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Prime migrazioni culturali nell' America della colonia

Giuseppe Bellini





Se il 12 ottobre 1492 rappresenta un momento di straordinario significato per l'avvenire della lingua spagnola e del suo sviluppo letterario in America, tale data segna anche l'inizio di una proficua «migrazione» della cultura italiana nel Nuovo Mondo.

Come sempre avviene, i vincitori, o invasori che siano, impongono le proprie forme culturali nei territori di cui si impadroniscono, e solo in momenti successivi pongono attenzione alle culture locali. Ciò avverrà anche in America, dove il primo impegno viene assolto dai religiosi, sin dalle prime fondazioni nelle Antille.

Presto nei conventi si istituirono scuole, non solo di arti e mestieri, ma di studi superiori, che in alcuni casi diedero luogo a corsi universitari, permanenti o meno, e addirittura ad Università vere e proprie. Nel 1538 il Collegio dei domenicani di Santo Domingo diveniva, infatti, Università Pontificia di Santo Tomás de Aquino. Era la prima d'America, anche se ancor oggi ne contestano il primato le Università di San Marcos, di Lima, e l'Università di Mexico, fondandosi sul fatto che l'Università dominicana ricevette la Real Cédula solo il 23 febbraio 1558, mentre quella messicana l'aveva avuta l'11 settembre 1551, e prima ancora quella di Lima, il 12 maggio del medesimo anno1. Tuttavia nessuna di queste illustri Università riuscì mai a togliere alla citata Università di Santo Domingo il diritto di fregiarsi del titolo di «Atena del Nuevo Mundo», anche se per un certo periodo la Corona, accedendo alle proteste delle altre due Università, glielo proibì.

Il Messico avrebbe avuto presto centri culturali religiosi di grande prestigo, come il Colegio Imperial de Santa Cruz, di Tlatelolco, fondato nel 1536 dal primo vescovo della capitale, frate Juan de Zumárraga, cui doveva seguire anni dopo il Gran Colegio de San Pablo, creato da frate Antonio de la Vera Cruz; istituti religiosi che vennero man mano dotati dai fondatori di imponenti biblioteche. Il solo Juan de Palafoz y Mendoza, vescovo e viceré, avrebbe provvisto, nel 1646, il Seminario di Puebla de los Ángeles, di oltre dodicimila volumi, appartenenti alle discipline più diverse.

All'impegno culturale, non solo alle necessità pratiche, si dovette anche l'introduzione a México e a Lima della stampa, che inaugurarono due italiani. Nel 1535 o forse 15392, Giovanni Paoli, noto come Juan Pablos, nativo di Brescia, apriva, infatti, la prima stamperia nella capitale della Nueva España, al servizio del citato vescovo Juan de Zumárraga e, morto questi, continuava nell'arte, aprendo, nel 1548, una stamperia propria3. Nel 1577, sempre a México, inaugurava un'altra stamperia Antonio Riccardi, o Ricardo come si firmava, di Torino, per poi trasferirsi a Lima, dove apriva, nel 1582, o 15844, la prima stamperia nel vicereame del Perù5. Entrambi i personaggi, particolare toccante, non dimenticheranno mai la terra d'origine e la rivendicheranno di frequente nel «pie de imprenta» dei loro libri, specificando il Paoli di essere «de Bressa» o «brixiensis»6, il Riccardi «de Turín».

Nell'ambito della creazione artistica l'italianismo, di cui a partire dal Quattrocento era profondamente permeata la cultura spagnola, entra nei cenacoli più rilevanti della nuova cultura americana. Durante i suoi soggiorni nella capitale messicana il poeta Gutierre de Cetina -che a México sarà assassinato, nel 1557- diffonde l'italianismo nella nascente poesia novo-ispana. Italianista fu Pedro Trejo, che diede apporti originali nell'ambito delle innovazioni metriche. Di italianismo, filtrato attraverso la poesia di Garcilaso e di fra Luis de León, è ugualmente imbevuta l'opera poetica di Hernán González de Eslava, come attestano le Obras a lo humano.

Petrarchista ispirato fu Francisco de Terrazas, che Cervantes celebrò per la sua fama in America e in Spagna. Il Petrarca giunge a Terrazas attraverso Herrera e Camões, dando luogo a una poesia di straordinaria semplicità e finezza: ne sono esempio le liriche «de las flores». Vari sonetti e i frammenti pervenutici del poema Nuevo Mundo y Conquista, primo del ciclo cortesiano, dove l'uso dell'ottava rivela diretta adesione ai modelli italiani. Pure è da ricordare per la Nueva España l'erasmista Lázaro Bejarano, originario spagnolo, amico di Cetina e ammiratore della sua poesia, diffusore dei nuovi metri in contrapposizione ai tradizionali castigliani. Poeti tutti riuniti, insieme a vari spagnoli, nell'anonima raccolta del 1577, Flores de varia poesía7.

Nel Perù la diffusione del petrarchismo si deve soprattutto all'opera traduttoria del portoghese Erique Garcés8 e di un grupo di scrittori entusiasti, che si riunivano nella «Academia Antártica» di Lima9. Il Garcés stamperà a Madrid, nel 1591, i Sonetos y canciones de Francisco Petrarca, tradotti dall'originale10, ma già verso il 1570, giunto in Perù, aveva iniziato a diffondere la poesia dell'italiano tra i membri della citata Accademia, tra i quali figuravano Diego Dávalos y Figueroa, Antonio Falcón e Pedro de Oña, autore poi del poema El Arauco domado. Cervantes, sempre generoso, non mancò di celebrare il poeta-traduttore: lo fece nel Canto a Calíope, affermando che «con dulce rima» aveva arricchito, «el Piruano reino» per mezzo delle sue versioni, con le quali difficilmente lo stesso Petrarca avrebbe potuto competere. Iperbolico giudizio, anche se sono stati riconosciuti all'opera del Garcés «altos valores estéticos e interpretativos»11.

