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Le letterature precolombine: tra sacro ed elegiaco

Giuseppe Bellini





Se con la conquista spagnola il mondo indigeno sprofondava nel silenzio, esso incominciò presto, tuttavia, a operare nell'intimo della nuova società che si andava formando, in una regione nascosta, quella dello spirito. I frati furono tra i primi a essere coinvolti, per ragioni diverse, quelle della diffusione della fede, dalle culture dei popoli vinti. Essi investigarono, studiarono e preservarono per il futuro ciò che poterono raggiungere e salvare delle civiltà precolombiane. Ma la voce di queste culture non si è più taciuta. Se nel secolo XVII Sor Juana Inés de la Cruz cercava addirittura di contrabbandare, in buona fede, ma con evidente intenzione di riscatto nazionale -non era lei che incitava l'«América ufana» a sollevare «la coronada cabeza» e «el Águila mexicana» a spiccare il suo «imperial vuelo»?1-, il sacrifìcio rituale umano degli aztechi come prefigurazione del sacramento dell'Eucarestia, ancora a distanza di secoli Neruda non si sottraeva alla presenza operante del mondo incaico e nelle «Alturas de Macchu Picchu», del Canto general, ne ricercava il messaggio «a través del confuso esplendor»2, sentiva nell'incontro con la donna amata, Matilde, il successo felice di radici araucane che si cercavano3.

E se l'Inca Garcilaso de la Vega, nei suoi Comentarios Reales, celebrava lo splendore dell'impero incaico, Miguel Ángel Asturias riportava alla vita, nel secolo XX, l'aroma del mondo maya, la sua sostanza spirituale, ripetendo nella prosa delle Leyendas de Guatemala l'incanto del libro delle origini, il Popol-Vuh, dava voce nella poesia a un mitico regno dello splendore e del mistero, saldando i confini tra il tempo remoto e il presente:



Dadme el ocio con ojos,
oídos, olfato, y tacto nuevo,
lo material, la música,
la danza, los tejidos,
la plumería y las mancebas
de color de cacao,
la redacción del sueño,
el libro de las ceibas,
el acuático correr
de los dibujos o reflejos
por la corteza blanda
de la antigua escritura.

Mediré el esplendor,
penetraré la puerta del comienzo
y los que fueron estarán conmigo
(iOh, ebriedad del ocio!)
yo y ellos,
nada más4.



Nelle Leyendas de Guatemala la magia delle origini era resa nel movimento della materia bruta che si disponeva a essere forma. Un clima sacrale domina la prosa asturiana:

«Los ríos navegables, los hijos de la lluvia, los del comercio carnal con el mar, andaban en la superficie de la tierra y dentro de la tierra en lucha con las montañas, los volcanes y los llanos engañadores que se paseaban por el suelo comido de abismos, como balsas móviles. Encuentros estelares en el tacto del barro, en el fondo del cielo, que fijaba la mirada cegatona de los crisopacios, en el sosegado desorden de las aguas errantes sobre lechos invisibles de arenas esponjosas, y en el berrinche de los pedernales enfurecidos por el rayo.

Otro temblor de tierra y el aspaviento del líquido desalojado por la sacudida brutal. Nubes subterráneas de ruido compacto. Polvo de barrancos elásticos. Nuevas sacudidas. La vida vegetal surgía aglutinante. [...]

Los ríos se habituaron, poco a poco, a la lucha de exterminio en que morían en aquel vivir a gatas tras de los cerros, en aquel saltar barrancos para salvarse, en aquel huir tierra adentro, por todo el oscuro reino del tacto y las raíces tejedoras.

Y, poco a poco, en lo más hondo de la lluvia, empezó a escucharse el silencio de los minerales [...]»5.



Il legame con il mondo precolombiano non si è interrotto nei tempi a noi più vicini. Oltre a ricordare, come testimonianze di questa intima adesione, l'opera di Carlos Fuentes, di Ottavio Paz, di Manuel Scorza, menzionerò ancora l'argentino Abel Posse, il quale ne Los perros del Paraíso, romanzo dedicato alla figura e all'avventura di Colombo, fa continuo riferimento al mondo azteco e alla sua espressione poetica, che cita con frequenza.

Aveva ragione Martí di dichiarare, ancora nel secolo scorso, che lo spirito degli uomini aleggia sulla terra in cui sono vissuti e che lo si respira. Si coglie spesso, in America, una chiara continuità spirituale tra la cultura indigena e quella nata dalla conquista. Uno studioso come il padre Garibay sottolineava nella sua Historia de la literatura nahuatl il fatto che certamente la conquista fu «un golpe dado a una cultura; pero esa cultura pudo sobreponerse, y por siglos, hasta el nuestro, sigue viviendo en su tesón admirable y sigue produciendo literariamente»6.

Ciò è dimostrato anche nell'ambito del castigliano, se una delle opere di maggior rilievo della poesia americana di tema e radici precolombiane è un poema di Miguel Ángel Asturias, Clarivigilia primaveral (1965), pienamente identificato con il mondo maya -miti, cosmogonia, valenze esoteriche-, sul tema dell'origine degli artisti e delle arti, in un clima di sacralità magica:



La Noche, la Nada, la Vida,
las Inmensas Viudas,
y el Ambimano Tatuador de mundos
que Él creó con sus ojos
y tatuó con su mirada de girasol,
creó con sus manos, la real y la del sueño,
creó con su palabra, tatuaje de saliva sonora,
mundos que al quedar ciego
rescató del silencio con el caracol de sus oídos
y de la tiniebla luminosa
con su tacto de constelación apagada,
con sus dedos enjoyados de números y colibríes.

La Noche, la Nada, la Vida,
las Inmensas Viudas
a la luz de los Oropensantes-luceros,
Emisarios que se perdieron en el cielo de níquel
sin desanillar su mensaje
y el Ambimano Tatuador
cegado por la lluvia de ojos de hilo7.



Nel pregnante significato del simbolo prendono corpo, come interpreta il Segala, «la “vedovanza” del cosmo, il suo disordine e la sua tristezza per la vita che il Tatuatore Ambidestro, Nostro Padre e Nostra Madre, tatuava (cioè creava, marcava con la sua impronta immortale) senza senso, ciecamente. Fu allora che la Divinità Duale creò “coloro che avrebbero allevato esseri, cose e suoni di sogno, cioè gli artisti”»8. Giustamente il critico citato afferma:

«Come la maggior parte dei testi precolombiani che ci sono rimasti, il cui leit-motiv ricorrente sono le storie religiose degli antichi popoli americani, Clarivigilia è una cosmogonia che ripete a suo modo e con una impostazione assolutamente inconfondibile e personale la storia degli dei e degli uomini, delle loro opere e delle loro sofferenze. Chi ha qualche familiarità con il Popol-Vuh, con gli Anales de los Xahil, con i vari Chilam Balam e con i mirabili Informantes di Sahagún e di Landa, si troverà improvvisamente immerso in una terminologia, in un ritmo e in concezioni cosmico naturali abbastanza affini. A parte uno smalto lessicale e una ellitticità forse superiori, il transito è a prima vista impercettibile, le figure e i movimenti stilistici, i paideuma culturali sorgono evidentemente e senza sforzo dalle stesse radici, rami uguali e diversi della favolosa ceiba che la Divinità Duale Maya piantò all'inizio del mondo nell'ombelico dell'Universo»9.



Una conferma convincente dei legami tra le vecchie e le nuove culture.


Area azteca e maya

Gli spagnoli conquistatori arrivano in Messico, con Cortés, nel novembre 1519 e Tenochtitlán, la capitale azteca, cade nell'agosto del 1521. Fu la fine di un mondo. Uno spettacolo terrificante accolse i vincitori entrando nella città vinta. Cortés scrive: «hallábamos los montones de los muertos, que no había persona que en otra cosa pudiese poner los pies»10; e Bernal Díaz del Castillo, a distanza di decenni ancora avrà presente l'impressionante scenario:

«[...] digo que juro, amén, que todas las casas y barbacoas de la laguna estaban llenas de cabezas y cuerpos muertos, que yo no sé de qué manera lo escriba, pues en las calles y en los mismos patios de Tlatelolco no había otra cosa, y no podíamos andar sino entre cuerpos y cabezas de indios muertos. [...] así el suelo y la laguna y barbacoas todo estaba lleno de cuerpos muertos, y hedía tanto que no había hombre que lo pudiese sufrir. [...]»11.



