Selecciona una palabra y presiona la tecla d para obtener su definición.
Indice


Abajo

L'Asia tra Spagna e Ispanoamerica: secoli XV-XIX

Giuseppe Bellini





  —3→  

1 -Nella poesia ispano-americana l'Asia è stata presente, fin dalle sue origini, in autori della prima epoca coloniale. La suggestione veniva dalla Spagna, e in genere dall'Europa, soprattutto mediterranea, dove viva era stata sempre la curiosità per le cose asiatiche, fin dai tempi di Marco Polo, che col Milione aveva, contribuito non poco alla diffusione del meraviglioso. Basterà ricordare, tra i molti passi suggestivi, la descrizione della «Gran China», un'estensione immensa, giorni e giorni di cammino, paraggi insicuri per la presenza di «molti rei uomini che rubano», ma in prospettiva «bella riviera».

«e quivi hae francolini, pappagalli e altri uccelli divisati da' nostri. Passate due giornate è lo mare oceano, e in sulla riva è una città con porto c'ha nome Cormos. E quivi vengono d'India per navi tutte ispezierie e drappi d'oro e leofanti e altre mercatanzie assai; e quindi le portano i mercatanti per tutto il mondo. Questa è terra di grande mercatanzia: sotto di sé ha castella e cittadi assai, perché ella è capo della provincia. [...]»1.



O la descrizione dell'isola di Zipagu, il Giappone, straordinariamente abbondante d'oro:

«Zipagu èe una isola in levante, ch'è nell'alto mare mille cinquecento miglia. L'isola è molto grande, le genti sono bianche, di bella maniera e belle; e la gente è idola, e non ricevono signoria da neuno, se no' da loro medesimi. Qui si truova l'oro, però n'hanno assai, niuno uomo non vi va, e niuno mercatante non leva di questo oro, perciò n'hanno egliono cotanto. E il palagio del signore dell'isola èe molto grande, ed è coperto d'oro, come si cuoprono di qua le chiese di piombo. E tutto lo spazzo delle camere è coperto d'oro, ed èwi alto ben due dita; e tutte le finestre e mura e ogni cosa e anche le sale sono coperte d'oro; e non si potrebbe dire la sua valuta. Egli hanno perle assai, e sono rosse e tonde e   —4→   grosse, e sono più care che le bianche [...] e non si potrebbe contare la ricchezza di questa isola [...]»2.



Sembra di leggere una pagina del Diario di Cristoforo Colombo, assistere al sorgere del mito americano dell'El Dorado o della Città dei Cesari.

Ma l'Oriente era di casa nel Mediterraneo. Venezia e Genova si erano incaricate, dai tempi dell'Impero di Bisanzio, di renderlo concreto, con i loro traffici e la presenza materiale in Grecia, nel Dodecanneso, a Cipro, in Siria, sulle coste della Turchia, soprattutto a Costantinopoli, ma anche a Trebisonda, sul Mar Nero, una delle tappe d'obbligo sulla Via della seta.

La Spagna, più lontana e più chiusa, quindi, nei confronti del mondo asiatico, ci offre, nel secolo Xy la storia diaristica de La embajada a Tamorlán, redatta, a quanto sembra, da Ruy González de Clavijo, «Camarero» del re Enrico III di Castiglia, «El Doliente». È il primo scritto che si conosca, in cui l'Asia fa la sua comparsa.

La missione di Clavijo, partito con frate Alonso Páez de Santa Maria, «Maestro en Santa Teología», e Gómez de Salazar, guardia del re, era, in realtà, la seconda inviata dal re di Castiglia. Essa si compiva come una restituzione di cortesia a Tamurbec, ossia a Tamerlano, che aveva inviato precedentemente lettere e doni al sovrano di Castiglia, per mezzo di un suo ambasciatore, Mohamad Alcagi, ora accompagnatore, al ritorno, dell'ambasciata castigliana.

Tra i doni che Alcagi aveva recato al sovrano figuravano addirittura alcune belle prede della guerra contro il turco Bayazet, sconfìtto da Tamerlano, nel 1402, nella battaglia di Agora: «dos damas hermanas -informa Gonzalo Argo te de Molina, editore del testo, nel 1582, a Siviglia-, ganadas del despojo de la batalla del Turco, que en Castilla se llamaron Doña Angelina de Grecia y Doña María Gómez»3, una volta maritate.

