindi Carlo V, e per vario tempo il principe Filippo, finché divenuto a sua volta re, assillato da sempre nuove necessità finanziarie, bisognoso di urgenti rimesse di metallo prezioso dalle Indie, accentuerà lo sfruttamento delle colonie e per ragioni evidenti   —42→   si mostrerà distratto e sordo alle denunce e alle richieste del frate.

Durante questi lunghi anni Bartolomé de Las Casas compie numerosi viaggi, nelle Antille, in Guatemala, in Messico, nel Perù e naturalmente in Spagna. La difesa accanita dell'indigeno gli solleva contro ondate di proteste, origina odi selvaggi, che portano ad assalti alla sua persona e persino a un tentativo di eliminazione fisica. Non sono solo gli «encomenderos» a odiarlo, ma anche religiosi, talvolta di santa vita, com'è il caso del noto «defensor de los indios», fra Toríbio de Benavente, «Motolinía» -o «povero», per gli indigeni-, uno dei «Doce Apóstoles», i primi francescani giunti nella Nueva España per dare inizio all'evangelizzazione4. In data 2 gennaio 1555, infatti, il frate scrive all'imperatore Carlo V, da Tlaxcala, una durissima Carta contro il domenicano5, cosa a prima vista sorprendente, ma che pur si capisce, se si considera la diversa interpretazione data della conquista: per fra Toribio, che pure difendeva sinceramente gli indigeni -basterà ricordare la dura opposizione all'Audiencia di Messico e la successiva «cessatio a divinis» decretata dal vescovo Zumar raga per la città6-, condannata la violenza e il sopruso dei conquistatori, via per la quale giungere all'edificazione del nuovo e   —43→   «regno di Dio», nello spirito millenarista; per il Las Casas un inacettabile frutto della violenza contro il diritto delle genti, un susseguirsi di iniquità ai danni di chi aveva pieno diritto alla libertà e all'autogoverno, secondo le proprie leggi. Se per frate Toribio de Benavente, Hernán Cortés era una specie di inviato da Dio per fini santi7, per Bartolomé de Las Casas egli era invece l'instauratore di un regno di ignominia, una sorta di traditore dell'opera avviata da Cristoforo Colombo, per lui vero uomo della Provvidenza, prescelto -il nome stesso lo indicava- per far conoscere al Mondo Nuovo il vero Dio, con la scoperta, strappando quelle genti al diavolo8; perciò lo proclamava «primero inventor y descubridor y a quien Dios había elegido para ello como en infinitas cosas lo habías mostrado; [...]». Per il domenicano i conquistatori, gli «encomenderos» e gli spagnoli in genere, erano la rovina di tutto, con la loro cupidigia e la violenza; le colpe di cui si macchiavano nessuno avrebbe mai potuto perdonarle.

L'unica giustificazione della presenza ispanica nel Nuovo Mondo era per il Las Casas l'impegno evangelizzatore, ma per giungere a conversioni spontanee, libere e convinte. Perciò condannava la fretta, l'imposizione, aborriva i battesimi di massa9,   —44→   praticati invece con entusiasmo da fra Toribio, il quale si vantava di aver battezzato in una sola occasione più di 400 indios e sosteneva la legittimità della costrizione per la diffusione del Vangelo: «Los que no quisieren de grado oír el santo Evangelio de Jesucristo -scriveva-, sea por fuerza: que aquí tiene lugar aquel proverbio "más vale bueno por fuerza que malo por grado"»10.

Bartolomé de Las Casas non avrebbe mai accettato questo orientamento. Attento solo allo spirito, incurante dei fatti economici, teso unicamente alla difesa della dignità e della libertà dell'uomo, il domenicano poteva sembrare ad altri, più legati alle cose materiali, un seminatore di discordie, un creatore di disordine, se propugnava l'abolizione dell'«encomienda» -che ottenne con le «Nuevas Leyes», del 1542-, la liberazione degli schiavi e la restituzione dei beni a coloro ai quali erano stati rapinati.