La ricostruzione e la trasformazione della città iniziarono subito, a spese della manodopera indigena, s'intende, che procurava anche i materiali. Fra Toribio de Benavente, scrivendo nel 1536, confermava, nella sua Historia de los Indios de la Nueva España12, un mondo di violente ingiustizie, ma anche in fervida attività ricostruttiva, oltre che in crescente adesione alla nuova fede.

Il francescano, uno dei «Dodici Apostoli» -i primi frati giunti in Messico e ricevuti con solenne umiltà da Cortés-, si affretta a investigare degli indigeni la civiltà, la religione e le manifestazioni religioso-culturali. Ma sarà un altro francescano, Bernardino de Sahagún, il vero sistematore, e trasmettitore, della cultura del mondo vinto. Infatti, se per le prime manifestazioni teatrali e culturali dell'area è indispensabile ricorrere alla Historia di fra Toribio, e per l'area maya alla Relación de las cosas de Yucatán13, di frate Diego de Landa -colui che fece un pubblico auto-da-fe dei codici indigeni, ma che pure ne salvò per sé diversi-, per il complesso più ampio della cultura dell'antico impero è giocoforza ricorrere alla Historia general de las cosas de Nueva España, di Sahagún14.

Nell'area messicana la civiltà si costruisce su apporti di popoli diversi, primi tra tutti i Toltechi. Sorgono grandi città santuario. L'espressione artistica è legata strettamente alla religione. Teotihuacan è la più antica di queste città, imponente per costruzioni sacre.

I toltechi veneravano il Sole, la Luna e in particolare Quetzalcóatl, dio dell'aria, che veniva rappresentato dal serpente piumato, e anche Tlàloc, dio della pioggia, con la sua compagna Chalchiuhtlicue.

Verso il secolo XIII della nostra era fanno la loro comparsa in terra messicana, provenienti dal nord, gli Aztechi, in origine appartenenti ai Cicimechi; essi avevano già fondato città divenute famose, come Cholula e Tlascala. Gli Aztechi si stabilirono a Chapultepec, poi avanzarono verso sud, guidati, dice la leggenda, dal dio della guerra, Huitzilopochtli, e fondarono Tenochtitlan, su una laguna, oggi scomparsa.

Per secoli la loro esistenza fu resa difficile dall'ostilità delle popolazioni circostanti e solamente all'inizio del secolo XV Tlacaélel riuscì a rafforzare la presenza azteca con una serie di conquiste, inaugurando un'epoca aurea per il suo popolo, valendosi dell'alleanza con gli stati di Texcoco e di Tacuba.

Intelligentemente Tlacaélel accolse dei Toltechi miti, come la «Leggenda dei Soli», e divinità, come Huitzilipochtli, la madre di questi, Coatlicue, e Quetzalcóatl, ma soprattutto rafforzò nella sua gente la convinzione di essere un popolo eletto, destinato a grandi imprese. Iniziò così un'espansione militare che giunse fino ai confini dei territori maya.

Presto si realizza una fusione di culture tra quella azteca e quella tolteca, più evoluta, ma anche con le culture di altri popoli di lingua «nahuatl» e con gli stessi Otomi, stanziati al nord e considerati in genere con disprezzo. La civiltà «nahuatl» raggiunse così il suo massimo splendore; sorsero le grandi città e si innalzarono le piramidi rituali i cui resti ancora oggi ammiriamo.

Naturalmente i popoli assoggettati costituirono il punto debole dell'impero, soprattutto i Tlascaltechi e gli Huezotzinca. Queste due popolazioni avevano dato vita a una loro civiltà e nell'ambito religioso adoravano il Dio sconosciuto. Texcoco fu il loro centro culturale; ebbero re illuminati e colti, come Nezahualcóyotl e Nezahualpilli.

A sudest di Oajaca si sviluppò la grande città di Monte Albán, che risale al 500 a. C.: era una città-santuario e in essa si verificò l'incontro di vari popoli, dagli Olmechi ai Zapotechi, ai Miztechi e finalmente agli Aztechi che tutti li sottomisero. Montezuma II, lo stesso che vide giungere gli spagnoli conquistatori, tentò di dare unità all'impero azteca, mostrò una singolare tolleranza religiosa e ammise ufficialmente il culto di vari dei popoli vinti.

Quanto all'arte dell'area messicana, per molto tempo superficialmente conosciuta in Europa, oggi è bene affermata nel mondo. Nel secolo XVIII essa costituì piuttosto una curiosità e il suo studio sistematico avviene soprattutto nel secolo XX. È noto che lo stesso Cortés -come poi farà anche Pizarro in Perù- distrusse gran parte delle preziose realizzazioni artistiche in oro e in argento, bottino di guerra. Ma quanto ci è pervenuto vale ancor oggi a stupire per la perfezione del disegno e della realizzazione.

Delle grandi espressioni dell'architettura e della scultura ci sono pervenute testimonianze imponenti e preziose, che sono state illustrate da studiosi di grande competenza. Anche la vita del mondo «nahuatl» è stata indagata e illustrata, compresa la cultura, da studiosi di rilievo, quali Alfonso Caso15, Jacques Soustelle16, il citato Garibay17, Miguel León Portilla18 e, per quanto attiene all'ambito religioso e filosofico da Laurette Séjourné19 e Amos Segala20- Ma alle origini di tutto sta l'opera, come si è detto, del francescano Bernardino de Sahagún, oltre ai testi dei primi cronisti della conquista e della colonizzazione.

Fondamentali, comunque, sono gli apporti della scuola di Sahagún, dei suoi «Trilingües» -le testimonianze, in «nahuatl», si trovano all'Accademia della Storia, e alla Biblioteca del Palazzo Reale di Madrid, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, codice edito in facsimile dalla Secretaría de Gobierno del Messico, in tre volumi, nel 1979-, i codici aztechi salvatisi, come gli Anales de la Nación Mexicana (1528) e la Historia Tolteco-Chichimeca (1545?), ora alla Biblioteca Nazionale di Parigi -editi in facsimile dal Menguin a Copenaghen nel 1945 e 1942, rispettivamente-, il manoscritto Huehuetlatolli (1547), della Biblioteca del Congresso, di Washington, quello della Biblioteca Nazionale di México (1550?), il Codice Cuahtitlán (1558) o Leyenda de los Soles -scoperto da Francisco del Paso Troncoso e da lui edito a Firenze nel 1903-, il Codice Cuautitlán o Codice Chimalpoca (1570) -edito da Lehman nel 1938, e a México in facsimile nel 1945-, il Codice Aubin (1576), della Biblioteca Nazionale di Berlino -edito da Remi Simeon a Parigi nel 1893-, la Colección de Cantares mexicanos (1532-1597), scoperta da José Maria Vigil verso il 1880 nella Biblioteca Nazionale di México, il Codice Borgia, del Museo Vaticano, pubblicato a Roma nel 1898 da Le Due de Loubat.

Gli studiosi e i valorizzatori di questi testi -cui sono da aggiungere gli apporti di fra Diego Durán, tra il 1570 e il 1581, nella Historia de las Indias de Nueva España; di Jerónimo Mendieta nella Historia Eclesiástica Indiana (1596); di Fernando de Alvarado Tezozómoc nella Crónica Mexicana (1598); di Fernando de Alva Ixtlilzóchitl nella Historia de los Chichimecas; di fra Juan de Torquemada nella Monarquía Indiana (1623)- sono numerosi. Ricorderemo tra essi Daniel G. Brinton, Remi Simeon, Eduard Seler -studioso dei codici di Madrid e del Codice Borgia-, Ángel María Garibay e Miguel León-Portilla, ai quali ultimi, con Alfonso Caso, autore de El pueblo del Sol (1953), spetta il merito di aver riscattato la cultura «nahuatl» e di aver dato rigorosa sistemazione alle testimonianze sacro-letterarie di una delle maggiori culture del mondo precolombiano.

Nei tre volumi della Historia de la literatura nahuatl (1953) il Garibay riunì una messe copiosa di testi, chiarendone il sostrato esoterico e simbolico, ricostruendo lo sfondo storico-culturale del mondo dal quale sorsero.