A Doña Angelina dedicava suoi versi Micer Francisco Imperiai celebrandone la bellezza e li riprendeva nella sua edizione del testo Argote de Molina:


Gran sosiego y mansedumbre,
hermosura y dulce aire,
honestad y sin costumbre
de apostura y mal vexaire,
de las partidas del Cayre
vi traer al Rey de España
con altura muy extraña
delicada y buen donaire.
—5→
Ora sea Tartara o Griega,
en cuanto la pude ver,
su disposición no niega
grandioso nombre ser,
que debe sin duda ser
mujer de alta nación,
puesta en gran tribulación,
depuesta de gran poder.
[...]



Il poeta si fa partecipe, poi della triste situazione della donna, lontana dalla patria e dai suoi.

Tornando all'ambasciata di Ruy González de Clavijo, essa si realizzò tra il 1403 e il 1406. La spedizione partì dal porto di Santa María, presso Cadice, il 21 maggio 1403 e giunse alla fine a Samarcanda, da dove fece ritorno a San Lúcar, e di qui si diresse ad Alcalá de Henares, dove stava in quel momento la corte. «Laus Deo» scrive il Clavijo alla fine del suo scritto, e giustificatamente doveva essere felice, il viaggiatore, di aver rimesso piede sulla terra patria, dopo tante avventure e pericoli.

Pur nel ritmo faticoso della sua prosa La Embajada a Tamorlán ha un suo incanto; vi compaiono paesaggi influenzati sicuramente dalle letture bibliche e classiche, precorrendo altri simili che la cronachistica delle Indie ci riproporrà abbondanti. Si veda l'allusione all'Eufrate, interpretato come «uno de los ríos que salen del Paraíso» (ivi, p. 117); Colombo dirà la stessa cosa dell'Orinoco.

Nel diario dell'ambasciatore castigliano compaiono anche riferimenti alle Amazzoni: a quindici «jornadas» da Samarcanda, «hacia la tierra del Catay, hay una tierra donde fueron las Amazonas», che ancora hanno per costume di «no tener hombre consigo», ma si accoppiano solo per avere femmine, mentre i maschi li lasciano ai loro padri occasionali4.

In America il mito, come sappiamo, era destinato a rinverdire. Colombo individuerà la residenza delle donne guerriere in un'isola dei Caraibi; più tardi la sede sarà spostata, dalla fantasia, nel Nuovo Mondo, posta sulle rive del gran fiume brasiliano poi chiamato delle Amazzoni.

Il viaggio di Clavijo e dei suoi compagni si svolge, sappiamo da lui, attraverso molte difficoltà, ma il ritorno è assai rapido: poche pagine nel testo sono dedicate alle peripezie da Samarcanda alla Spagna, che pure furono molte. Ciò che qui interessa sottolineare, tuttavia, è l'immagine esaltante dell'Asia che si diffonde attraverso le sue pagine, con paragoni continui, come faranno i cronisti   —6→   delle Indie, con la realtà ispanica. Samarcanda, ad esempio, è rapportata a Siviglia, per accentuarne lo splendore:

«La ciudad de Samarcante está asentada en un llano y es cercada de un muro de tierra, y de cavas muy hondas, y es poco más grande que la ciudad de Sevilla; pero de fuera de la ciudad hay muy gran pueblo de casas, que son ayuntadas como barrios en muchas partes: ca la ciudad es toda en derredor cercada de muchas huertas y viñas, y duran estas huertas en lugar legua y media, y lugar dos leguas, y la ciudad en medio, y entre estas huertas hay calles y plazas muy pobladas, ca vive mucha gente, y venden pan y carne, y otras muchas cosas, así que lo que es poblado de fuera de los muros, es muy mayor pueblo que lo que es cercado. Y entre estas huertas que de fuera de la ciudad son, están las grandes y honradas casas, y el Señor allí tenía los sus palacios y cavas honradas. Otrosí los Graneles hombres de la ciudad las sus estanzas y casas entre estas huertas las tenían, y tantas son estas huertas y viñas y cerca de la ciudad, que cuando hombre llega a la ciudad no parece si no una montaña de muy altos árboles, y la ciudad asentada en medio: y por la ciudad, y por entre estas dichas huertas, iban muchas acequias de agua, y entre estas huertas había muchos melonares y algodones, y los melones de esta tierra son muchos y buenos, y por Navidad hay tantos melones y uvas, que es maravilla; [...] y fuera de la ciudad hay grandes llanuras, en que hay muchas aldeas y muy pobladas [...]. Y es tierra muy abastada de todas las cosas, así de pan, como de vino y de carnes, frutas y aves, y los carneros son muy grandes, y han las colas grandes, y carneros hay que han la cola tan grande como veinte libras, cuanto un hombre ha que tener en la mano: [...]. Y tan gruesa y abastada es esta dicha ciudad y su tierra, que es maravilla: [...]. Y el bastimento de esta tierra no es solamente de viandas, mas de paños de seda setunis y camocanes y cendales y forraduras de peñas y seda, y tinturas y especería, y colores de oro y de azul, y de otras maneras. Por lo cual el Señor había tan gran voluntad de ennoblecer esta ciudad ca en cuantas tierras él fue y conquistó, de tantas hizo llevar gente que poblasen esta ciudad, y en su tierra, señaladamente de maestros de todas artes. [...]5.



Osservatore attento il Clavijo, appare certamente «deslumbrado» dalla ricchezza dell'Oriente.

Trascorrono pochi decenni, e sotto il re Juan II di Castiglia, un nobile al suo servizio, Pero Tafur, intraprende un lungo viaggio per conoscere il mondo, mediterraneo, asiatico e del nord europeo, fornito di abbondanti mezzi economici e di efficaci lettere commendatizie del sovrano per re e imperatori. Nel suo viaggio, che dura dal 1435 al 1439, Tafur resterà colpito da molte cose: come la   —7→   poca affidabilità dei genovesi nell'onorare le lettere di cambio, di fronte all'immediatezza dei veneziani; la singolare bellezza di Venezia e la rapidità con cui ad ogni ora del giorno giungono alla Serenissima tutte le informazioni dal mondo; la bellezza di Bruges e la grandezza del porto di Anversa. Il viaggiatore, uomo colto e intelligente, penetrerà efficacemente anche il mondo germanico e, lui nobile, si sentirà esaltato a contatto dell'Imperatore d'Austria, che lo riceve con grandi onori, ma non mancherà di porre in rilievo, con la bellezza delle città, la poca affidabilità delle strade nordiche, insidiate da nobili predatori squattrinati, la povertà, in sostanza, dello «splendore» imperiale.

Il ritorno in Italia tornerà ad aprirgli il cuore a una visione più riposata e felice del mondo.

Passato in Terra Santa, Pero Tafur avrà avventure molteplici. Nella Turchia europea, poi, sarà ricevuto con deferenza dal Gran Turco, inavvicinabile signore di Costantinopoli, la cui nobiltà di tratto, il valore, lo sfarzo della corte, il visitatore straniero sottolineerà positivamente.

A Babilonia -Il Cairo-, il nobile castigliano incontrerà inaspettatamente il veneziano Niccolò de Conti, di ritorno dall'Asia interna, a capo di una favolosa carovana. Ciò ecciterà la fantasia del viaggiatore, ma il Conti lo scoraggerà dal recarsi in India, terra di molti pericoli, dove si mangia e si beve troppo diversamente dalla Spagna, mancante, inoltre, dei veri incentivi del meraviglioso e del deforme, che tanto interessavano Tafur, in questo uomo del Medio Evo6. Insomma, meraviglie e mostruosità in quelle regioni

«non son tales para aver piacer con ellas; pues ver montones de oro é de perlas é de piedras, ¿qué aprovechan, pues bestias las traen? E tantas e tales cosas me dixo -scrive Tafur-, é à la fin concluyó, que si yo non pasava volando imposible era llegar allá; é yo vi bien que grande amor é buena humanidat de la naturaleza le movió à me consejar, é aún porque bien paresçía verdat lo que dizía mudé mi propósito é bolvimos à Santa Catalina; [...]»7.