Di certo fra Toribio de Benavente paventava il crollo dell'ordine nuovo, tanto faticosamente in via di consolidamento nella Colonia; pero questo il Las Casas doveva essere, per lui, soprattutto dopo la pubblicazione delle Treinta Preposiciones muy jurídicas del Confesionario, dei vari trattati in favore della libertà dell'indio, un pericoloso destabilizzatore, per di più ascoltato a corte. Perciò la sua lettera all'imperatore è tanto dura contro il domenicano, presentato come in vero distruttore delle Indie. Forse non ha torto il Crovetto quando vede nella lettera del francescano il documento di un'alleanza tra frati minori e coloni «stretta ab antiquo» e nell'occasione rafforzata dalla necessità di far fronte al nemico comune11. Più probabilmente era un'alleanza occasionale, momentanea, se tanto tuonava il Motolinía contro gli «encomenderos» e la condotta riprovevole degli spagnoli, impedimenti di non poco conto per la realizzazione dell'utopia millenarista. Il Las Casas, invece, aveva sempre davanti a sé una cruda realtà, pero il cui riscatto neppure lui rifuggiva da utopie, ma che troppo pesava, se in luogo del regno di Dio construiva quello del demonio attraverso l'opera dell'uomo. Egli vedeva drammaticamente avviato il Nuovo Mondo verso un ben triste futuro.

  —45→  

Malgrado le dure opposizioni, le accuse e le calunnie, fra Bartolomé prosegue imperterrito la sua opera. A lungo andare la sua parola finisce per inquietare le coscienze, infondendo in esse, e forse nello stesso imperatore, il timore della perdizione. Egli pone tutto in discussione, con chiarezza estrema. Della legittimità della guerra, se esista una guerra «giusta», se gli indios siano esseri provvisti o meno di anima, se sia lecito ridurli in schiavitù perché inferiori, appartenenti, cioè, a quella fascia di individui che, secondo Aristotele, erano da considerarsi «naturalmente» servi, Las Casas fa i temi portanti della sua campagna, tesa a dimostrare l'assoluta illegittimità di quanto pretendevano i fautori della conquista e della schiavitù. Nella Representación al Emperador Carlos V., 1542, scrive:

«Manifiesto es a todo el mundo, muy sagrado César, los delitos e insultos inexpiables que los españoles a Dios nuestro Señor han hecho en las Indias, e deservicios incomparables e daños a V. M., destruyendo e matando aquellas tantas y tan innumerables mansas e domésticas gentes, y despoblando tan grandes tierras, robando infinitos tesoros, que no bastaría príncipe del mundo a los recompensar, solamente por ejercitar su cruel tiranía para alcanzar el fin que han tenido por Dios, que es hartarse de oro contra todas las leyes naturales, divinas y humanas e contra la voluntad y sin sciencia de V. M. Por los cuales estragos, muertes y robos y pecados nefandísimos ninguno ignora [...] merecer los tales delincuentes e grandes pecadores perder no solamente una vida, pero muchas que tuviesen, e ser privados de muchos y grandes bienes y estados que suyos propios y heredados de legítimo patrimonio hobiesen y alcanzasen o poseyesen. [...]».12



Sono questi i motivi che porteranno alla stesura della Brevísima relación de la destrucción de las Indias, del 1552 , che tanto scalpore susciterà, per motivi diversi, in Spagna e in Europa. Sarà questo libro la base su cui si fonderà la «leyenda negra», denuncia degli orrori della conquista ispanica, della quale si faranno solerti diffusori i paesi europei che, come l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia, avevano motivi di rivalità, religiosa, politica e soprattutto economica, con la Spagna, monopolizzatrice gelosa del Nuovo Mondo13.

  —46→  

In Italia l'opera fu tradotta con grande ritardo e pubblicata solo nel 1626, a Venezia, ad opera di Francesco Bersabita, come indica il frontespizio, nome fittizio, chiarito nell'edizione del 1630, dove si scrive che l'opera è «tradotta in italiano dall'Eccell. Sig. Giacomo Castelani già sotto nome di Francesco Bersabita». E tuttavia ben prima, come sappiamo, l'avversione per la Spagna aveva preso corpo in Italia nelle pagine della Historia del Mondo Nuovo, di Girolamo Benzoni, apparsa sempre a Venezia, nel 1567, testo che, benché si rifaccia a Gómara quale fonte principale, si colloca nella scia della Brevísima del padre Las Casas14.

La Spagna reagì offesa, ed è ancora in sua difesa, accusando il Las Casas, che uno studioso del prestigio di Ramón Menéndez Pidal scrive, nel 1963, un libro accesamente antilascasiano che non torna a sua gloria, El Padre Las Casas. Su doble personalidad, sostenendo la tesi della paranoia, dell'anormalità mentale e persino della mancanza, nel frate, di spirito cristiano. Egli conclude:

«... Debemos mirar con grande y compasiva simpatía al Las Casas que se mostro el más tenaz de todos los procuradores de indios, el más exaltado apologista de ellos, el más violento acusador de abusos antiindianos; pero a la vez debemos poner, con ecuanimidad, junto a ése, al Las Casas que despreciaba la civilización occidental, el de las disparatadas concepciones históricas, el de la idea fija de que los indios eran los únicos dueños soberanos del Nuevo Mundo, el que apoyaba esa idea con incendiarias imposturas difamatorias, el que se movía fuera de toda realidad».15



Marcel Bataillon ha giustamente sottolineato che, pur tanto osteggiato accusato e denigrato, il Las Casas non era mai stato trattato prima da pazzo, quando invece fu «el enderezador de entuertos terriblemente reales y actuales», non un isolato, ma «el más célebre y el más notorio de los evangelizadores defensores de los indios, que forman una minoría activa en todas partes aborrecida por los colonos, pero que éstos deben más o menos escuchar sobre el terreno, de igual manera que les escuchan, en la Corte, los legisladores»16.