Il León-Portilla ha studiato il pensiero della civiltà precolombiana del Messico, nel fondamentale testo La filosofía nahuatl (1959), e la sua strutturazione civile e culturale nel non meno rilevante Los antiguos mexicanos a través de sus crónicas y cantares (1961); nel suggestivo studio intorno a Trece poetas del mundo azteca (1967), il medesimo studioso ha ricostruito l'identità di poeti della regione di Texcoco, di México-Tenochtitlán, di Puebla-Tlascala, di una poeta di Chalco, vissuti tutti nell'arco di tempo che va dal secolo XIV al XVI.

Alla figura leggendaria del re-poeta Nezahualcóyotl, vengono ad aggiungersi così altre figure concrete di poeti: da Tlaltecatzin a Cuacuatzin, da Nezhualpilli a Cacamatzin, per l'area texcocana, dove vive Nezahualcóyotl; da Tochihuitzin Coyolchiuhqui a Acxayacàtl, da Tecayehuatzin alla poetessa Cacuilxochitizin, per l'area poblano-tlascalteca, al poeta di Chalco, Chichicuepon. L'apporto azteca alla cultura dell'area messicana fu tardo, ma di grande rilievo. Gli aztechi realizzarono una sintesi delle culture dei vari popoli, della quale è impossibile ricostruire la traiettoria, per mancanza di documentazione, ma che significò per l'area uno straordinario momento aureo. Non è possibile, infatti, risalire molto indietro nel tempo, con la documentazione letteraria. Il Garibay indica come limite massimo l'anno 1430; in questa data, infatti, il re Itzocóatl, vinta l'egemonia tepaneca, ordinò che ogni documento fosse bruciato. Frate Bernardino de Sahagún riferisce nella sua Historia general de las cosas de Nueva España:

«Guardábase su historia. Fue quemada cuando reinó Itzcoatl en México. Se hizo deliberación de los Señores. Dijeron: -No es necesario que toda la gente sepa lo que está escrito. Los vasallos se echarán a perder. Y, además, sólo estará el país en engaño con que se conserve la mentira y muchos sean tenidos por dioses»21.



Fu una misura durissima, che privò della memoria di se stessi interi popoli.

Ogni espressione vitale del mondo «nahuatl» si manifesta nell'ambito di una visione religiosa che gli è peculiare. Gli aztechi interpretarono il mondo, come in genere tutti i meso-americani, quale risultato di violente manifestazioni divine, di lotte accanite tra gli dei. Il ciclo delle età, o «Soli», fu il prodotto di tali lotte, e come le età furono generate violentemente, con altrettanta violenza esse ebbero fine. La comparsa dell'uomo avviene nell'età del «Sole in movimento», ma in precedenza erano esistite altre quattro età, o Soli: di terra, d'aria, d'acqua, di fuoco:


Se refería, se decía
que así hubo ya antes cuatro vidas,
y que ésta era la quinta edad.



Questo si afferma in Los Cinco Soles. Nell'anno 1-Conejo «se cimentó la tierra y el cielo», ma a quell'epoca già erano esistiti quattro tipi di uomini: «Y decían que a los primeros hombres / su dios los hizo, los forjó de ceniza». Nel secondo Sole, detto «Sol de Tigre», il sole non seguiva la sua strada,


Al llegar el Sol al mediodía,
luego se hacía de noche
y cuando ya se oscurecía,
los tigres se comían a las gentes.
Y en este sol vivían los gigantes.



I quali si dicevano l'un l'altro «no se caiga usted», perché chi cadeva «se caía para siempre».

Il terzo Sole fu detto «Sol de Lluvia», ma di pioggia di fuoco. Infatti, «Sucedió que durante él llovió fuego, / los que en él vivían se quemaron». Piovve anche sabbia e «piedrezuelas», «hirvió la piedra de tezontle» e «se enrojecieron los peñascos». Venne il quarto Sole, «Sol de viento», che tutto si portò via: «Durante él todo fue llevado por el viento». E tutti divennero scimmie; gli «hombres-monos» andarono a vivere tra i boschi.

Venne il quinto Sole, «Sol de Movimiento», «porque se mueve, sigue su camino». E questa l'età in cui vivono gli Aztechi allorché giungono sulle coste messicane gli spagnoli di Cortés. Neppure questa è un'epoca felice; essa abbonda, infatti, di segni negativi, fame, distruzione e morte:



Y como andan diciendo los viejos,
en él habrá movimientos de tierra,
habrá hambre
y así pereceremos.
En el año 13-Caña,
se dice que vino a existir,
nació el sol que ahora existe.
Entonces fue cuando iluminó,
cuando amaneció,
el Sol de movimiento que ahora existe.

4-Movimiento es su signo.
Es éste el quinto Sol que se cimentó,
en él habrá movimientos de tierra,
en él habrá hambre.



Per impedire il verificarsi di tante sventure e del proprio definitivo annichilimento, gli aztechi immolavano vittime a Huitzilipochtli, identificato con il Sole. È nel momento del quinto Sole che fa la sua comparsa l'uomo vero.

La visione indigena del mondo, nell'area hahuatl e maya, è praticamente identica, nella sostanza: la creazione dell'uomo avviene per tentativi successivi, continuamente eliminati; quando finalmente compare la creatura pensante, essa è sottoposta alla minaccia continua degli dei, che, timorosi, la limitano nelle sue facoltà e la tengono sotto il terrore della distruzione.

Nel citato volume Trece poetas del mundo azteca, Miguel León-Portilla presenta una sintesi efficace della visione cosmico-religiosa dei popoli dell'area nahualt:

«El universo, simbolizado ya en la planta y distribución de las ciudades-santuarios, es como una isla inmensa dividida horizontalmente en cuatro grandes cuadrantes o mundos. Cada cuadrante implica un enjambre de símbolos. Lo que llamamos oriente es la región de la luz, de la fertilidad y la vida, simbolizados por el color blanco. El norte es el cuadrante negro donde quedaron sepultados los muertos. En el poniente está la casa del sol, el país del color rojo. Finalmente, el sur, es la región de las sementeras, el rumbo del color azul.

Los grandes cuerpos de pirámides truncadas y superpuestas parecen ser, asimismo, reflejo de la imagen del universo. Sobre la tierra existen en orden ascendente trece planos distintos. Primero están los cíelos que, juntándose con las aguas que rodean por todas partes el mundo, forman una especie de bóveda azul surcada de caminos por donde se mueven la luna, los astros, el sol, la estrella de la mañana y los cometas. Más arriba están los cielos de los varios colores y por fin la región de los dioses, el lugar de la dualidad donde mora el supremo dios, el dueño de la cercanía y la proximidad, nuestra señora y nuestro señor de la dualidad. Debajo de la tierra se encuentran los pisos inferiores, los caminos que deben cruzar los que mueren hasta llegar a lo más profundo, donde está el Michtlan, la región de los muertos, el sitio tenebroso acerca del cual tantas preguntas llegarán a plantearse los poetas y sabios de los tiempos aztecas»22.



La tradizione orale e la rappresentazione a base di «glifos», permetteva di trasmettere questa visione del mondo, la scienza del calendario, la storia, la poesia sacra e la prosa didattica e sentenziosa. Il metodo di memorizzazione e di trasmissione si fondava su scuole specializzate, in cui fin dall'età giovanile erano istruiti individui delle classi alte, prescelti per la loro particolare intelligenza: con un lungo esercizio memonico essi apprendevano i testi e divenivano esperti nell'interpretazione della pittografìa. Ne dà notizia il padre Tovar; nativo di Tezcoco e figlio di conquistatore egli fu uno dei primi a trasmettere in caratteri latini il tesoro culturale nahuatl e a spiegare come questo materiale veniva trasmesso nel mondo indigeno:

«Para tener memoria entera de las palabras y traza de los parlamentos que hacían los oradores, aunque los figuraban con caracteres, para conservarlos con las mismas palabras que los dijeron los oradores y poetas, había cada día ejercicio de ello en los colegios de los mozos principales, que habían de ser sucesores a éstos, y con la continua repetición se les quedaba en la memoria [...]»23.