In realtà nelle traduzioni del portoghese non è possibile nascondere la frequente pesantezza, qualche incomprensione del testo, l'incapacità di rendere la finezza malinconica del Petrarca, come si può cogliere, ad esempio, nella versione del sonetto «Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti...», così reso:



Con tardos pasos, solo voy midiendo
pensativo los campos más desiertos,
y los ojos contino llevo abiertos
por de humanos encuentros yr huyendo.

Que otro medio no veo, ni aun entiendo
como pueda escapar de indicios ciertos,
porqu'en mis actos de alegría muertos
se lee, fuera, que voy dentro ardiendo.

De tal modo que pienso, antes lo digo,
que no hay parte en el mundo que no tenga
de mi triste vivir noticia cierta.

Y ora poblada sea, ora desierta,
ninguna entiendo que hay donde no venga
de mis cosas tratando Amor conmigo.



Traduzione preziosa, se non avessimo davanti l'originale, in realtà quanto lontana dalla finezza e dalla trasparenza del testo del Petrarca. Indubbiamente efficaci sono i primi tre versi della quartina iniziale, ma già il quarto segna un notevole scadimento, quando il petrarchesco «vestigio human» si riduce a banali «humanos encuentros»; nella seconda quartina troppo generici appaiono gli «indicios ciertos», e infine le due terzine con le quali conclude il sonetto documentano nel traduttore l'incapacità di raggiungere il fine clima malinconico del tormento d'amore espresso dal Petrarca.

Risultati migliori il Garcés ottiene nella traduzione della Canzone «Di pensier in pensier, di monte in monte...», dove quasi sempre, quando il traduttore si tiene fedele al testo, si conserva la finezza dell'originale, mentre decade quando non lo intende pienamente. Interessante è anche la parafrasi della «Canzone all'Italia» nella «Canción al Perú» -ricca di riferimenti economico-finanziari alla situazione del paese-, per passi di felice interpretazione che si giovano della tradizione poetica iberica, dalle danze della morte alle Coplas di Jorge Manrique, accentuando la nota originale oltre l'adesione al Petrarca:


Mirad que el tiempo vuela y que la vida
tan corta es como incierta,
y que del paso horrendo nadie escapa,
y que es bien que nuestra alma ande despierta
y pronta a la partida,
que no cata a señor, ni a Rey, ni a Papa,
ni al que no tiene capa:
pues para poder ir más descansados
y no perder la vida tan serena
(que el peso da gran pena)
será muy conveniente ir aliviados
de todos los cuidados que nos presenta el suelo,
y en obras buenas todo se convierta:
que no se gana el cielo
si desde acá no va la senda abierta.
[...]



Nell'Accademia Antartica il culto per il Petrarca si univa a quello di altri poeti italiani, da Dante all'Ariosto, al Tasso, al Castiglione, al Bembo, Diego Dávalos y Figueroa, fondatore del cenacolo, tradusse oltre al Petrarca, le Lacrime di San Pietro, del Tansillo12, i sonetti amorosi di Vittoria Colonna e scrisse i quarantaquattro «Coloquios» della Miscelánea Austral, edita a Lima nel 1602 da Antonio Ricardo. In quest'opera troviamo, accanto al Petrarca, Dante, il Bembo, il Ficino, il Della Casa, l'Alamanni, l'Ariosto, il Castiglione; quest'ultimo è anche presente in un altro poemetto del Dávalos, Defensa de Damas, in sei canti, edito sempre a Lima nel 1603.

Antonio Falcón, direttore dell'Accademia Antartica, era già stato celebrato quale imitatore di Dante e del Tasso nel 1602 dall'autore anonimo del Discurso en loor de la poesía, che Diego Mexía de Fernangil incluse nel Parnaso Antártico (1608)13. Lima fu in quell'epoca centro entusiasta d'italianismo: frequentarono l'Accademia anche eruditi italiani, come Alessandro Geraldino, il gesuita Ludovico Bertonio, iniziatore degli studi sulle lingue aimara e quechua. Neppure è da trascurare, nell'ambito delle arti, la fiorente scuola meticcia di pittura, alla quale diedero vita due artisti italiani, il romano Matteo D'Alessio e il napoletano Angelino Medoro.

Di notevole favore nell'ambito poetico peruviano godette Dante. Lo documenta efficacemente il citato Parnaso Antártico, la cui seconda parte, dedicata al vicerè, principe di Esquilache, apparve nel 1617. È sufficiente ricordare la visione paradisiaca della Vergine nella «Epístola a la Serenísima Reina de los Ángeles Santa María», in terzine di endecasillabi, dove il sommo poeta appare filtrato attraverso una sensibilità già prebarocca, che dà rilievo all'immagine e altisonanza al verso. Bene lo si coglie, ad esempio, nel passo, solenne e musicale, in cui è presentata l'assunzione al cielo di Maria:



Ya entonces por los reinos de la altura
empírea resonaban los pregones,
llamando a toda angélica criatura.

Vinieron los que huellan los Tritones
y los que ven el reino de la Aurora,
y miran las Antárticas regiones.

Y en la visión beatífica a la hora
ven que les manda el Padre omnipotente
salgan a recibir su Emperadora.

Cristo también de peplo refulgente,
como esplendor del Padre, está vestido
para acto tan solemne y eminente.

Y estando todo a punto y prevenido,
bajan acompañando al alma bella
do está su cuerpo virginal dormido.



La penetrazione della poesia italiana nella nascente poesia coloniale del secolo XVI è ampiamente documentata nel citato Discurso en loor de la poesía. La Miscelánea Austral e il Parnaso Antártico, benché editi agli inizi del secolo XVII, recano, in realtà il frutto dell'italianismo del secolo precedente: un italianismo destinato ad affermarsi ulteriormente nel Seicento nella poesia epica, attraverso l'influsso dell'Ariosto e del Tasso.