  —47→  

Per noi la Brevísima resta il documento più valido di uno spirito generoso, mosso dalla carità cristiana, non solo, ma da un alto concetto della persona umana, a qualunque razza o paese appartenga.

Nel De regia potestate, Las Casas ha affermato che «no hizo Dios a un hombre siervo, sino que a todos concedió idéntica libertad»17, e che la libertà «es un derecho inherente al hombre necesariamente y desde el principio de la naturaleza racional, y es por eso de derecho natural, como se dice en el Derecho: existe idéntica libertad para todos»18. Più oltre afferma che la libertà «jamás puede perderse por prescripción», e di fronte alle tentazioni assolutiste sostiene l'origine popolare del potere, quindi che le rendite regie e i tributi «fueron pactados entre los reyes y los pueblos desde el comienzo del régimen político. Por consiguiente, sólo por libre consentimiento del pueblo han adquirido valor jurídico. Así que ninguna limitación a la libertad es legítima sin el consentimiento popular»19. Basterebbe questo per giustificare la modernità del Las Casas.

Queste idee, difese con ardore, videro il domenicano in aperta e dura polemica, come è noto, con Ginés de Sepulveda, sostenitore della legittimità della conquista20. Il Las Casas lo sconfisse dimostrando che tutte le guerre di conquista sono «tiránicas, injustas e inicuas»21. Quanto alle «encomiendas» affermava che «Ninguna otra pestilencia pudo el diablo inventar para destruir todo aquel orbe, consumir y matar todas aquellas gentes de él y despoblar, como ha despoblado, tan grandes y tan poblados reinos»22.

  —48→  

L'avversione degli «encomenderos» aveva la sua giustificazione, s'intende, ed è spiegabile che essi cercassero di neutralizzare un nemico armato di tanta dialettica. Quando il frate accetterà la nomina a vescovo di Chiapas, nel Guatemala - dove tanto successo ebbe in «Territorio de guerra» il suo programma di pacifica evangelizzazione, tanto che il sovrano ne mutò il nome in territorio della «Vera Paz» -, e si recherà nella sua diocesi, si farà serio il pericolo per la sua vita. Gli «encomenderos», ai quali rifiutava l'assoluzione, se prima non avessero provveduto a liberare i loro schiavi, come aveva disposto l'imperatore, tenteranno di assassinarlo. Ma contro avrà anche prelati influenti, come il vescovo di Guatemala, Diego de Landa e il più volte citato «Motolinía». Amareggiato, fra Bartolomé farà ritorno in Spagna, ma per continuare la sua battaglia. I convinti delle sue idee sono sempre più numerosi; la sua è la parola non di un facinoroso, ma di un uomo santo, e fa breccia profonda nelle anime.

La Brevísima fu un testo decisivo. A un mondo fatto di genti create da Dio «las más simples, sin maldades ni dobleces, obedientísimas, fidelísimas a sus señores naturales y a los cristianos a quien sirven; más humildes, más pacientes, más pacíficas y quietas, sin rencillas ni bollicio, no rijosos, no querulosos, sin rencores, sin odios, sin desear venganzas, que hay en el mundo»23 -idealizzazione ereditata, forse, dal primo Colombo-, il Las Casas oppone, uso abile dell'antitesi, come ha sottolineato il Saint-Lu24, un universo bestiale, che crudamente denuncia nelle sue scelleratezze, partendo dalle prime commesse nell'isola Española: rapimento di donne e di figli, appropriazione di beni, violenza fisica. Certamente il frate carica le tinte, si avvale di un'accentuazione del contrasto bontà-malvagità, molto efficace. E tuttavia sappiamo bene a quale grado arrivi la crudeltà degli uomini d'arme, stranieri nelle terre che invadono. Cosi in quella che, esattamente, è stata definita «testimonio implacable de las injusticias, y más allá de su contenido acusador, angustiada protesta humanitaria e instrumento capital de la lucha por la justicia»25, si succedono   —49→   episodi terrificanti. I conquistatori sono presentati come esseri bestiali e sanguinari, ricorrendo anche a cliché che si ripetono dall'origine dei tempi, ma che non per questo sono meno veri, come le violenze su donne e bambini.