Merito dei frati fu il salvataggio della cultura pre-ispanica attraverso la trascrizione delle relazioni orali e pittografiche, sia in lingua spagnola che in lingua «nahuatl», ma in caratteri latini, chiave per l'interpretazione dei codici scampati alle distruzioni del primo momento della conquista e dell'evangelizzazione. Con giustificato entusiasmo ne sottolinea i meriti Ángel María Garibay:

«No bien cesó el fragor de las armas, los misioneros y los hombres cultos que fueron llegando a esta tierra [Messico] iniciaron una investigación acerca de aquella cultura en todos sus aspectos. Y como hallaron abundante cantidad de textos en la lengua nativa, que fueron aprendiendo ellos, tuvieron la preocupación de rescatarlos de la memoria y salvarlos del naufragio por medio del alfabeto. Es verdaderamente asombrosa la suma de escritos en la lengua azteca que se allegaron y muchos de ellos han salvado las tormentas de los siglos y las incomprensiones o desdén de los hombres y los tenemos a nuestra disposición»24.



Il vescovo francescano Diego de Landa ha descritto fedelmente, nella sua Relación de las cosas de Yucatán, la struttura dei codici maya:

«[...] escribían sus libros en una hoja larga doblada con pliegues que se venía a cerrar toda entre dos tablas que hacían muy galanas, y [...] escribían de una parte y de otra a columnas, según eran los pliegues; y [...] este papel lo hacían de las raíces de un árbol y [...] le daban un lustre blanco en que se podía escribir bien, [...]»25.



Gli Aztechi utilizzavano soprattutto le foglie dell'agave, opportunamente trattate. Bernal Díaz del Castillo riferisce che, agli inizi della conquista del Messico, entrati in Cempoal, trovarono nei templi, tra le altre cose, anche libri: «hallamos las casas de los ídolos y sacrificaderos, y sangre derramada e inciensos con que sahumaban, y otras cosas de ídolos y de piedras con que sacrificaban, y pJumas de papagayos, y muchos libros de su papel, cogidos a dobleces como a manera de paños de Castilla [...]»26.

La parte più rilevante di quella che chiamiamo letteratura «nahuatl» è data dalla poesia ed è costituita da canti sacri, da canti epico-religiosi -per ¡ quali si è soliti fare riferimento come paragone ai Veda indiani- e da una serie di poesie liriche. Stretti legami esistono tra la poesia, il canto e la danza; il canto è l'espressione musicale del pensiero ed è importante come manifestazione di una collettività, ma anche spia circa la personalità dell'individuo e dei suoi problemi.

La poesia «nahuatl» ha caratteristiche di stile che il padre Garibay ha acutamente analizzato, tra esse il parallelismo, il «difrasismo», il ricorso al ritornello, la presenza di «palabras-broches», ossia parole come gioielli, di particolare spicco, che collegano uno svolgimento lirico con un altro, in due o più sezioni del medesimo componimento. Queste particolarità sono a volte tutte presenti in una stessa composizione e contribuiscono alla sua apparente oscurità, quella stessa che al padre Sahagún era parsa manifestazione demoniaca. Il francescano, infatti, aveva dapprima ritenuto che il demonio attraverso tali canti avesse piantato in Messico, «un bosque o arcabuco, lleno de muy espesas breñas, para hacer sus negocios desde él y para esconderse en él, para no ser hallado, como hacen las bestias fieras y las muy ponzoñosas serpientes [...] este bosque o arcabuco breñoso son los cantares»27. Affermava il frate che «se los canta sin poderse entender lo que en ellos se trata, más de que son naturales y acostumbrados a este lenguaje»28. Una sorta di linguaggio diabolico.

Non dimentichiamo l'ossessione francescana per il diavolo in terra d'America, il continente che Dio aveva permesso per tanti secoli restasse in potere del maligno. Motolinía nella sua Carta al Emperador Carlos V, accusatoria verso il padre Las Casas e celebrativa di Cortés, scriveva:

«Sepa V. M. que cuando el Marqués del Valle entró en esta tierra, Dios nuestro Señor era muy ofendido, y los hombres padescían muy cruelísimas muertes, y el demonio nuestro adversario era muy servido con las mayores idolatrías y homecidios más crueles que jamás fueron: [...]»29.



Presto, comunque, a proposito dei canti aztechi, il padre Bernardino de Sahagún dovette ricredersi, una volta scoperta la chiave degli stessi, allorché divenne più esperto nella lingua nahuatl. Del resto, il padre Diego Duran già aveva penetrato il mistero se, grande conoscitore della lingua, chiariva con acutezza che la demoniaca oscurità era solo apparenza, poiché una volta studiati i termini, intese le metafore, si rivelavano ammirevoli sentenze:

«[...] todos los cantares de éstos son compuestos por unas metáforas tan obscuras, que apenas hay quien las entienda, si muy de propósito no se estudian y platican, para entender el sentido de ellas. Yo me he puesto de propósito a escuchar con mucha atención lo que cantan, y entre las palabras y términos de la metáfora, y peréceme disparate, y después, platicado y conferido, son admirables sentencias»30.



La difficoltà di intendere non solo la scrittura pittografica, ma il significato di essa era indubbiamente grande per gli europei, ed è spiegabile il primo disorientamento, soprattutto di fronte a segni e disegni policromi dall'apparenza curiosa, immediatamente assimilati ad espressioni demoniache.

Nelle manifestazioni della poesia «nahuatl» esiste sempre un duplice significato, un fondo esoterico, che il Garibay -al quale sempre è necessario ricorrere per questa materia-, ha bene sottolineato. Varrà la pena di riprendere una delle sue pagine, nella Historia de la literatura nahuatl, dove, premesso che è «sumamente difícil y aventurado» cercare di fissare i significati che i poemi hanno, lo studioso ci offre, tuttavia, a modo di esempio, l'esame di un canto di guerra di Chalco, tratto dai Cantares Mexicanos, la prima e più grande raccolta della poesia «nahuatl», realizzata agli inizi della Colonia. Il breve quadro iniziale, del quale il Garibay presenta il testo originale e la traduzione spagnola -della quale ultima solamente noi faremo caso- dice:


«Junto al río brotaron las flores,
el cacomite y el girasol».



Spiega lo studioso:

«Pero el sentido esotérico es:


En la orilla del río de la sangre (=guerra)
se han adquirido las víctimas de los Caballeros Tigres,
las víctimas que alcanzan el escudo»31



E prosegue segnalando che nello stesso poema, poco più sotto, si legge: «Se entrelazan escudos de Águila, con banderas de Tigre», vale a dire: «Van unidos estrechamente los Servidores del Sol», e ancora più in profondità: «Reciben su culto el Sol y la Tierra»32.

Poco più avanti, il verso che recita «Rotas están las flechas, hechas añicos las navajas de obsidiana», ha per significato: «Ha cesado la guerra», e più precisamente: «Vencido está el enemigo»33.

Proseguendo ancora, scrive il Garibay:

«En el mismo plan de misterio podemos citar un paralelo del anterior fragmento:

A nadie duro, a nadie precioso hace el Autor de la vida: al Águila que va volando, al Tigre, corazón de la montaña: ¡también es esclavo, también va aquí!

El primer sentido que brota de la pura significación de las palabras, queda a la vista y no necesita exégesis; pero hay un segundo sentido: podremos glosar así la frase poética: «Nada queda exento de la ley del trabajo, aunque sea un ser precioso, aunque sea un ser robusto: el águila misma, que volando va; el tigre, que mora en las entrañas de los montes, también se someten a la ley del esclavo y van aquí». Lo cual no pasará de una interpretación más o menos feliz y sin mucha novedad. Hay un sentido más recóndito, sin embargo:

El sol, Águila que vuela, y la tierra, Tigre que es corazón de la montaña están sometidos a la ley de la acción dura y sin término como la del esclavo. Por la misma ley el caballero del sol Águila-Tigre- tiene que ir a la lucha incesante de la guerra»34.



Ma torniamo ai generi della poesia «nahuatl». Anzitutto la poesia epicoreligiosa: già abbiamo visto nel canto de «Los cinco Soles», come in esso si narri la creazione del mondo e dell'uomo; gli dèi sono esseri distanti, e potremmo dire imperfetti, se non raggiungono al primo atto il loro fine, quello di creare l'uomo, ma vi pervengono attraverso tentativi e distruzioni impietose. La stessa concezione troviamo nel Popol-Vuh, dei maya-quiché. Gli dèi sono, come nell'Olimpo, esseri spesso vendicativi e maligni. L'uomo è la vittima principale; in uno dei canti «nahuatl» la sua punizione è terribile, poiché gli dèi ne temono l'intelligenza, e la superbia:


«Pero al instante vienen los dioses a fijar allí la mirada,
la que tiene faldellín de estrellas, y el que brilla como estrella.
Dicen: -¡oh diosesi ¿Quién está quemando?, ¿Quién está ahumando el cielo?
   Baja, pues, el de Espejo Ardiente. Aquel cuyos esclavos somos,
los reprende, les dice: -Oh, Tata, ¿Qué es lo que haces?, ¿qué hacéis vosotros?
Al momento les corta el cuello,
y en su trasero les acomoda la cabeza:
con lo cual se transformaron en perros35.