I poemi cavallereschi italiani, prima l'Orlando furioso, poi la Gerusalemme liberata, ricoprono, infatti, un ruolo fondamentale nello sviluppo della poesia epica della Colonia. L'influenza del Furioso è introdotta in America dall'autore de La Araucana, Alonso de Ercilla y Zúñiga (1534-1594), il quale avrà un diretto discepolo nel «cileno» Pedro de Oña. Benché spagnolo, l'Ercilla a buon diritto deve essere considerato nella letteratura ispano-americana. Il Menéndez y Pelayo già lo affermava, ritenendo La Araucana opera sí di un ingegno ispanico, ma cosí legato al territorio e alla gente che nell'Araucania «venció, admiró y compadeció a un tiempo», che sarebbe stata «grave omisión dejar de saludar de paso la noble figura», tanto più che il suo poema «sirvió de tipo» a tutti quelli di materia storica composti in America o su di essa nell'epoca coloniale14.

L'influenza di fondo dell'Ariosto nel poema di Ercilla è più che nota; si tratta di una lezione profondamente assimilata, anche se la natura dell'Araucana è del tutto diversa, poiché non di un poema cavalleresco si tratta, ma di un poema storico, nel quale viene escluso il fantastico15. Il Menéndez y Pelayo affermava che Ercilla non aveva potuto assumere dal poeta italiano nulla di essenziale, poiché fin dal proemio egli si oppone programmaticamente alla materia epica dell'Ariosto16. Con Maxime Chevalier è più esatto interpretare l'affermazione iniziale dell' Araucana, dove Ercilla contrappone l'«iracundo Marte» alle «donne, i cavalier, l'arme, gli amori / le cortesie, l'audaci imprese...», tema del Furioso, non come vera opposizione, ma come topico per definire la propria opera di fronte a quello che considerava il grande poema epico moderno17. E quanto al fantastico la realtà dava modo al poeta di non escluderlo.

Non insisterò sull'Ercilla e il suo poema. Numerosi punti di contatto tra l'Araucana e l'Orlando furioso sono stati individuati da tempo dalla critica, dal Menéndez y Pelayo18 al Ducamin19, al Chevalier20, dal Bertini21 al Macrí22, al Meo Zilio23. Quanto al problema se il poeta spagnolo fosse uomo colto oppure di scarse letture, è stato assodato che vaste erano le sue conoscenze letterarie24 e che oltre alla Bibbia e all'Eneide, conosceva l'Inferno di Dante -tradotto in spagnolo nel 1515 da Pedro Fernández de Villegas-, il De Genealogiae Deorum e il Labirinto d'Amore del Boccaccio, il Trionfo della castità del Petrarca, l'Arcadia del Sannazaro -nota in Spagna dal 1547-, e, come afferma Toribio Medina25, riteneva a memoria l'Orlando furioso, diffuso peraltro nella penisola iberica dalla versione dell'Urrea, del 1549.

In Spagna e nella sua proiezione americana la poesia epica seguì, quindi, l'Ariosto e più tardi il Tasso, a seconda che si cercasse, come osserva il Macrí26, il gioco puro e misurato della fantasia, l'umanità e l'avventura che essa simbolizza, oppure la fusione di storicità e ideale poetico nel poema eroico. Quanto a La Araucana, l'Ariosto penetra dovunque nel poema, dando luogo a un tono generale ariostesco che non sminuisce l'originalità dell'Ercilla. Nella sua grandiosa cronaca poetica i personaggi vivono non quali copie o riflesso dei personaggi del Furioso, ma di vita propria, circondati da un alone di eroismo. Per questo ne sentiva l'attrazione l'Inca Garcilaso, il quale si lamentava piuttosto che le vicende araucane non fossero state descritte in prosa, «porque fuera historia y no poesía, y se les diera más crédito»27.

Orme minori, benché sempre rilevanti, dell'epica italiana, e naturalmente dell' Araucana, ritroviamo nelle Elegías de Varones Ilustres de Indias (1589), di Juan de Castellano (1522-1607), e nell'Arauco domado (1596), di Pedro de Oña (1570-1643). Le Elegías attestano il favore di cui godette presso il suo autore, e nell'ambito intellettuale gesuitico di Tunja, l'endecasillabo italiano. In difesa dell'eccellenza di questo verso il sacerdote entrò in garbata polemica con l'amico Gonzalo Jiménez de Quesada, autore dell'Antijovio, e con un non meglio idetificato capitano Lorenzo Martín.

Il Castellanos lesse sicuramente l'Orlando furioso e con ogni probabilità fu contagiato positivamente dall'influenza italianista della limegna «Academia Antártica», come prospetta il Meo Zilio28, il quale rileva echi dell'Ariosto nelle Elegías in episodi concreti, mentre per un certo filone sotterraneo di struttura tassesca ante litteram29 -prima cioè che il Castellanos conoscesse la Gerusalemme liberata-, realizzava già il programmismo moralista del Tasso30.

Va sottolineato che nelle Elegías l'influenza del Furioso si trasmette attraverso La Araucana. Il vero maestro di Juan de Castellanos fu, infatti, Ercilla. Nelle Elegías sono percepibili presenze ariostesche più che altro nel tono ironico, in una certa sensualità che vivacizza la descrizione della donna, come si coglie nel secondo canto della «Elegía» seconda, allorché il poeta presenta una splendida fanciulla che s'innamora del cacique Goaga Canari, definita esattamente dal Meo Zilio «coqueta, cordial, ariostescamente femenina»31. Altre volte l'orma dell'Ariosto si unisce a quella dei poeti spagnoli, come documenta l'invito, nella citata «Elegía», agli uccelli affinché innalzino il loro canto; qui la bellezza ariostesca del luogo boscoso e fiorito è dominata dalla situazione dolente del protagonista, che in qualche modo richiama anche la malinconia di Garcilaso:


¡Oh aves, que con lenguas esparcidas
soleis regocijar las alboradas,
en estas selvas frescas y floridas
por los umbrosos ramos derramadas!
Cantad, que mis pasiones recibidas
con gran ventajas son recompensadas;
pues veis que sobrepujan los favores
las más crueles penas y dolores.