E tuttavia non bisogna trascurare il fatto che in Niccolò de' Conti, Pero Tafur aveva trovato modo di soddisfare la sua sete di conoscenza del mondo asiatico. Il veneziano, col suo racconto, lo aveva immesso efficacemente nel meraviglioso, con rapimento totale dell'interessato ascoltatore, il quale dichiara nel suo testo: «E en aquel camino non fazía otra cosa salvo saver dél el fecho de la India; é muchas cosas me dió por escripto de su mano».

  —8→  

Gli argomenti furono diversi, tra essi il fantomatico Prete Gianni e il suo regno. Ma, soprattutto, la curiosità di Tafur si rivolgeva al favoloso terrorifico. Al Conti chiedeva, infatti, notizie sui mangiatori di carne umana; sui riti indiani relativi ai roghi dei defunti, sopra i quali si diceva venisse immolata la moglie; se esistevano veramente esseri deformi, «onbres de un pié o de un ojo, o tan pequeños como un cobdo o tan altos como una lança», avendone risposta negativa: «dize que non sintió nada de todas estas cosas, pero que bestias vido de extrañas figuras», come un elefante «blanco como nieve», onorato come dio, un asino «poco mayor que un podenco é de quantas colores se podíen dezir», molti unicorni «é muchas animalias que seríe largo de escrevir; [...]»8.

Sono quindici giorni di faticoso cammino, ma il nobile castigliano è contento, e qui, per la sua curiosità, è certamente uomo rinascimentale: «con el sabor de oyr tan buenas cosas como dizíe Nicoló de Conto -confessa-, ya non sintía el travajo»9.

L'attrazione del mondo asiatico si esercita anche, sia pure limitatamente alla Turchia, nel Viaje a quella terra, terminato nella sua stesura nel 1557 e attribuito da alcuni a Cristóbal de Villalón, ma con poche prove convincenti, da altri, come Marcel Bataillon, al dottor Andrés de Laguna10.

E tuttavia, il Villalón, presentando nel Crotalón il gigantesco, insanguinato serpente turco, vinto dal leone incoronato di Castiglia11, parlava di Gange e di Indo, riferimenti geografici certamente vaghi, posti di moda, con ogni probabilità, dalla letteratura gesuitica, trattante delle imprese di evangelizzazione nell'Asia e dei numerosi martiri, soprattutto del Giappone.

È importante sottolineare, comunque, nel Viaje de Turquía, la novità dell'atteggiamento ispanico verso i Turchi, identificati fino al momento con la negatività   —9→   diabolica. La vittoria cristiana nella battaglia navale di Lepanto, nel 1571, aveva posto argine alla pericolosità ottomana, restituendo tranquillità agli stati del Mediterraneo. Il «Gran Bastardo» di Carlo y don Juan de Austria, eroe del momento, si può dire che avesse «umanizzato» il nemico, dimostrando la sua vulnerabilità.

L'autore del Viaje de Turquía, opera di un erasmista, secondo Bataillon12, sa distinguere, giudicare con imparzialità, vedere la positività anche del nemico, al disopra della diversità di storia e di religione, fino ad affermare che nel giorno del Giudizio finale tutti i buoni, senza distinzione di nazionalità né di religione, saranno premiati:

«Todos los que de éstos -ebrei, cristiani, musulmani- habrán hecho buenas obras ternán buen refrigerio debaxo la sombra de sus estandartes, y los que no, será tanto el calor que habrá a quel día, que se ahogarán del; no se conoscerán los moros de los cristianos ni judíos que han echo bien, porque todos ternán una misma cara de divinidad. Y los que han hecho mal, todos se conosceran. A las ánimas que entrarán en el paraíso dará Dios gentiles aposentos y muy espaciosos, y habrá muchos rayos del sol sobre los quales cabalgarán para andar ruando por el çielo sin cansarse y comerán mucha fruta del paraíso, y en comiendo un fruto hará Dios dos, y beberán para matar la sed unas aguas dulzes como azúcar y cristalinas, con las quales les crescerán la vista y el entendimiento, y verán de un polo a otro»13.