Il fumo è certamente simbolo dell'intelligenza umana. Il timore degli dèi è sempre di aver creato esseri che possano rivaleggiare con loro per intelligenza. Nel Popol-Vuh, creato finalmente l'uomo, accortisi gli dèi creatori che egli conosce il passato, il presente e il futuro, si affrettano a limitarlo crudelmente:

«[...] Y echándole como vaho de la boca en los ojos aquel que era el corazón del cielo, se los empañó, así como se empaña el vidrio cuando le echan vaho; y así sólo pudo ver después aquello que estaba cerca y lo que estaba claro: y de este modo fue perdida la sabiduría que tenían aquellos cuatro hombres nuestros primeros padres cuando fueron creados por el corazón del cielo y de la tierra, [...]»36.



Nel Codice di Cuauhtitlan, là dove si narra della nascita del «Quinto Sol», vediamo come questa nascita del mondo avvenga tra rifiuti di responsabilità e imperativi degli dèi, finché il «lleno de llagas», Nanáhuatl, cui è imposto di sostenere il cielo e la terra, si immola nel fuoco e viene trasformato in Sole, un Sole che dapprima non dà segno di vita, ma che poi con la violenza è indotto al movimento, fino a dar luogo al giorno e alla notte:

«Y cuando el Sol se detuvo -el Sol de los Cuatro Movimientos- también era la hora en que llegaba la noche».



Il momento è misterioso, sacro e solenne. È quando ha luogo la «Restauración del género humano destruido». Perché vi sono anche dèi buoni, come Quetzalcóatl, dio riscattatore. Il mondo è terribilmente vuoto, gli dèi non hanno chi li veneri; essi si accorgono allora del loro errore: hanno distrutto l'uomo e ora chi abiterà la terra e chi li venererà? Decidono quindi di ripopolare il mondo.

Quetzalcóatl si assume l'impresa di riscattare il genere umano; egli scende, infatti, nel regno dei morti e, vinte le resistenze del signore della morte, riscatta le ossa preziose, di uomo e di donna, le porta nella terra della vita nascente, dove la dea madre, Quilaztli, colei che fa crescere le piante, macina le ossa umane e le pone, così tritate, in una bacinella. Allora il dio compie su di esse sacrificio e come lui lo compiono gli altri dèi; così nascono gli uomini, anche se il dio del mondo morto e gli altri dèi suoi ausiliari tentano in ogni modo di impedirlo:

«-¡Dioses, de veras se lleva Quetzalcóatl huesos preciosos! ¡Poned fosos en la tierra!

Al momento abren los fosos y en ellos cayó él y dio contra la paredes; salieron despavoridas las codornices y él quedó como amortecido en su caída. Todos los huesos rodaron por tierra y las codornices comenzaron a mordisquearlos y a roerlos.

Quetzalcóatl volvió en sí y se puso a llorar. Dijo entonces a su doble: ¡Mi doble! ¿Cómo será esto? ¿Cómo será? ¡Sea como fuere, cierto que así será!

Se puso a juntar los huesos, los fue recogiendo del suelo, hizo de nuevo su lío.

Luego los llevó a Tamoanchan [terra della vita nascente], y cuando allá hubo llegado, la que fomenta las plantas [Quilaztli], que es la misma Cihuacóatl, los remolió y los puso en rico lebrillo y sobre ellos Quetzalcóatl se sangró el miembro viril, tras el baño en agua caliente que la diosa le había dado.

Y todos aquellos dioses que arriba se mencionaron hicieron igual forma de autosacrificio.- El dios de las riberas del mar, el que mueve la azada de labranza, el que sale en lugar de otros, el que da consistencia al mundo, el que baja de cabeza [Tzontémoc], y en sexto lugar, el mismo Quetzalcóatl.

Dijeron entonces los dioses:

-¡Dioses nacieron: son los hombres!

Y es que por nosotros hicieron ellos merecimientos».



La restaurazione del genere umano consacra la figura di Quetzalcóatl dio della vita. Buon gioco avranno i missionari nell 'inserire sulla sua figura quella del Cristo. In Quetzalcóatl gli aztechi vedranno sempre una divinità protettrice, in certo modo materna, contro la crudeltà inesplicabile degli dèi.

Creata la coppia progenitrice, occorreva trovare per gli uomini il sostentamento; sarà sempre Quetzalcóatl che ne andrà alla ricerca, osteggiato di continuo da altre divinità, ma aiutato dagli dèi della terra e della pioggia, una fantasmagorica compagine che nel poema appare, potremmo dire, come una esaltante policromia della felicità; e il dio riesce nel suo intento:

«Pero llegaron todos los dioses de tierra y lluvia [Tlaloque]:

Dioses azules, cual cielo; dioses blancos; dioses amarillos; dioses rojos.

Hicieron un montón de tierra. Y se llevaron los dioses de la tierra y de la lluvia, todos los sustentos: maíz blanco, maíz amarillo, la caña de maíz verde; maíz negruzco, y el frijol, los bledos, la chía, la chicalota... ¡Todo lo que es sustento nuestro fue arrebatado por los dioses de la lluvia!».



Senonché interviene un «Juego de pelota funesto»: Huémac, il «Signore del Paese dei Morti», gioca e vince con gli dèi della terra e della pioggia e rifiuta, per la giada e le piume poste in palio, le «mazorcas tiernas de maíz», «mazorcas con verde hoja, con lo que dentro contienen», provocando l'ira delle divinità e una carestia di quattro anni:

«Dijeron los dioses: -Bien, dadle jades; dadle plumas.

Y tomaron sus dones y se fueron llevando sus tesoros.

Y en el camino decían: -Por cuatro años escondamos nuestras joyas: hambre y angustia han de sufrir.

Y cayó hielo tan alto que a la rodilla llegaba; se perdieron los sustentos y en pleno estío cayó hielo. Y tal era el ardor del sol que todo quedó seco: árboles, cactos, ágaves, y aun las piedras se partían estallando ante el reverbero del sol».



Quando l'ira degli dèi ha fine, ecco il miracolo della «Restitución bondadosa». È la rinascita dell'uomo e del mondo: dall'acqua sorge di nuovo la vita. Il fatto miracoloso avviene nella laguna di Chapultepec. Ora il tono del canto si fa di nuovo ampio e solenne:

Pasados los cuatro años de que el hambre reinaba en ellos, allá por el Cerro de las langostas [Chapultepec], aparecieron los dioses de la lluvia. Allí donde el agua se extiende. Y en el agua fue subiendo una mazorca tierna: el sustento.

Un tolteca que estaba allí, cuando vio aquella mazorca con ardor se abalanzó a ella y la tomó y comenzó a morderla.

Sale del agua el dios que da las provisiones [Tláloc], y le dice:

-¿Sabes tú qué es eso?

-¡Bien que lo sé, oh dios mío, pero ha tanto tiempo que lo perdimos!

-Siéntate y espera allí: voy a hablar yo con el rey.

Se hundió en el agua y a poco del agua emergió trayendo una brazada de mazorcas tiernas. Y dijo:

-Anda, hombre: tómalas y ve y se las das a Huémac».



Grande è, insomma, la bontà degli dèi. L'uomo sembra tornare ad essere loro principale preoccupazione. Ma tutto è dovuto a Quetzalcóatl. Il padre Garibay scrive che la figura del dio spicca tra quante sono presenti nella storia e nella poesia «nahuatl»: al tempo stesso: «Dios y héroe, rey de carne y hueso, o finción de la fantasía, acumula en su persona inasible todo lo que sirve a una literatura naciente para conquistar la atención y aun arrebatar el asombro»37. Ma non è solo questo: Quetzalcóatl è colui che salva dal senso di orfanezza tutto un mondo. La sua figura riempie, oltre al campo epico-religioso, quello dell'epica storica. Eroe infelice e solo, egli va alla ricerca di se stesso nei regni tenebrosi, insidiato dalle tentazioni, dai maghi, insidiato dagli dèi che lo trasformano in essere umano, offeso e posto in fuga e infine vinto; col proprio sacrificio egli riuscirà a sfuggire alla sua perdita, per tornare ad essere dio, ma un dio di grande umanità, che con la propria autodistruzione si trasfigura e assurge al cielo, dove sta, fisso per sempre, nella splendente stella del mattino.