Neppure mancano nelle Elegías de Varones Ilustres de Indias presenze dell'Inferno dantesco; valga la figura di Anacaona, «la libidinosa», molto vicina alla Cleopatra «lussuriosa» di Dante. Ma l'immenso poema -chilometriche definì il Menéndez y Pelayo le Elegías-, nonostante gli apporti di critici coraggiosi32, rimane una selva ancora non sufficientemente esplorata e certamente ricca.

Nel poema di Pedro de Oña, El Arauco domado, che stampa a Lima nel 1596 «Antonio Ricardo de Turín primero Impresor de estos Reinos», l'orma dell'Ariosto è ben presente, e a maggior ragione data la contiguità dell'argomento, attraverso l'Araucana di Ercilla. Con questo poeta nasce, come ha scritto Fernando Alegría33, la poesia cilena. Il Sánchez afferma che le formule magiche del poema sono presiedute, come negli altri scrittori del vicereame del Perù e della Spagna, da Virgilio, dall'Ariosto e dal Tasso, benché la nota sia accentuatamente originale, in particolare dal punto di vista linguistico, ma anche per la notevole sensibilità che lo distingue verso l'ambiente34. Lo stesso Menéndez y Pelayo, benché stimasse superiore la Grandeza mexicana di Bernardo de Balbuena, quale inizio della poesia americana propriamente detta, riconosceva l'Arauco assai degno di considerazione35, anche se lo giudicava opera dovuta all'improvvisazione di uno studente e realizzata in fretta, in quanto lavoro su commissione36. Giudizi certamente affrettati e non condivisibili.

In apertura del poema Pedro de Oña rende omaggio all'eccellenza dell'Araucana, con la quale dichiara l'impossibilità di competere. Il Menéndez y Pelayo ne deduce che il giovane poeta non ambisce gareggiare con il maestro37, ma è certamente una dichiarazione di falsa modestia. I tratti realistici e comici, l'inclinazione per scene voluttuose, come quella raffinatamente erotica del bagno di Resia e di Caupolicán, documento per il critico spagnolo dell'influenza «muelle y enervadora» del clima limegno38, rivelano, al contrario, la lezione vivificante dell'epica italiana, dell'Orlando furioso, ma anche della Gerusalemme liberata, in quanto di più raffinatamente sensuale e vitale questi poemi presentano. Personaggi vivi, anche se per nulla identificabili con i nativi; un paesaggio che richiama con frequenza le vallette incantate del Furioso, acque cristalline che rivelano il modello rinascimentale italiano. Critico, il Menéndez y Pelayo denuncia i «bosquecillos cortados a tijera», le «reminiscencias» dei giardini di Armida e delle rive del Tago descritte da Garcilaso, ripudia la presenza di una vegetazione «absurda y convencional», tutt'al più propria del Mezzogiorno d'Italia o di Spagna, «y que nunca pudieron contemplar los ojos de Pedro de Oña en las florestas de su nativo Chile»39.

Tutto vero, ma proprio in questo sta l'italianismo del poeta e da esso provengono la grazia e l'incanto del poema: benché El Arauco domado quasi nulla, o ben poco, ci offra del mondo araucano autentico, i personaggi e il paesaggio sono tra i più raffinati che l'epica americana abbia dato, ricreazione originale di un mondo al quale la lettura assidua, diretta o mediata, dell'epica italiana aveva conquistato il giovane Pedro. A questo poema si rifarà anche, nel secolo XX, un altro cantore delle acque cilene, Pablo Neruda.

Salvador Dinamarca ha sottolineato la libertà con cui l'Oña seleziona il materiale di riferimento, per renderlo con piena originalità40, e pure è stato rilevato l'insinuarsi nel poema della presenza moralistica tassesca, destinata poi a dominare nell'Ignacio de Cantabria e nel Vasauro, poemi che segnano il tramonto dell'influenza ariostesca e l'avvento del Tasso e del Sannazaro, ormai nel pieno trionfo di Góngora e del Barocco.

Orme italiane permeano ugualmente l'opera dell'Inca Garcilaso. La cultura italiana entra determinante nella sua formazione fin dall'inizio della residenza in Spagna. La sua prima impresa letteraria fu la traduzione dall'italiano dei Dialoghi d'amore, di León Ebreo, che pubblicò nel 1590, impresa alla quale si accinse, secondo l'Anderson Imbert, «con deleite de sentirse penetrado por el espíritu del Renacimiento»41. Ne risulta una sensibilità nuova, quella con cui il Rinascimento considerava la traduzione: un impegno di fedeltà allo spirito del testo, ricreazione dell'opera originale in tutta la sua vitalità42. Malgrado i «leves deslices de forma» segnalati dal Miró Quesada43, la traduzione dell'Inca dimostra una conoscenza profonda della lingua italiana, vaste letture dei nostri autori, documentate anche dalla presenza dei loro testi nella sua biblioteca privata44.

Nella Florida (1605) e nei Comentarios Reales, è chiara la ricca formazione culturale dell'Inca, la sua frequentazione intensa degli autori italiani, sia dell'ambito storiografico -dalle Antichità di Roma di Andrea Fulvio, alla Storia d'Italia del Guicciardini, definito nei Comentarios Reales, parte II, libro I, cap. II, «gran doctor en ambos derechos y gran historiador de sus tiempos y gran caballero de Florencia», alle Relationi universali del Botero-, che in quello letterario. L'influenza dei temi e della storia romana sono ampiamente documentati nelle due grandi opere, nel paragone costante che Garcilaso promuove tra Roma e il Cuzco, tra l'impero romano e quello incaico, al fine di esaltare la grandezza e dignità di quest'ultimo e dei suoi reggitori45.