Per dare maggior efficacia alla sua denuncia, il domenicano si dichiara, in taluni casi, con insistenza, testimone diretto dei fatti:

«Una vez vide que, teniendo en las parrillas quemándose cuatro o cinco principales y señores (y aun pienso que había dos o tres pares de parrillas donde quemaban otros), y porque daban muy grandes gritos y daban pena al capitán o le impedían el sueño, mandó que los ahogasen y el alguazil, que era peor que verdugo, que los quemaba (y sé como se llamaba y aun sus parientes conocí en Sevilla), no quiso ahogallos, antes los metió con sus manos palos en las bocas para que no sonasen, y atizoles el fuego hasta que se asaron de espacio come él quería. Yo vide todas las cosas arriba dichas y muchas otras infinitas. [...]»26



Le denunce contenute nella Brevísima costituiscono solo l'inizio del grande atto di accusa che coinvolge i conquistatori di tutte le regioni dell'America, reso più autorevole anche dalle testimonianze di frati e di vescovi, che da ogni parte ormai elevavano indignate proteste al sovrano.

Gli ultimi anni, Bartolomé de Las Casas li trascorre nel prestigioso convento domenicano di San Gregorio, a Valladolid. Vi passò il periodo 1553-1560. Negli anni successivi seguì la corte, prima a Toledo, poi a Madrid, dove Filippo II aveva stabilito definitivamente la capitale: qui risiedette nel convento di Atocha, dove si spense il 15 luglio 1566.

Nel suo testamento legava al convento di San Gregorio tutti i suoi scritti e il foltissimo archivio di lettere e documenti concernenti le Indie, ora in piccola parte alla Bibliothèque Nationale di Parigi. La sua Historia General de las Indias non potrà essere pubblicata, per sua espressa volontà, prima che siano passati quarantanni dalla sua morte: in realtà ne passeranno molti di più prima che veda la luce, anche se fu frequentemente consultata, e saccheggiata, da altri cronisti.

Nell'ultimo periodo della sua vita l'attività del Las Casas fu   —50→   ancora quasi spasmodica. Venne frequentemente consultato, non tanto a livello governativo, dove la tendenza fu di metterlo in disparte, quanto come direttore di coscienze. Le sue idee intorno agli indios avevano fatto strada e ormai anche in altri territori dell'America, dal Messico alla Nueva Granada, al Perù, vescovi e frati seguivano il suo insegnamento e rifiutavano l'assoluzione agli «encomenderos» non sinceramente ravvedutisi, con la restituzione del maltolto e la liberazione degli indigeni.

Nel Perù, in particolare, la situazione era sempre più scandalosa: non solo era stato imprigionato con l'inganno, alle origini della conquista, e quindi ucciso, il legittimo sovrano, Atahualpa, non solamente erano stati spogliati dei loro beni gli indigeni, ma si profanavano ormai anche le tombe dei loro morti, per rapinare i preziosi oggetti votivi.

Nel gennaio del 1564 Bartolomé de Las Casas aveva risposto ai dodici dubbi di coscienza che gli aveva sottoposto dal Perù frate Bartolomé de la Vega, e lo aveva fatto con un Tratado di rigoroso impegno morale27, in cui sosteneva, la necessità della restituzione, l'illiceità dei tributi imposti agli indios, dei profitti ottenuti su basi giuridiche e umane tanto negative, dello sfruttamento delle miniere, beni altrui, e condannava come indegno l'atto di spogliare sepolcri e santuari, il fatto di impadronirsi, infine, di terre appartenenti ad altri. Il domenicano proclamava inoltre la necessità di riconoscere come legittimo signore ed erede dell'antico impero incaico il principe Titu, discendente da Huainacapac, al quale doveva esser lasciata piena libertà di accettare o meno la religione cattolica e di riconoscere il re di Spagna come suo protettore. Solo il perdono delle popolazioni indigene avrebbe potuto riportare la pace nelle coscienze degli usurpatori.