Il racconto del suo peregrinare è proprio dell'eroe infelice ed umano; la sua peregrinazione avviene nei luoghi della meraviglia e del sacro; come il predestinato egli riceve l'omaggio degli uccelli del cielo; da ogni parte il poema si arricchisce di colori, come apoteosi del suo sacrificio, che compie per il riscatto, non solo di se stesso, ma di tutta l'umanità:


   Cuando llegó a la orilla del mar divino,
al borde del luminoso océano, se detuvo y lloró.
Tomó sus aderezos y se los fue metiendo:
su atavío de plumas de quetzal, su máscara de turquesa.
Y cuando estuvo aderezado, él, por sí mismo, se prendió fuego,
y se encendió en llamas. Por esta razón se llama
el Quemadero, donde fue a arder Quetzalcóatl.
Y es fama que cuando ardió, y se alzaron ya sus cenizas,
también se dejaron ver y vinieron a contemplarlo
todas las aves de bello plumaje que se elevan y ven el cielo:
la guacamaya de rojas plumas, el azulejo, el tordo fino,
el luciente pájaro blanco, los loros y los papagayos
de amarillo plumaje y, en suma, toda ave de rica pluma.



Compiuto il sacrificio di se stesso, il cuore di Quetzalcóatl ascende al cielo, per stabilirsi in esso come stella di luce imperitura nei confini dell'alba, non prima di essere rimasto quattro giorni nel regno della Morte:


Cuando cesaron de arder sus cenizas,
ya a la altura sube el corazón de Quetzalcóatl.
Lo miran y, según dicen, fue a ser llevado al cielo,
y en él entró. Los viejos dicen que se mudó en lucero del alba,
el que aparece cuando la aurora. Vino entonces,
apareció entonces, cuando la muerte de Quetzalcóatl.
Ésta es la causa de que lo llamen: «El que domina en la Aurora».
Y dicen más: que cuando su muerte, por cuatro días sólo
no fue visto, fue cuando al Reino de la Muerte fue a vivir,
y en esos cuatro días adquirió dardos, y ocho días más tarde
vino a aparecer como magna estrella. Y es fama que hasta entonces
se instaló para reinar38.



La poesia permea la leggenda, la realtà diviene mito, domina la bellezza del canto, ricco di cromatismi raffinati, in un paesaggio di acque, di uccelli variopinti e di piante. Scrive Laurette Séjourné a proposito della vicenda di Quetzalcóatl:

«Es este mismo ¡tinerario el que sigue el alma: desciende de su morada celeste, entra en la oscuridad de la materia para elevarse de nuevo, gloriosa, en el momento de la disolución del cuerpo. El mito de Quetzalcóatl no significa otra cosa. La pureza absoluta del rey se refiere a su estado de planeta, cuando no es todavía más que luz. Sus pecados y sus remordimientos corresponden al fenómeno de la toma de conciencia de la condición humana; su abandono de las cosas de este mundo y la hoguera fatal que construye con sus propias manos señalan los preceptos a seguir para que la existencia no sea perdida: alcanzar la unidad eterna por el desprendimiento y el sacrificio del yo transitorio»39.



Un mondo regno della fantasia, ma anche della riflessione, nel quale il canto nahuatl celebra le origini dei propri dèi, tra essi Huitzilopochtli, il sole, il «Dador de la Vida», ma anche sanguinario dio della guerra; eleva canti alla «madre de los dioses», agli dèi positivi e a quelli negativi.

Il dio principale degli aztechi, Huitzilopochtli, era, come scrive il Garibay, «un dios celestial, como su misma veste azul lo revela, un precioso colibrí que va por el espacio derramando luz y vida. Un dios solar, hecho humano para la comprensión de los macehuales imperitos, y en el cual acumulaban los sabios de Anáhuac muchos complejos religiosos»40. Dal canto che ne riferisce la nascita, nel Codice fiorentino, egli appare come una divinità invincibile. La sua nascita avviene per effetto di magia: non gli si conosce padre e si genera nel seno di Coatlicue -la Terra-, madre già dei «cuatrocientos Surianos», a Coatepec, «por el rumbo de Tula», per mezzo di un «plumaje» -raggio del Sole-, che scende sulla donna e che questa ripone nel suo seno:


Cuando terminó de barrer,
buscó la pluma, que había colocado en su seno,
pero nada vio allí.
En ese momento Coatlicue quedó encinta.



È la sorella di Coatlicue che incita i quattrocento Surianos a uccidere la madre che, per essere improvvisamente incinta, li ha disonorati; ma Huitzilopochtli, valendosi delle informazioni di un «collaborazionista», pur non ancora nato è attento alle mosse dei nemici e quando essi sono ormai vicini viene alla vita:


En ese momento nació Huitzilipochtli,
se vistió sus atavíos,
su escudo de plumas de águila,
sus dardos, su lanza-dardos azul,
el llamado lanza-dardos de turquesa.
Se pintó su rostro
con franjas diagonales,
con el color llamado «pintura de niño».
Sobre su cabeza colocó plumas finas,
se puso sus orejeras.
Y uno de sus pies, el izquierdo era enjuto,
llevaba una sandalia cubierta de plumas
y sus dos piernas y sus dos brazos
los llevaba puntados de azul.



Quindi, posto fuoco al serpente piumato, che è al suo servizio, con esso colpisce e fa a pezzi l'istigatrice Coyolxauhqui e insegue, uccidendoli senza pietà, i quattrocento Surianos:



Huitzilopochtli los acosó, los ahuyentó,
los destruyó, los aniquiló, los anonadó.
Y ni entonces los dejó,
continuaba persiguiéndolos.
Pero ellos mucho le rogaban, le decían:
-«¡Basta ya!»

Pero Huitzilipochtli no se contentó con esto,
con fuerza se ensañaba contra ellos,
los perseguía.
Sólo unos cuantos pudieron escapar de su presencia,
pudieron librarse de sus manos.
Se dirigieron hacia el sur,
porque se dirigieron hacia el sur
se llaman Surianos,
los pocos que escaparon
de las manos de Huitzilipochtli.

[...]

Y este Huitzilopochtli, según se decía,
era un portento,
porque con sólo una pluma fina,
que cayó en el vientre de su madre, Coatlicue,
fue concebido.
Nadie apareció jamás como su padre.
A él lo veneraban los mexicas,
le hacían sacrificios,
lo honraban y servían.
Y Huitzilipochtli recompensaba a quien así obraba.
Y su culto fue tomado de allí,
de Coatepec, la montaña de la serpiente,
como se practicaba desde los tiempos más antiguos.



Il Garibay chiarisce il significato simbolico del canto:

«Deshagamos el simbolismo -scrive-: es el diario misterio de la vida cósmica. Llegada la hora del día nuevo, de la tierra, gravida del sol, nace éste y encumbra las montañas. Viene con el escudo humeante [...] de su incipiente luz. Pero basta: apenas alza su escudo, la luna huye y huyen las estrellas. Decapitada queda Coyolxauhqui, destruidos los Mimixcoa. La tierra misma se estremece ante el nacimiento de su hijo. Más que espanto, es alegría la causa de sus temblores. ¡No hay guerrero semejante al sol en la gallarda virilidad! [...]41,



Un simile dio, fin dall'inizio vittorioso, doveva essere idoneo incitamento alla guerra. Ma al dio si elevava il canto anche quale «dador de la vida»; lo si considerava, infatti, colui «por quien todo vive», colui che segna il destino dell'uomo. Gli rendono onore i principi con i loro canti, in un paesaggio esaltante, impetrandone la gloria:



   Con variadas flores engalanado
está enhiesto tu tambor, ¡Oh por quien todo vive!
con flores, con frescuras
te dan placer los príncipes.
Un breve instante en esta forma
es la mansión de las flores del canto.