Il mondo asiatico, nella sua più vicina e temibile presenza, non era più così terribile. Il ridimensionamento turco dava spazio ancora maggiore alla suggestione dell'Asia, di un Oriente favoloso, splendente d'oro per l'immaginazione occidentale. Né si dimentichi l'opera del gesuita Padre Atanasio Kircher, venuto dall'Oriente a Roma con un'infinità di oggetti orientali. Scriveva il 18 marzo 1634, a Galileo, Raffaello Magiotti, ricorda Valerio Rivosecchi:

«Di nuovo vi è in Roma un Gesuita, stato gran tempo in Oriente, il quale oltre a possedere 12 lingue, buona geometria ecc., ha seco di gran belle cose, e fra l'altre una radica, quale si volta secondo il sole, e serve per horiolo perfettissimo [...]. Ha portato gran copia di manoscritti arabici e caldei, con una copiosa esposizione di ierogliflci, e promette esporre tutto quello si contiene nella guglia del Popolo, quale afferma esser stata lavorata prima che fosse al mondo Abramo, e dice contenersi in quelli scritti gran segreti et historie»14.



  —10→  

Commenta il citato Rivosecchi: «Così circondato da un alone di magia e preannunziando strabilianti scoperte, il gesuita tedesco Atanasio Kircher fece il suo primo ingresso a Roma»15.

Ma di importanza eccezionale furono il Museo di arti e scienze che il Kircher montò a Roma, al Collegio Romano, ricchissimo di reperti egizi e orientali, le opere in cui presentava e reinventava le «meraviglie dell'antico Oriente», influenzando direttamente architetti come il Bernini.

Uno dei «grandi artefici della imago mundi del Seicento Romano», l'ha definito Argan16. Irradiando dalla città pontificia un Oriente librato tra scienza, gioco e magia, di obelischi e di piramidi, l'influenza del Kircher in Europa fu grande, soprattutto in quella cattolica, quindi in Spagna, dove l'immagine dell'Oriente si modellò in buona parte sui suoi dati e sulla sua immaginazione.

Ma non si dimentichi neppure quanta parte avevano avuto nella diffusione delle cose orientali la presenza portoghese in Asia, le imprese dei frati e dei gesuiti, diffusori della fede fin nel lontano Giappone, con i numerosi màrtiri, le cui vicende, certo, dovevano incidere nella sensibilità cattolica un'immagine barbara dell'«Estremo Oriente», ma non tale da eliminare la suggestione di un affermato alone di mistero e di splendore, che continuava ad esercitare il suo irresistibile richiamo, come avviene per tutto ciò di cui si è sentito a lungo favoleggiare e di cui giungono testimonianze contraddittorie, ma soprattutto splendenti di ricchezza e di abbondanza. L'iperbolico era di casa nelle descrizioni dei viaggiatori.

La Chiesa stessa metteva davanti agli occhi dei popoli la sua pompa tutta orientale, né erano da meno le monarchie. L'oro luccicava da ogni parte, le stoffe erano lavorate e sfarzose, le architetture nuove ed ardite. Archi sovraccarichi di ornato e di simbologia venivano elevati per celebrare grandi avvenimenti e potenti, e in essi si richiamava insistentemente la mitologia, ma insieme un mondo lontano, che aveva del classico e dell'orientale al tempo stesso.

Più che della dotta Atene, esercitavano suggestione lo splendore di Bisanzio, il richiamo di Gerusalemme, città sacra, ma in terra d'Oriente, e al tempo stesso una favolosa Babilonia, una mai vista Calicut, Samarcanda, Trebisonda, la cui fama avevano diffuso i genovesi presenti con i loro commerci, una Persia di ricchezze inimmaginabili, di costumi che la fantasia si sforzava di concretizzare senza riuscirvi, ma anche di donne velate, misteriose e bellissime.

Un mondo che nella fantasia dei più continuava ad identificarsi con il Paradiso, ma un Paradiso di godimenti profani, non certo come l'aveva inteso, sul finire del Quattrocento, Cristoforo Colombo, convinto di averlo raggiunto egli stesso,   —11→   per la via d'occidente, nella Tierra de Gracia, di fronte allo spettacolo dell'Orinoco, fiume immenso17. Se la tradizione medievale poneva il Paradiso in Asia, nella Mesopotamia, ma in realtà senza confini geografici certi, ben poteva essere lo stesso che nella «sua» Asia il genovese credeva di aver raggiunto.