Quanto ai poemi cavallereschi italiani, pure ampia è la risonanza nell'opera del peruviano. Nella Florida, l'Inca fonde storia e invenzione46, per quanto dichiari di essere sempre stato «enemigo de ficciones como son libros de caballería y otras semejantes»47. In realtà tutta la sua opera di storico indulge al romanzesco e all'epico, descrive imprese nelle quali è difficile distinguere tra realtà e invenzione. Seguendo i poemi cavallereschi italiani, non v'è dubbio, pur perseguendo la realtà storica, era attratto dal clima eroico e fantastico, tanto che un romanziere come Miguel Ángel Asturias lo considera, specie per i Comentarios Reales, iniziatore del grande romanzo latino-americano48.

Dichiaratamente contrario ai romanzi di cavalleria, l'Inca era favorevole tuttavia ai romanzi a base storica, alla storia in cui entravano elementi romanzeschi. Non sorprende, perciò, se nella Florida, oltre ad episodi dove è evidente il contatto con il romanzo bizantino e italiano, si afferma l'influenza dei poemi epici, quelli italiani, anzitutto, ma pure dell'Araucana dello stimatissimo Ercilla. La concezione della storia come grande avventura dà alla Florida e ai Comentarios Reales -specie a quest'opera nel settore dedicato alle guerre civili del Perù-, un valore artistico che va molto al di là della cronaca. Uomo del Rinascimento, l'Inca ricrea nella prima parte dei Comentarios Reales un mondo delicato e cortigiano, che si vale dell'inedito e dell'esotico, mentre nella seconda parte, come già nella Florida -ma con più diretta partecipazione trattandosi ora del mondo patrio-, ricrea, narrando prima della conquista, poi delle guerre civili, tra grandiosi scenari ricchi di chiaroscuro e di mistero, un clima drammatico ed eroico, nel quale si muovono cavalieri come tratti dagli «altos poemas»49 del Boiardo e dell'Ariosto, dei quali si professava incondizionato ammiratore.

Neppure va trascurato, per il nostro argomento, il citato Gonzalo Jiménez de Quesada (?-1579). L'amicizia che lo legò a Juan de Castellanos significò anche una identità culturale, o almeno interesse per la cultura italiana. Jiménez de Quesada fu mosso dall'ardore patriottico a scrivere l'Antijovio -che concluse, afferma, nel 1567-, per confutare gli scritti del vescovo italiano, e affermato storico, Paolo Giovio, in cui denigrava gli spagnoli. Nel 1561, infatti, era stata pubblicata a Granada, in traduzione castigliana dal latino, ad opera di Gaspar Baeza, la Historia general de todas las cosas sucedidas en el mundo en estos cincuenta años. Il libro giunse non si sa come nelle mani del conquistatore della Nueva Granada, il quale conosceva anche, come si apprende dall'Antijovio, un trattatello di orientamento ben diverso, dovuto a Galeazzo Capella, pure tradotto dal latino in spagnolo da Bernardo Pérez e pubblicato nel 1536: Historia de las cosas que han pasado en Italia desde el año MDXXI de nuestra redención hasta el año XXX, sobre la restitución del duque Francisco Sforza en el ducado de Milán, en el que se cuentan las grandes victorias del Emperador don Carlos.

Benché l'opera di Jiménez de Quesada non sia altro, per il presente argomento, che la testimonianza della conoscenza di due autori italiani, scrittori peraltro in latino, dimostra la sua attenzione per le cose di quell'Italia che definisce «dichosísima»50, ma che ingiustificatamente, a suo parere, odia gli spagnoli.

Il mutamento del gusto, passando dal Rinascimento al Barocco, determina un progressivo abbandono, nell'ambito epico, del modello costituito dall'Orlando furioso e segna l'avvento di un altro modello, la Gerusalemme liberata, in accordo con il programmismo religioso promosso dal Concilio di Trento. In un momento intermedio si pone l'opera del vescovo Bernardo de Balbuena (1562-1627), autore de La Grandeza Mexicana (1604) e del poema epico El Bernardo (1624), oltre che del romanzo pastorale El Siglo de Oro en las selvas de Erifile (1608). Il resto della sua opera andò perduto nell'assalto dei pirati a Puerto Rico, dove fu saccheggiato il palazzo vescovile.

Il Bernardo, che si è soliti definire «variación barroca a un tema de Ariosto», benché edito dopo la Grandeza Mexicana, risale in realtà a epoca anteriore e fu oggetto di un'elaborazione quasi ventennale, che riflette il cambiamento del clima poetico. Nella vasta opera epica l'orma dell'Ariosto è scontata e proprio per El Bernardo il Menéndez y Pelayo definiva il Balbuena «segundo Ariosto», malgrado non mancasse di denunciare la mancanza in lui dell'alto senso poetico dell'italiano, della lieve ironia con cui nell'Orlando furioso «corona de flores el ideal caballeresco en el momento mismo de inmolarle»51. Ciò nonostante, attraverso la lezione dell'Ariosto, Balbuena rafforza le originali disposizioni inventive e la nota «muy alta de color, muy aventurera e impetuosa», che il critico spagnolo gli riconosce52.

Il Bernardo abbonda di elementi e di figure che provengono dal mondo ariostesco. Come indica il Macrí53, l'ariostismo di Balbuena sta anche nel modo disincantato e lieve con cui tratta l'antica leggenda del vincitore di Orlando a Roncisvalle, nell'assimilazione in tal modo dell'eroe castigliano alle figure di Alcina, Ferraù, Angelica... Ma le influenze nel poema non si limitano al Furioso, bensì si estendono a tutto un vasto mondo culturale: Omero, Virgilio, Ovidio, Petrarca54, gli Amadises, i Palmerines. Dall'Ariosto Balbuena trae ispirazione, gran parte del tema, diversi personaggi, il tono generale, ma denuncia sempre con orgoglio le fonti. In particolare, nel poema si ritrovano dell'epico italiano l'ironia, la fantasia, lo studio psicologico applicato ai personaggi, la sensualità, la tecnica del brusco interrompere la narrazione onde mantenere vivo nel lettore l'interesse. Una lezione perfettamente assimilata, tuttavia sciupata in parte da un moralismo superficiale, da un allegorismo pesante, da un convenzionalismo sentenzioso in accordo con il programmismo gesuitico, frutto del lungo impegno di «perfezionamento» cui il poeta sottopose la sua opera.