   Las bellas flores del maíz tostado
están abriendo allí sus corolas:
hace estrépito, gorjea
el pájaro sonaja de quetzal,
del que hace vivir todo:
flores de oro están abriendo su corola.
Un breve instante en esta forma
es la mansión de las flores del canto.



La meraviglia del canto produce il miracolo, ma è un momento breve; il cantore invoca l'intervento del dio:



   Con colores de ave dorada,
de rojinegra y de roja luciente
matizas tú tus cantos:
con plumas de quetzal ennobleces
a tus amigos águilas y tigres:
los haces valerosos.

   ¿Quién la piedad ha de alcanzar arriba
en donde se hace uno noble, donde se logra gloria?
A tus amigos, águilas y tigres:
los haces valerosos.



È come dire: la voce del Signore trasforma il mondo e gli uomini, li rende invincibili; l'anima nostra contempla il Signore e lo canta, per averne forza, una forza che conquisti, con imprese egregie, l'ambita dimora, quel mondo meraviglioso celebrato in «Un recuerdo del Tlalocan, paraíso de Tláloc», il Paradiso Terrestre, di cui Tláloc è Signore. Da lì viene la poesia, vengono i bei canti che inebriano, dal centro del cielo, dove sta felice il dio, «aquel por quien se vive», che lì si diletta e impera:



   Cuenca de espadañas es la casa del dios:
el precioso tordo canta, el rojo tordo como luz,
sobre el templo de esmeralda canta y gorjea,
y con él, el ave quetzal.

   En donde está el agua floreciente,
entre flores de esmeralda,
preciosa flor de perfume se perfecciona,
y el ave de negro y oro entre flores se entrelaza,
va y viene sobre ellas.
Dentro canta, dentro grita
tan sólo el ave quetzal.



La contemplazione del cielo, l'inno agli dèi, cui si deve la vita, non fa che porre in rilievo il limite della nostra miseria, la coscienza di essere creature insignificanti, destinate a scomparire per volere di coloro dei quali «esclavos somos». Un radicato senso di transito domina gran parte della poesia «nahuatl», dandole un tono di grande drammaticità e comunicandole un'attrazione singolare. L'uomo vive sotto l'incubo, si direbbe, della divinità, cosciente che essa, da un momento all'altro può distruggerlo. Ad essa il poeta, interprete del dramma umano, offre i suoi fiori-poesia, prodotto che, secondo Alcina Franch42, è esso stesso un rifugio, nel transito costante della creatura sulla terra. C 'è un meraviglioso luogo nel cielo, dice un poema di Tlaxcala43, dove regna la felicità e la vita; questo è il miraggio, non la certezza:



Dicen que sólo dentro del cielo es lugar de dicha,
    que allí es donde se vive y donde se alegra uno,
    que allí está presto el atabal,
    que allí se tiende el canto, con que se disipa
    nuestra tristeza, nuestro llanto.



In un poema di Tenochtitlan44, si elevano canti al dio solare, in un misto di desiderio di morte o di impetrato prolungamento della vita:


Yo doy placer a tu corazón, oh Dador de la vida,
    te ofrezco flores, te ofrezco cantos.
    ¡Que aun por tiempo breve pueda complacerte:
    alguna vez habrás de hastiarte,
    cuando tú me destruyas, y cuando muera yo!



Un altro poema tratta di un «Gozo efímero», denuncia crudamente la brevità dell'esistere -«Sólo por breve tiempo en la tierra vivimos:»- e paventa la «región del Misterio», luogo dove forse non esiste gioia, né amicizia. La coscienza dolente di essere stati posti sulla terra dagli dèi solo per servirli e onorarli, accomuna il mondo nahuatl e quello maya-quiché. La Morte domina sovrana nel mondo messicano e meso-americano. Convinto di essere venuto al mondo solo per un compito fugace, l'uomo si aggrappa all'amicizia come unica àncora possibile. Vi è un continuo rimpianto per il bene fuggitivo di esistere sulla terra, un'angoscia palpitante, un chiedersi perché si è nati se si deve morire, se almeno rimarrà un ricordo sulla terra, nella poesia:


¿Conque he de irme, cual flores que fenecen?
¿Nada será mi corazón alguna vez?
¿Nada dejaré en pos de mí en la tierra?
¡Almenos flores, almenos cantos!
¿Cómo ha de obrar mi corazón?
¿Acaso él en vano vino a vivir, brotar sobre la tierra?



L'anonimo versificatore di Borges, nella lirica dedicata «A un poeta menor de la Antología»45, aveva avuto almeno la sorte felice di permanere per una sola composizione: «de ti sólo sabemos, oscuro amigo, / que oíste el ruiseñor, una tarde». Nel canto nahuatl non vi è neppure questa speranza. In ogni verso cogliamo il senso della fine: nell'angosciosa domanda: «¿Es verdad, es verdad que se vive en la tierra? - «Vida falaz»-; nella coscienza che «tenemos que dejar esta tierra: estamos prestados unos a otros» -«Dolor del canto»-; nel trepido interrogarsi: «¿He de irme como las flores que perecieron? -“He de irme...”»-; nello smarrimento circa la vita da seguire per un aldilà di cui non v'è certezza «Hay algo más allá de la muerte»-; nella convinzione di essere venuti solo a morire sulla terra:


Yo por mi parte digo:
   ¡ay, sólo un breve instante!
¡Sólo cual la magnolia abrimos los pétalos!
¡Sólo hemos venido, amigos, a marchitarnos
en esta tierra.



La visione del mondo felice dopo la mone è forzata; neppure la contemplazione del Dador de la Vida può consolare l'essere creato, smarrito nel deserto del dubbio, angosciato dal senso della fine. Unica consolazione è la poesia, sono gli amici, e il forgiarsi mondi meravigliosi, dove regnano gli dèi nella loro intatta felicità:


Buscan los cantores para el sol flores de brotes,
se esparce el rojo elote:
sobre las flores parlotean, se deleitan y hacen felices a los hombres.
Sobre las juncias de Chalco, casa del Dios,
el precioso tordo gorjea, el tordo, rojo cual el fuego,
sobre la pirámide de esmeraldas canta y parlotea el ave quetzal.
Donde el agua de flores se extiende,
la fragante belleza de la flor se refina con negras, verdecientes
flores, y se entrelaza, se entreteje,
dentro de ellas cantan, dentro de ellas gorjea el ave quetzal.



L'infelicità sulla terra, la sofferenza, l'insicurezza dell'aldilà spingono verso la morte: «Si tanto sufrimos, muramos; ¡ojalá fuera!» Un popolo indubbiamente triste quello del Sole. Il re-poeta Nezahualcóyotl di Tezcoco (1402-1472), uno dei «tolmatinime», vale a dire «de los que saben algo», come li definisce il León-Portilla, uno dei saggi che meditano e discorrono intorno agli antichi enigmi dell'uomo sulla terra, dell'aldilà e delle divinità, presenta accenti non diversi: il re-poeta lamenta anch'egli l'abbandono dell'uomo, manifesta la sua tristezza di non essere ancora là dove «de algún modo se existe». Nezahualcóyotl è un credente; davanti al Dador de la vida egli si umilia, ripudia la sua presunzione umana e riconosce che egli fa piovere sulla creatura realtà preziose e che, in sostanza, la felicità è condizione esclusiva del dio e pretenderla è «vana sabiduría».

Accenti simili innalza Tlaltecatzin, di Cuauhchinanco, poeta del secolo XIV riesumato dal León-Portilla. Colpisce nei versi iniziali del canto dedicato a una «alegradora» -donna del piacere, venuta a rallegrare i principi-, un'apparente prossimità alla Bibbia, ma la nota autoctona dissolve la prima impressione. Infatti, se l'inizio del canto è un inno al Dio -«En la soledad yo canto / a aquel que es mi Dios»-, la descrizione del luogo riflette un mondo certamente indigeno:


En el lugar de la luz y el calor,
en el lugar del mando,
el florido cacao está espumoso,
la bebida que con flores embriaga.



Quasi immediatamente l'inno alla donna del piacere si trasforma in compianto per l'essere umano sfruttato e offeso:


Aquí tú has venido,
frente a los príncipes.
Tú, maravillosa criatura,
invitas al placer.
Sobre la estera de plumas amarillas y azules
aquí estás erguida.
Preciosa flor de maíz tostado,
sólo te prestas,
serás abandonada,
tendrás que irte,
quedarás descarnada...