L'atmosfera orientale dilagava, quindi, per l'Europa, nel secolo XVII, e dilagava per la Spagna, nell'architettura, nel teatro e anche nella poesia. Non dimentichiamo temi come La hija del aire, di Calderón de la Barca. Ma figure orientali, specie femminili, come Cleopatra e Semiramide, erano di casa, come lo era la visione degli splendidi giardini pensili di Babilonia. Venivano avanti dalla storia romana e dalla Bibbia.

Balbuena nella Grandeza Mexicana, parlerà di «huertos pensiles»18 e per descrivere la bellezza della capitale della Nueva España, il «paraíso mexicano», dove «Su asiento y corte la frescura ha puesto»19, richiamerà non solamente Venezia e Milano, ma tutta una geografia efficacemente simbolica dell'Oriente fastoso: la Siria, Ormuz, Macao, il Malabar, la Persia, la Cina, Giava...20.

Ben prima di lui, in Spagna, altri non erano rimasti indifferenti alla suggestione dell'Oriente, dell'Asia. Tra i molti, Fray Luis de León, nel Rinascimento, e nel Barocco Góngora e Quevedo. Il frate, con intenzione ben chiara di incitamento alla moderazione, aveva dichiarato come non lo richiamasse la vela portoghese, né la ricchezza dell'India, poiché nulla di tutto questo poteva dare tranquillità all'animo. Scrive all'amico Felipe Ruíz de la Torre, in «De la avaricia»:


En vano el mar fatiga
la vela portuguesa, que ni el seno
de Persia ni la amiga
Moluca de árbol bueno,
que pueda hacer un ánimo sereno.
No da reposo al pecho,
Felipe, ni la India, ni la rara
esmeralda provecho;
que más tuerce la cara
cuanto posee más el alma avara.



Góngora avrà presente l'Oriente nell'esuberanza delle Soledades e nel Polifemo, in modo particolare. Il mondo di acque e di verde ripete, in sostanza, un Paradiso che riecheggia sia il mondo classico che quello orientale. Le piramidi sono   —12→   ben presenti. La «estación florida» sulla quale si apre la Soledad primera, irradia una luce che è certamente d'Oriente, un Oriente sognato. Le perle, gli ori e gli smalti di cui abbonda l'arte barocca, sono segno tangibile di un'Asia favolosa, che le stesse ricchezze dell'America non riusciranno a far dimenticare.

Anche Quevedo, così preoccupato cantore della morte, quando tratta d'amore pensa alle luci dell'Oriente. Lo si vede nel sonetto «Amor que de una sola vista nace, vive, crece y se perpetúa»; negli occhi della donna, afferma, ha visto l'Oriente, una visione esaltante di luce, quale più non è possibile dimenticare:



   Basta ver una vez grande hermosura;
que, una vez vista, eternamente enciende,
y en l'alma impresa eternamente dura.

Llama que a la inmortal vida trasciende,
ni teme con el cuerpo sepoltura,
ni el tiempo la marchita ni la ofende.



Ma non dimentichiamo la «familia de oro ardiente», i capelli di Lisi, del sonetto di Quevedo intitolato, precisamente, «Retrato de Lisi que traía en una sortija», dove pure è menzionato l'Oriente, allorché il poeta afferma di recare nel ritratto che della donna ha sull'anello, di nascosto del cielo e dell'Oriente, «día de luz y parto mejorado», vale a dire qualche cosa di più bello che non le stelle e ciò che l'Oriente rappresenta di solare, di splendente.

Nell'America coloniale Sor Juana Inés de la Cruz appare sensibile alla suggestione dell'Oriente, soprattutto nel Primero Sueño. Suoi maestri furono certamente la Sacra Scrittura, Góngora e una vasta mitologia classica. Anche nel suo teatro la suora richiama il mondo asiatico, ad esempio quando tratta l'argomento biblico di Giuseppe, in El cetro de José. Ma il Sueño si apre significativamente su figure simboliche di piramidi e di obelischi, nella presentazione dell'avanzare minaccioso delle tenebre notturne, vanamente tese a impadronirsi per sempre del cielo:


   Piramidal, funesta, de la tierra
nacida sombra, al Cielo encaminaba
de vanos obeliscos punta altiva,
escalar pretendiendo las Estrellas;
[...]