Forti influenze italiane si ritrovano anche nel romanzo pastorale El Siglo de Oro en las selvas de Erifile, pure anteriore alla Grandeza Mexicana55. Si tratta in questo caso dell'Arcadia del Sannazaro: Balbuena lo segue nel linguaggio ricco di metafore e di allegorie, nella ricreazione di un mondo delicato di ninfe e di pastori, artificioso e irreale, ma attraente, in un paesaggio raffinato, idealizzato. Nel Siglo de Oro si coglie anche la presenza di Teocrito e di Virgilio, in alleanza con il Sannazaro, per il quale ultimo il Menéndez y Pelayo parlò di plagio56, giustamente contestato dal Rojas Garcidueñas, che invece rileva come Balbuena non si appropri delle invenzioni altrui, bensì citi continuamente e con ammirazione l'autore italiano57.

Tra l' Arcadia e El Siglo de Oro esistono strette relazioni per la struttura formale e l'artificio del mondo naturale. Il Fucilla ha studiato attentamente le fonti del romanzo e ha indicato presenze di Virgilio, del Petrarca e di autori spagnoli, come Boscán e Garcilaso. Documento esemplare dell'influenza del Petrarca è la canzone «Aguas claras y puras», il cui modello è «Chiare fresche e dolci acque». Lo studioso citato ha documentato minuziosamente anche le relazioni del testo di Balbuena con l'Arcadia58, quasi a confermare l'accusa di plagio; ma non tutto convince, e vasta è la zona di autonomia.

Nel Siglo de Oro i modelli sono assunti originalmente, ricreati, e il Sannazaro si scorge piuttosto in trasparenza, mentre il clima è quello inconfondibilmente barocco della Nueva España, che pure si afferma nella Grandeza Mexicana per sontuosità formale e armonia. È anche da ricordare che Balbuena continua ad elaborare la sua opera dal 1580-85 fino al momento della stampa e certo si deve alla lunga elaborazione se l'Arcadia diviene nel Siglo de Oro presenza non costrittiva. Tanto più che esisteva ormai una tradizione ispanica sull'argomento, della quale lo scrittore-poeta era pienamente partecipe, e che partiva dal Menosprecio de corte y alabanza de aldea, di Antonio de Guevara, del 1539. Non v'è dubbio, tuttavia, che, ad esempio, la prosa XII dell'Arcadia, lode della città di Napoli, ispira l'Egloga VI del Siglo de Oro, dove Balbuena celebra la città di México, alla quale del resto, con il medesimo intento, dedica la Grandeza Mexicana. Il modello italiano, tuttavia, resta un riferimento illustre, al disopra del quale l'autore afferma la propria autonomia, insistendo compiaciuto sul dettaglio, e attestando partecipazione piena alla realtà nella quale vive e che desidera celebrare.

Mano a mano che ci si addentra nel secolo XVII la presenza dell'Ariosto in America va scemando, sostituita dalla tendenza a considerare il poema, in ossequio ai principi della Controriforma, mezzo di edificazione, ripudiando le libere creazioni della fantasia ariostesca e l'ironia, in favore di una serietà di fondo, la sensualità per una castità di accenti che tuttavia non riesce a nascondere del tutto la tensione erotica.

Nella poesia americana, che si volge al canto di argomenti a sfondo religioso, i testi ispiratori sono La Christiade (1535) di Gerolamo Vida, e soprattutto la Gerusalemme liberata del Tasso, tradotta in castigliano nel 1587, ma già ben nota in Spagna. Del 1594, poi, è la Jerusalén conquistada, di Lope de Vega, che pure dovette avere parte rilevante nella diffusione della tendenza tassesca.

Il Bertini ha osservato che la Gerusalemme liberata entrava in contatto con il mondo spagnolo in un momento di più desta sensibilità, di ampliate capacità estetiche e meglio corrispondeva, per argomento, agli orientamenti spirituali del popolo spagnolo, il cui animo guerriero trovava motivo di più interessata curiosità nella storia della Crociata; non solo, ma il poema del Tasso comunicava al mondo ispanico l'esaltazione eroica degli ideali religiosi, facendo confluire in essi l'ideale politico; le qualità personali di malinconia, di religiosità, di sensualità del poeta italiano erano, del resto, secondo lo studioso, più vicine al carattere spagnolo che non quelle espansive e vitali dell'Ariosto59. Oltre a ciò, osserva il Meo Zilio, lo stile oratorio del Tasso bene si adattava a gran parte della tradizione stilistica spagnola60.

Nei primi decenni del secolo XVII le presenze della letteratura italiana in America sono ancora composite e rappresentano piuttosto un clima culturale che non il prevalere, come fonte d'ispirazione e modello, di un autore sull'altro, benché il trinomio Ariosto-Ercilla-Oña vada cedendo sempre più il passo all'affermazione tassesca, dando presto luogo al binomio Tasso-Hojeda.

Presenze dell'epica italiana ritroviamo in El espejo de paciencia (1608), breve poema del canario-cubano Silvestre de Balboa, in cui si mescolano le due tendenze, ariostesca e tassesca. La stessa cosa si può affermare per le Armas Antárticas, poema composto tra il 1608 e il 1615 da Juan de Miramonte y Zuázola. In quest'opera è già più evidente la presenza della Gerusalemme liberata, come documentano -lo ha rilevato Max Henríquez Ureña61-, gli episodi delle feste di Rampo, le descrizione dei giardini di Vilcabamba, l'imitazione della «Ballata della rosa», oltre al contatto che esiste, come segnala il Sánchez62, tra Estefanía, oltraggiata dal corsaro inglese Oxenham, e la Clorinda del Tasso.