Il giurista Juan de Matienzos aveva cercato di confutare le ragioni del Las Casas28 che, per utopistiche che fossero, costituiscono sempre una ulteriore attestazione dell'integrità morale del frate, sempre più convinto che la Spagna, con la bolla di Alessandro VI, non aveva ottenuto la proprietà delle Indie, ma solo l'autorizzazione a diffondervi il Vangelo. Quando, poi, il sovrano si era fatto ancor più sordo alle denunce del frate, egli si era rivolto   —51→   al pontefice, Pio V, supplicandolo di intervenire con l'arma della scomunica:

«... a V. B. humildemente suplico que haga un decreto en que declare por descomulgado cualquiera que dijere que es justa la guerra que se hace a los infieles, solamente por causa de idolatría, o para que el Evangelio sea mejor predicado, especialmente a aquellos gentiles que en ningún tiempo nos han hecho ni hacen injuria. O al que dijere que los gentiles no son verdaderos señores de lo que poseen; o al que afirmare que los gentiles son incapaces del Evangelio y salud eterna, por más rudos y de tardo ingenio que sean, lo cual ciertamente no son los indios, cuya causa, con peligro mío y sumos trabajos, hasta la muerte yo he defendido, por la honra de Dios y de su Iglesia. [...]».29



La Petición al pontefice, del 1566, si configura come il testamento spirituale di Bartolomé de Las Casas: vi si rispecchiano la sua condotta, le perigliose vicende della sua vita di predicatore della giustizia e del diritto, le ansie per la dignità dell'uomo calpestata e per il futuro dell'America, ma anche la preoccupazione per la corruzione di un clero teso solo ad arricchirsi, gravissimo scandalo, «y no menos detrimento de nuestra santísima religión»30. In chiusura dell'opera Del único modo de traer a todos los pueblos a la verdadera religión fra Bartolomé aveva raccomandato ai confratelli: «Esfuércense en vivir una vida pura y santa. Sean un ejemplo en sus palabras, en su trato, en su caridad, en su fe, en su castidad, de suerte que nadie menosprecie sus personas, [...]»31. La conversione doveva venire dall'esempio, non dall'imposizione. Con molta esattezza la Mahn-Lot ha rilevato che il Las Casas puntò sempre sul valore dinamico del fermento evangelico, per instaurare cambiamenti profondi; la sua figura, nel panorama insanguinato dell'America vinta, assume, perciò, le caratteristiche del precursore, «d'un réveilleur de consciences, dont on n'a pas fini d'épuiser le message»32. Non diversamente Neruda, ponendo   —52→   il Las Casas tra i «Libertadores», ne interpreterà, con particolare sottolineatura, il ruolo: «... era tu mano adelantada / estrella zodiacal, signo del pueblo». Per concludere con trasporto:



Hoy a esta casa, Padre, entra conmigo.
Te mostraré las cartas, el tormento
de mi pueblo, del hombre perseguido.
Te mostraré los antiguos dolores.

Y para no caer, para afirmarme
sobre la tierra, continuar luchando,
deja en mi corazón el vino errante
y el implacable pan de tu dulzura.33



Ma per tornare a Venezia e all'impatto in essa, e in Italia s'intende, dell'opera del Las Casas, la tarda pubblicazione della Brevísima non fu senza significato. Se già il Benzoni fin dal 1567 seguiva, nella sua polemica antispagnola, la via denunciataria tracciata dal domenicano, pure a Venezia, presso Francesco de' Franceschi Senese, appariva nel 1621, nella traduzione di Alfonso de Ulloa, un libro non meno antiispanico, sotto l'apetto della celebrazione, le Historie del S. D. Fernando Colombo, nelle quali s'ha particolare, et vera relatìone della vita e de' fatti dell'Ammiraglio D. Christoforo Colombo, suo padre: et dello scoprimento ch'egli fece dell'Indie Occidentali, dette Mondo Nuovo, hora possedute dal Serenissmo Re Católico34. Precedenti significativi, che danno un'idea di come la Serenissima sapesse sfruttare l'occasione, priva di rischio, per un'opera demolitoria dell'odiata potenza spagnola.

In un primo momento Venezia era rimasta indifferente, almeno in apparenza, alla notizia della scoperta colombiana, ma poi la curiosità, l'attenzione, erano cresciute enormemente, favorite da una fiorente editoria di grande livello. Alla curiosità s'era unito l'impegno scientifico: se la novità delle terre del Nuovo Mondo e le vicende delle conquiste erano rimaste centri d'attrazione,   —53→   presto vi si era aggiunto l'interesse per i prodotti del suolo, la flora e la fauna, compresa quella umana, vista, questa, non di rado, sotto forme curiose, per terminare in cliché di grande dignità, nelle togate rappresentazioni del Vecellio35.

Attestano tutto ciò le numerose traduzioni delle relazioni di scoperta e delle cronache, ma anche la grande diffusione del Sommario e della Storia naturale e morale delle Indie dell'Acosta, la monumentale impresa del Ramusio nei tre volumi delle Navigationi et Viaggi, apparsi alla metà del secolo XVI. Storia editoriale ben nota, sulla quale sono intervenuti più volte autorevoli studiosi36.