Prezioso apporto dì poesìa a un capitale erotico pervenutoci avaro, per il comprensibile ripudio dei frati che ci trasmisero la poesia nahuatl, probabilmente, più che per l'esiguità del prodotto in sé. Ben più prezioso il poema di Tlaltecatzin per il senso del disinganno di fronte alle possibilità del piacere. Il re ha di fronte varie possibilità, ma lo distoglie da esse il senso del proprio limite, che gli stessi oggetti preziosi, le bevande e i cibi raffinati, la ricchezza delle suppellettili che lo circondano sottolineano efficacemente; così che il principe cantore finisce per esprimere non il piacere, ma il dolore per l'inevitabile partenza, l'umana paura per il «Descarnadero» che lo attende e la speranza che ciò avvenga senza violenza:



El floreciente cacao
ya tiene espuma,
se repartió la flor del tabaco.
Si mi corazón lo gustara,
mi vida se embriagaría.
Cada uno está aquí,
sobre la tierra,
vosotros señores, mis príncipes,
si mi corazón lo gustara,
se embriagaría.

Yo sólo me aflijo,
digo:
que no vaya yo
al lugar del descarnadero.
Mi vida es cosa preciosa.
Yo sólo soy,
yo soy un cantor,
de oro son las flores que tengo.
Ya tengo que abandonarlas,
sólo contemplo mi casa,
en hilera se quedan las flores.
¿Tal vez grandes jades,
extendidos plumajes
son acaso mi precio?
Sólo tendré que marcharme,
alguna vez será,
yo sólo me voy,
iré a perderme.
A mí mismo me abandono,
¡Ah, mi Dios!

[...]

Yo sólo así habré de irme,
con flores cubierto mi corazón.
Se destruirán los plumajes de quetzal,
los jades preciosos
que fueron labrados con arte.
¡En ninguna parte está su modelo
sobre la tierra!
Que sea así,
y que sea sin violencia.



Nella prospettiva funebre che domina il mondo nahuatl, si è detto, unico punto fermo sembra essere l'amicizia. Cuacuahtzin, di Tepechpan, poeta vissuto verso la metà del secolo Xy canta l'amicizia tradita. In un continuo presentimento di morte, lo assale il dubbio intorno alla vanità del suo agire: «Sólo trabajo en vano». Perciò egli si afferra alla prospettiva di un rimpianto che lasci la sua scomparsa, così che muti il suo destino.

Il successore di Nezahualcóyotl, il figlio Nezahualpilli (1464-1515), canta invece la morte infelice degli amici in guerra, con accenti per essa di condanna, e Cacamaltzin di Tezcoco (1494-1520), ricordando i re citati, esprime inquietudine per l'aldilà, per ciò che attende oltre la morte, allorché l'uomo avrà raggiunto «el lugar de los atabales».

Nei poeti di México-Tenochtitlan si fa triste il senso del transito umano sulla terra. Tochihuitzin Coyolchiuhqui, signore di Teotlatzinco (fine s. XIV-metà s. XV), fu un noto «cuicapicque» o «forgiatore di canti». Nella sua poesia egli afferma una concezione della vita come sogno breve, dal quale improvviso è il risveglio nella finitezza, in cui si coglie la sterilità della vita. Un senso desolato dell'inutilità dell'esistenza si fa largo nel canto, che contempla prospettive di procreazione votate alla morte. Neppure l'amore è sufficiente a conservare la vita:


De pronto salimos del sueño,
sólo vinimos a soñar,
no es cierto, no es cierto,
que vinimos a vivir sobre la tierra.
Como yerba en primavera
es nuestro ser.
Nuestro corazón hace nacer, germinan
flores de nuestra carne.
Algunas abren sus corolas,
luego se secan.
Así lo ha dicho Tochihuitzin.



Il signore di Tenochtitlan, Axayacatl (1449-1481), è autore di un canto che al lettore esperto di lettere ispaniche richiama la lunga serie delle finitezze umane cantate da Jorge Manrique nelle Coplas per la morte del padre. Una incidenza singolare all'altro lato dell'oceano.

Nel poeta dell'antico Messico, tuttavia, non vi è consolatone per la parenza degli esseri amati, bensì tormento, senso di diffusa orfanezza:


Continúa la partida de la gente,
todos se van.
Los príncipes, los señores, los nobles
nos dejaron guérfanos.
¡Sentid tristeza, oh vosotros señores!
¿Acaso vuelve alguien,
acaso alguien regresa
de la región de los descarnados?
¿Vendrán a hacernos saber algo
Motecuhzoma, Nezahualcóyotl, Totoquihuatzin?
Nos dejaron huérfanos,
¡sentid tristeza, oh vosotros señores!
¿Por dónde anda mi corazón?
Yo Axayacatl, los busco,
nos abandonó Tezozomoctli,
por eso yo a solas doy salida a mi pena...



L'elegia prospetta tempi amari, la sconfitta nella guerra contro i signori di Michoacán. Tale sconfitta il poeta la piangerà nel «Canto de los ancianos» come fine del suo popolo. Intorno egli non vede ormai più gente virile ma giovani effeminati votati al disastro. Come Cervantes nella Numancia, il poeta richiama, duro contrasto, il valore delle passate generazioni, i tempi eroici dei quali egli si sente un sopravvissuto.

Né mancano poetesse, come Macuilxochitzin, figlia del potente Tlacaél vissuto verso la metà del s. XV, periodo aureo del mondo azteco.

Temilotzin, di Tlatelolco (fine s. XV-1525), valoroso difensore di Tenochtitlan contro gli invasori spagnoli e compagno di Cuauhtémoc nel momento della resa a Cortés, canta l'amicizia, come la canta Tecayehuitzin di Xuexotzinco (seconda metà del s. XV- inizi s. XVI), uno dei più celebrati «tlamatinime» della regione poblano-tlaxcalteca, celebratore anche della primavera, degli ornamenti felici della vita, del significato e del valore dell'artee della poesia ma pure cantore della condanna umana alla morte.

La terra è cantata da Ayocuan Cuetzpaltin, saggio di Tecamachalco (seconda metà s. XV- inizi s. XVI), come la «regione del momento fugace»; contro questa triste certezza egli celebra l'amicizia.

Vicohténcatl, il Vecchio, signore di Tizatlan (1425-1522), alleato di Cortés alla sua venuta, cantò la «guerra florida», mentre Chichicuepon, di Claco, canta i temi della guerra e l'incognita dell'aldilà.

Non sono questi i soli poeti dell area nahuatl: altri numerosi ve ne furono, uomini e donne, ma di essi scarse sono giunte a noi le notizie, impreciso il ricordo.

Nel manoscritto dei Cantares Mexicanos una ragguardevole sezione è occupata dai canti antichi degli «otomíes», trascritti in lingua nahuatl. Benché i messicani ritenessero questo popolo rozzo e poco intelligente, il canzoniere rivela un senso straordinario della poesia e una problematica non meno inquieta di quella del mondo azteca. In genere si tratta di composizioni brevi, sintetiche, come la seguente:


Ayer florecía.
Hoy se marchita.



Spesso il verso otomi tratta problemi al centro dell'inquietudine umana, talvolta con immagini che richiamano, a noi europei, Eraclito:


El río pasa, pasa
y nunca cesa.
El viento pasa, pasa
y nunca cesa.
La vida pasa:
nunca regresa.



Poemi di maggior estensione sono prodotto mexica-otomí: essi trattano del canto, celebrano i principi e i guerrieri, presentano con frequenza immagini delicate, metafore splendenti.

Tutto questo mondo di complessa spiritualità fu travolto dalla conquista. Dice un canto, certamente di epoca immediatamente successiva alla caduta di Tenochtitlan:


... Todo esto pasó con nosotros. Nosotros lo vimos,
nosotros los admiramos.
Con suerte lamentosa nos vimos angustiados.
En los caminos yacen dardos rotos,
los cabellos están esparcidos.
Destechadas están las casas,
enrojecidos tienen sus muros.
Gusanos pululan por calles y plazas,
y en las paredes están salpicados los sesos.
Rojas están las aguas, están como teñidas,
y cuando las bebimos, es como si hubiéramos bebido
      agua de salitre.
Golpeábamos, en tanto, los muros de adobe,
y era nuestra herencia una red de agujeros.
[...]





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