Tuttavia, il poema esemplare del momento tassesco in America è La Christiada (1611), del domenicano Diego de Hojeda (1571?-1615), espressione rilevante del nuovo clima, d'interesse non solo dal punto di vista artistico, ma per i contatti che presenta con Dante oltre che con il Tasso.

Fin dal proemio il poeta dichiara il suo programma: l'impegno è di cantare il Figlio di Dio, «humano, y muerto / con dolores y afrentas por el hombre», affinché, «los oídos halagando, asombre / al rudo y al sabio, y el cristiano gusto / halle provecho con un deleite justo». Non più le donne, gli amori e le audaci imprese dell'Orlando furioso, e neppure l'adirato Marte dell'Araucana o dell' Arauco domado, ma l'umanità del Cristo: denuncia ed edificazione.

Hojeda partecipò dell'ambiente colto limegno, fece parte dell'élite colta che si riuniva intorno al vicerè, marchese di Montesclaros, cui dedica il poema, poi del nuovo vicerè, principe di Esquilache, anch'egli poeta, autore del Poema heroico, Nápoles recuperada, e buon conoscitore della poesia italiana63. Visse, perciò, in un ambiente di entusiasta e serio italianismo.

A suo tempo il Menéndez y Pelayo non mancò di riprovare, con l'immeritato oblio in cui era caduto in Spagna il poema di Hojeda, la «verbosidad» a volte «desatada» dell'autore, ma soprattutto ne sottolineava gli esiti positivi64. Le fonti dottrinali de La Christiada sono i vangeli, i Padri della Chiesa, una vasta letteratura agiografica, S. Agostino, S. Tommaso, il padre Suárez; per l'aspetto letterario i riferimenti sono, oltre che alla Christiade del Vida, ai testi di Omero e di Virgilio, alla Divina Commedia, alla Gerusalemme liberata, e, nell'ambito ispanico, ai poeti epici americani, Ercilla, Oña, e attraverso questi ultimi, se non per via diretta, all'Ariosto.

Seguendo il nuovo orientamento espresso dalla Gerusalemme liberata, la Christiada inizia l'azione in medias res, presenta un eroe centrale, unità d'azione, di luogo e di tempo, un programmismo religioso che si esplica in un'atmosfera devota e mistica, senza che per questo manchi una nota di sensualità, «en aras de la acostumbrada tolerancia preceptística de la época»65. Quanto alle presenze italiane, nel libro VII Dante presiede, insieme a Vida, alla concezione dell'inferno, diviso in «grandes calabozos» dove, secondo la colpa, stanno a penare i dannati, «mazmorras de horror y presos llenas», mentre Giuda, traditore di Cristo, riunisce in sé, quale massimo peccatore, tutte le pene. Da Dante procede il senso apocalittico delle rappresentazioni: la città infernale «que en vivas llamas arde» ha il suo modello nella città di Dite del canto X dell' Inferno dantesco, più che nell'Ade virgiliano del libro VI dell' Eneide; danteschi sono i «calabozos» nei quali penano i dannati, variazione dei «gironi» di Dante, e il «sulfúreo fuego». Al contrario, si avvicina di più al canto IV della Gerusalemme liberata -malgrado lo stesso Tasso si ispiri a Virgilio, al De raptu Proserpinae di Claudiano, a Dante e all'Ariosto, alla Christiade del Vida- la descrizione delle «mil furias y quimeras / bravas y oscuridades verdaderas», soprattutto nella presentazione del suolo infernale, avvelenato e velenoso.

Nella quinta ottava del canto IV Tasso, seguendo il Vida, presenta gli orribili mostri infernali: Arpie, Centauri, Sfingi, Gorgone, Scilli, Pitoni, Polifemi, Gerioni; Hojeda amplia la serie, intrattenendosi nella descrizione dell'ambiente, affermando la propria autonomia entro il modello. In Hojeda le fonti non uccidono mai l'originalità dell'invenzione, come si può osservare nella possente descrizione della dimora di Lucifero, orribile secondo lo stile dantesco, originale quanto a immagini e architettura, efficace per risultato artistico:



Hay en el centro escuro del averno
una casa de estigio mar cercada,
donde el monstruo mayor del crudo infierno
perpetua tiene su infeliz morada:
aquí las ondas con bramido eterno
la región ensordecen condenada,
y denegrido humo y gruesa niebla
ciegas le infunden y hórridas tieneblas.

El edificio de rebelde acero
sobre una inculta roca se levanta,
y en su puerta mayor el Cancerbero
con tres en una voz la noche espanta:
Aleto, hija atroz del Orco fiero,
que de culebras ciñe su garganta,
con sus hermanas dos siempre despiertas,
ocupan las demás guardadas puertas.



Quanto al Tasso, la sua presenza domina al disopra di quella del Vida. Si è indicato un esempio nella «solemne y horrenda» immagine dell'Empietà, che pettina le vipere dei suoi capelli66. Presenze numerose del Vida e del Tasso sono state individuate dal Pierce nel libro VI e nella struttura dell'inferno hojediano, sottolineando al contempo la sua originalità67. Hojeda coincide con il Tasso nella collocazione della riunione infernale, operando talvolta una sintesi per quanto riguarda gli elementi offertigli dalla fonte, in altri casi, la maggior parte, diluendo la sinteticità tassesca, come allorché Lucifero chiama a raccolta gli enti infernali, dove un'ottava del Tasso, la terza del canto IV della Gerusalemme liberata, viene ampliata in due all'inizio del libro IV della Christiada.

La fluidità verbale, il valore dell'aggettivazione, nel poema di Hojeda rende legittimo il tono delle rappresentazioni. È quanto accade nelle ottave 5 e 6 del canto citato, la cui origine sono le ottave 7 ed 8 della Gerusalemme, con diverso risultato, che supera il Tasso nella descrizione di Lucifero, ma che nella successiva ottava decade, in seguito alla pesante menzione di elementi del paesaggio italiano: il Vesuvio, la Campania, il Mongibello.