Nel secolo XVII l'interesse veneziano per l'America non era certamente scemato, ma accentuava una diversa direzione, già presente peraltro nel Discorso sopra il terzo volume delle Navigationi et Viaggi nella parte del Mondo Nuovo del Ramusio37, critico nei confronti della conquista e della Spagna, che faceva responsabile della distruzione di intere popolazioni americane: più che le civiltà e i costumi, più dei prodotti e delle novità della fauna, l'attenzione si rivolgeva ora alla condizione dell'uomo, in chiave apertamente polemica antispagnola, riflesso dell'insofferenza italica verso la grande potenza, così pesantemente presente nella penisola.

A Venezia la contestazione fu dapprima prudente; lo attestano le Historie del figlio di Colombo, Fernando, attraverso le quali la Serenissima perseguiva una politica sottile, e senza rischi, di erosione dell'immagine della Spagna. Infatti, pur stampato a Venezia, il testo fernandino, che metteva in cattivissima luce il Re Cattolico, non era opera di un veneziano, ma del figlio stesso dello Scopritore, né rivolgeva le sue accuse alla maestà regnante,   —54→   bensì a un sovrano ormai remoto, che le Historie presentavano come personaggio infido, mancatore di parola, iniquamente avverso a chi gli aveva dato addirittura un mondo, perché di un mondo vero e proprio ormai si trattava, quando il libro vedeva la luce a Venezia. Ma certamente l'infamia ricadeva, di riflesso, su tutta la nazione ispanica e sul sovrano regnante. In tal modo la Repubblica veneta raggiungeva il suo scopo, senza troppo scoprirsi: lanciava il sasso, ma nascondeva astutamente la mano.

Il mistero della composizione dell'opera di Fernando Colombo è noto e nulla è valso fino ad ora a chiarirlo, nonostante i tentativi di numerosi studiosi, tra essi il Caddeo, Rumeu de Armas, Paolo Emilio Taviani e la Luzzana Caraci38. Che le Historie siano, in sostanza, un assemblaggio di parti varie di diversi autori sembra l'ipotesi più plausibile: una compilazione tardiva e anonima, sulla base di più fonti, tra le quali la Caraci39 propone esattamente anche la Historia de las Indias del padre Las Casas, oltre alle Decades di Pietro Martire, alla Historia General y Natural de las Indias dell'Oviedo e certamente l'intervento personale di Fernando Colombo, partecipe diretto delle vicende del padre nel suo quarto e sfortunatissimo viaggio.

L'Ulloa fu il traduttore, come reca il frontespizio dell'opera, ma questo curioso personaggio, attivissimo a Venezia, fors'anche spia spagnola, se lo stesso Filippo II intervenne varie volte in suo favore presso la Serenissima, fu davvero solo il traduttore, oppure anche l'assemblatore anonimo, o magari l'autore di parti del testo? In questo caso sarebbe stato un ben curioso agente, doppiogiochista, al servizio della Spagna e anche di Venezia. Ogni ipotesi può essere legittima, dato che l'originale delle Historie non ci è pervenuto e solo esiste la traduzione italiana.

Più che certo il fatto che l'anonimo compilatore del libro si rifa al Las Casas. E' sufficiente confrontare il suo atteggiamento   —55→   nei confronti di Colombo con quello del domenicano. Che è di celebrazione, di riconoscimento della genovesità e delle sue, presunte, origini nobiliari, di una nobiltà venuta a meno economicamente, non per questo meno illustre, cose che le Historie ribadiscono. Sia Fernando, o chi per lui, sia il domenicano, sottolineano con trasporto che la Provvidenza prescelse Cristoforo, fin dal nome, per la straordinaria impresa di diffondere la fede di Cristo nel Mondo Nuovo. Identico è, inoltre, l'atteggiamento avverso alla condotta di re Ferdinando, al quale, nella sua Historia, il Las Casas rimprovera di aver messo in dubbio ad arte la legittimità della scoperta colombiana. Ma si sa, talvolta i sovrani sono vittime di coloro che vogliono «hacer estruendo de los servir», mentre, «con prejuicio de muchos los desirven y a Dios ofenden, por lo cual permite que ni los reyes se lo agradezcan, y aun le hagan mal en lugar de remunerarlos;[...]»40. Tentativo debole di giustificazione, che non esime fra Bartolomé da una durissima condanna del sovrano per il suo atteggiamento contrario al Genovese:

«El Rey Católico, no sé con qué o con cuál espíritu, [...] no sólo no le mostraba obras ni señales de agradecimiento, pero en cuanto en sí era, lo desfavorecía en las obras, puesto que no le faltaban cumplimientos de palabra. Creyose que si él con buena consciencia y no con detrimento de su honra y fama pudiera, que pocas o ninguna de las cláusolas de los privilegios que al Almirante por él y por la reina, tan debida y justamente se habían concedido, le guardara.»41



Quindi polemicamente:

«No, pude atinar ni sospechar cuál fuese deste desamor y no real miramiento, para quien tantos y tan egregios y nunca otros tales a algún rey hechos servicios le hizo, la causa, si no fuese haber hecho mayor impresión en su ánimo los falsos testimonios que al Almirante se levantaron y dar más crédito a los émulos del Almirante, que siempre tuvo cabe sí, que darles debiera, de los cuales yo alcancé a sentir algo de personas muy privadas del rey, que la contradecían [...]».42



Nella sostanza è la stessa linea seguita nelle Historie, dove si accusa apertamente il Re Cattolico di essere sempre stato «alquanto   —56→   secco» nei confronti del Genovese, «e contrario a' suoi negozi»43. Fernando, o l'assemblatore, o autore anonimo che sia, denuncia la freddezza del sovrano, i motivi subdoli del suo atteggiamento:

«Il che si vide chiaro nell'accoglienza, ch'egli a lui fece: perciocché, ancor che in apparenza gli facesse buon volto, simulò il rimetterlo nel suo stato; e avea volontà di totalmente privamelo, se non glielo avesse impedito la vergogna, la qual, come abbiamo detto, ha gran forza negli animi nobili. Sua Altezza istessa, e la Serenissima Reina lo avevano mandato, quando egli partì al sopradetto viaggio. Ma, dando oggimai le cose delle Indie mostra di quel che avevano ad essere, e vedendo il Re Cattolico la molta parte che in quelle avea l'Ammiraglio in virtù di ciò che era stato capitolato con lui, tentava che a sé fosse rimasto l'assoluto dominio di quelle, e di poter provvedere a suo modo e voglia di quelli uffici, i quali all'Ammiraglio toccavano».44



Sorte davvero infelice, per un personaggio della statura di Cristoforo Colombo che, secondo il Moleto, prefatore delle Historie, se fosse vissuto in altri tempi non solo sarebbe stato onorato e «messo nel numero de gli Dei, ma ancora fatto principe di quelli»45.

A distanza di qualche decennio dall'apparizione delle Historie ha inizio la vera stagione «veneziana», o italiana, del padre Las Casas. La traduzione della Brevísima è tarda, ma per evidenti motivi politici e di sicurezza, ed è ancora una volta significativo che l'opera, con testo a fronte, appaia alle stampe in Venezia, trattandosi di un testo polemicamente ripudiato dalla Spagna e proibito. L'iniziativa viene a inserirsi nella storia della «leyenda negra» in Italia , ancora tutta da studiare, come osserva Jesus Sepúlveda46.

  —57→  

Con questa pubblicazione la Serenissima sembrerebbe mettere da parte la sua tradizionale prudenza; in realtà gioca d'astuzia come sempre. Infatti, l'aver costantemente affiancato alla traduzione italiana il testo originale in tutti gli scritti lascasiani editi a Venezia, più che un'operazione filologica si configura come astuta documentazione di innocenza: ognuno poteva constatare, in effetti, che nulla era inventato e che tutto era parola di un uomo santo, addirittura un vescovo, sensibile alle sofferenze degli uomini.

Oltre alla Brevísima, nella capitale della Serenissima Repubblica furono editi, col medesimo sistema, traduzione e testo a fronte, anche alcuni trattati, apparsi in originale a Siviglia nel 1552. Il trattato «sobre la materia de los yndios que se han hecho en ellas (le Indie) esclavos», fu edito a Venezia ancor prima della Brevísima, nel 1616, col titolo di Il Supplice schiavo indiano (ristampe: 1636 e 1657), mentre l'Octavo Remedio apparve nel 1640 come La libertà pretesa dal supplice schiavo indiano (ristampe: 1644 e 1645); il testo della controversia con il padre Ginés de Sepúlveda fu edito nella nostra lingua nel 1644 (ristampa: 1645) e intitolato Conquista dell'Indie Occidentali. Traduttore di questi trattati fu l'editore stesso, Marco Ginammi: una traduzione non priva di fraintendimenti.

Se per il contenuto denunciatario ognuno dei testi del Las Casas pubblicati in italiano è polemica denuncia della conquista spagnola e della condotta dei conquistatori nelle Indie, la Brevísima è certamente il testo più polemico e sanguigno. L'opera vide, oltre alla prima, altre due edizioni veneziane (1630 e 1643); si trattò, come avverte Jesús Sepúlveda per il testo spagnolo, della seconda edizione in tale lingua: la terza fu quella barcellonese del 164647.