Nel clima barocco americano, dominato dalle idee aristotelico-tassesche, sono da considerare i poemi di Pedro de Oña, El Vasauro (1635) e l'Ignacio de Cantabria (1639), dove l'influenza dell'Orlando furioso e dell'Araucana è sostituita da quella della Gerusalemme liberata. Nell' Ignacio de Cantabria, il poeta, in luogo dell'«agradable» dichiara di voler perseguire il «bien honesto», inoltrandosi così per una strada che lo farà arretrare artisticamente rispetto all'Arauco domado.

Sulle orme del Tasso, nel Vasauro Oña persegue lo storico e il verosimile; l'intenzione moralizzante fa tacere la nota sensuale che aveva dato respiro all'Arauco; un senso improvviso del peccato toglie vita agli episodi amorosi, financo nella descrizione di quelli castissimi tra Fernado e la mora Fátima, che riportano a Rinaldo e Armida del Tasso, senza la grazia dell'originale italiano, malgrado l'abilità versificatrice. I contatti con la Gerusalemme si rendono evidenti in questo episodio: nella metafora della dama svenuta; nella rappresentazione di Fernando che libera il seno di Fátima, come Rinaldo fa con Armida; nel finale, dove, allo stesso modo di Rinaldo ad Armida, Fernando spiega a Fátima che non potrà unirsi a lei per la diversa fede; nell'episodio di Fátima che, come Erminia, incide il nome dell'amato nella corteccia degli alberi68. Tutto malgrado, nel Vasauro l'Ariosto non è completamete dimenticato; segna un'influenza di fondo e di stile, mentre tratto tratto riappare l'orma della sua particolare ironia, la burla, il vigore nella descrizione delle battaglie, il compiacimento per il dettaglio, a volte di un realismo assai crudo.

Neppure nell' Ignacio de Cantabria la lezione dell'Orlando furioso scompare del tutto; essa si manifesta nella grazia con cui l'Oña tratta alcune scene che riportano ai momenti più felici dell'Arauco domado. Ma il poema, composto seguendo precise direttive dei gesuiti committenti, rappresenta il momento moralmente più impegnato del poeta con un condizionamento esterno tirannico e segna la decadenza dell'artista.

Nel genere, di rilievo senza dubbio superiore rimane il San Ignacio de Loyola, Poema heroico (1666), di Hernando Domínguez Camargo (fine 1606-1659), cronologicamente preceduto non solo dal poema dell'Oña, ma da un più remoto San Ignacio de Loyola (1617), di Antonio de Escobar y Mendoza, e da un ancora anteriore poema omonimo (1613), di Alonso Díaz, ben noti al Domínguez Camargo. È probabile che il gesuita assorbisse a Tunja l'influenza dell'italianismo locale, in contatto proficuo con la limegna «Academia Antártica». Senza dubbio doveva conoscere abbastanza di epica italiana, probabilmente attraverso La Araucana e El Arauco domado, ma più direttamente da letture del Tasso, cui il suo programma aderiva. E tuttavia, non doveva restare indifferente al clima e al gusto della fantasia ariostesca, se perdurano in lui toni e gusti propri dell'Ariosto, benché tutto venga fuso, come nota il suo maggior studioso69, negli schemi aristotelico-tasseschi ormai prevalenti. Nel complicato mondo gongorino del San Ignacio de Loyola, non di rado di sorprendente bellezza, è impresa assai difficile individuare orme più concrete dei modelli italiani.

Il Barocco trionfante finisce per eliminare in gran parte l'influenza italiana in America, o meglio, la media attraverso la travolgente invasione gongorista. Ciò non significa che la nostra letteratura sia dimenticata. Estuardo Núñez nota che, per quanto almeno si riferisce al Perù, uno dei centri sempre di maggior rilievo dell'italianismo fino ai nostri giorni, permane un interesse costante verso gli autori italiani. Per il periodo è documento di rilievo l'Apologético en favor de Góngora (1662), del «cuzqueño» Juan de Espinosa Medrano, «El Lunarejo» (1632-1688), dove sono vive le idee del Pontano, del Valla, letture dell'Aretino e dei Discorsi politici e avvisi del Parnaso, del Boccalini70.

Neppure la messicana Sor Juana Inés de la Cruz appare digiuna di poesia italiana, anche se il Petrarca è presenza assai pallida nella sua poesia d'infelici amori e l'Ariosto motivo superficiale di burla, mentre il Boccaccio è pura citazione esteriore. Comunque la «Fénix de México» conosceva la nostra poesia, se non altro attraverso la mediazione dei poeti spagnoli del Rinascimento e del Barocco. Tuttavia, la grande stagione migratoria della cultura italiana in America, per il momento si chiude; era durata due secoli e, scontata la passione, non sembra ingiustificata l'affermazione del Núñez:

Sin el caudal de la poesía italiana del Trescientos al Seiscientos, la literatura peruana y americana colonial de los siglos XVI al XVII no habría tenido las altas expresiones que alcanzó con el Inca Garcilaso, Ercilla, Oña, Ávalos, las poetisas anónimas del Perú, Hojeda y el Lunarejo. ¿Quién podría imaginar la desolada aridez, la parda adustez que habría mostrado esa literatura sin la gracia alada, la viva lección de ingenio y el buen gusto que comunicaron los italianos? ¿Qué habría sido un Ávalos sin las lecturas de Dante, Petrarca, Bembo y los Humanistas itálicos, un Ercilla sin Ariosto, un Hojeda sin Tasso, un Lunarejo sin la universalidad que le prestan sus autores predilectos italianos o las poetisas anónimas sin la asimilación de Sannazaro, en la lengua toscana? Esas lecturas y esa lección de bien decir y bien pensar hicieron perder rudeza, sequedad y basteza a la nueva expresión literaria del Continente71.



Fu quindi, quella della nostra cultura, un'emigrazione efficace nel Nuovo Mondo, che sarebbe stata seguita, tra il Sette e il Novecento, da una serie di ondate non meno proficue.





 
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