L'edizione veneziana ci interessa, qui, in particolare per i

prologhi. Quelli preposti alle altre opere sono brevi dediche celebrative e propiziatorie, secondo lo stile dell'epoca. La Istoria o brevissima relatione reca una prima, lunga dissertazione sul tema dell'amicizia, dove si celebrano le relazioni esemplari tra Nicolò Barbarigo e Marco Trevisano, tema che conclude con un sonetto; ma presenta anche un interessante discorso ai lettori sull'«utilità»   —58→   esemplare di «questa storia». Anche nella parte finale del discorso sull'amicizia, del resto, il traduttore era giunto a coinvolgere il Mondo Nuovo, per il quale proprio il senso dell'amicizia avrebbe dovuto rimediare alle distruzioni e alle discordie, a maggior gloria di Dio e conservazione di quelle genti48. È tuttavia nel discorso sulT «utilità di questa storia» dove il richiamo alle responsabilità della Spagna, non solo, ma della Chiesa, si fa più duro. Il tono è addirittura apocalittico: «Questa è la più tragica, e la più horribile Istoria, che da occhi humani, nella grande scena del Mondo, fosse veduta giamai», scrive il traduttore, e prosegue richiamando i pontefici alle loro gravissime responsabilità:

«Vedranno i Sommi Pontefici, come, sotto il pretesto delle giuste concessioni, da' loro predecessori fatte alli rè di Castiglia, acciocché procurassero la conversione de gli Indiani alla fede di Christo, per riempire le sedie vacanti del Cielo, siano state precipitate migliaia, e milioni d'anime nel baratro dell'Inferno.

Impareranno coloro, che persuadono i Principi à volere, con gli esserciti, e con l'armi, tirar per forza i popoli alla religione Christiana, quanto sia perniciosa questa loro dottrina. Et che non i soldati, ma i predicatori devono essere destinati, per chiamare gli uomini alla fede».49



Il Bersabita, ossia il Cav. Giacomo Castellani, è in perfetta sintonia con il Las Casas. Quanto ai sovrani spagnoli, il richiamo non è meno severo:

«Conosceranno i Cattolici Rè di Spagna, in che modo sia stato acquistato alla corona loro quello, che vien chiamato il Mondo nuovo. E quanto ingiusta, e crudelmente fossero distrutti i Principi, & i popoli naturali di quel paese; cose, che da moderni Scrittori, ò vengono in gran parte taciute, ò molto diverse dal vero sono raccontate. Comprenderanno ancora facilmente questo secreto, e non creduto misterio, che le ricchezze dell'Indie sono state quelle, che, per giusto giuditio di Dio, hanno impoverita, e sempre più vanno impoverendo la Spagna: onde da quel tempo in qua la corona reale ha contratto tanti debiti, che avanzano forse, quel gran numero di milioni, che in tanti anni ha ricevuto dalle flotte; e quello, ch'annualmente hora ne riceve, è speso sempre mai molto tempo prima, che giunga».50



  —59→  

Non era il solo, il Castellani, a vedere i disastrosi effetti di tanta ricchezza quanta era venuta alla Spagna dal Nuovo Mondo. Già Cieza de León aveva denunciato come la cupidigia fosse foriera di grandi disgrazie e come l'oro e l'argento delle Indie stesse rovinando la Spagna51. Il pensiero del veneziano va, naturalmente, anche all'Italia, pur se non la menziona, e alla nostra gente: leggendo la storia di tante iniquità commesse in America, i soggetti al potere spagnolo potranno consolarsi, scrive, pensando che «al sicuro non saranno mai così mal trattati»52. Poi, con un'altra punta polemica aggiunge che riconosceranno i sudditi di ogni altro principe quale grazia Dio ha fatto loro «à non gli sottoporre à quelle genti, che si sono rese più celebri per la distruttione, che per la conquista dell'Indie»53.

La posizione del traduttore della Brevísima non poteva essere più chiara, né più trasparente il proposito della sua impresa. Una volta ancora Venezia, attraverso le iniziative dei suoi editori e uomini di cultura, certamente favorite, compiva opera demolitrice nei confronti della sua eterna nemica, la Spagna, dando voce con la diffusione dei testi lascasiani all'insofferenza degli italiani per il dominio straniero. L'opera del Las Casas diveniva un'arma efficace e l'America un valido pretesto per il raggiungimento di questi fini.

La «leyenda negra» si arricchiva così, con spiegabile ritardo, di un'area geografica nuova.





 
Indice