Sor Juana ricorrerà anche a una geografia orientale, sempre in funzione di simbolo, e sicuramente attinta di seconda mano. Richiamerà Tibar e Ofir, luoghi di favolosa ricchezza, per esaltare, ad esempio, la bellezza dell'amica viceregina, contessa dì Paredes, nel famoso «Romance endecasílabo» che le dedica, il «Bósforo», ad indicare la «estrechez» della sua «cintura», i «Dátiles» per le dita.

  —13→  

Più di ogni altro riferimento vale, comunque, il Primero Sueño nel suo finale dove la suora descrive l'apoteosico giungere del Sole, al «dimidiar» della notte, con la vittoria della luce sulle tenebre. Un trionfo di luce tutto orientale, il cui più immediato e concreto punto di riferimento potrebbe essere l'Ostensorio barocco, o un reliquiario, con la profusione caratteristica di raggi d'oro. La luce solare inonda improvvisamente il poema e tutto l'universo, trasformando in sconfitta la creduta vittoria delle tenebre. Ma l'avvento vittorioso della luce è anche la sconfitta della conoscenza, della possibilità umana di attingere i segreti di Dio, e la conferma della potenza del Creatore:


   Llegó, en efecto, el Sol cerrando el giro
que esculpió de oro sobre azul zafiro:
de mil multiplicados
mil veces puntos, flujos mil dorados
-líneas, digo, de luz clara- salían
de su circunferencia luminosa,
pautando al Cielo la cerúlea plana;
y a la que antes funesta fue tirana
de su imperio, atropadas embestían:
que sin concierto huyendo presurosa
-en sus mismos horrores tropezando-
su sombra iba pisando,
y llegar al Ocaso pretendía
con el (sin orden ya) desbaratado
ejército de sombras, acosado
de la luz que al alcance le seguía.
   Consiguió, al fin, la vista del Ocaso
el fugitivo paso,
y -en su mismo despeño recobrada
esforzando el aliento en la rüina-
en la mitad del globo que ha dejado
el Sol desamparada,
segunda vez rebelde determina
mirarse coronada,
mientras nuestro Hemisferio la dorada
ilustraba del Sol madeja hermosa,
que con luz judiciosa
de orden distributivo, repartiendo
a las cosas visibles sus colores
iba, y restituyendo
entera a los sentidos exteriores
su operación, quedando a luz más cierta
el Mundo iluminado, y yo despierta21.



  —14→  

Bisognerà arrivare alla fine del secolo XIX, all'avvento, cioè, del Modernismo, per ritrovare una presenza dell'Asia e dell'Oriente nella letteratura ispano-americana. Essa verrà per influenza della poesia francese, soprattutto di Théophile Gautier, l'autore di Emaux et camées, e dei Goncourt, che diffusero l'esotismo asiatico in Francia, da dove passò in Ispanoamerica, soprattutto nella poesia, ma influenzando anche la prosa.

Nella pluralità delle fonti di ispirazione, nella molteplicità delle tematiche assunte dalla varie culture e letterature, i modernisti, affermando una propria originalità, diedero spazio anche all'esotismo dell'Oriente. Il peruviano Manuel González Prada (1844-1918) -con Marti, Silva, Nájera e Casal uno degli iniziatori del Modernismo-, nella serie prodigiosa delle sue innovazioni metriche, non trascurò l'Oriente, la cui atmosfera, suntuosamente sensuale e raffinata introdusse in alcune delle sue liriche, come in «Cuartetos persas», dove si fonde, nell'evocazione di una donna tutta sensi, la Sacra Scrittura con un Oriente inventato, quale mitica terra dell'amore:



   Deja la sombra y paz de tus hogares,
ven al huerto de mirras y azahares.
En medio al arrullar de las palomas,
vivamos el Cantar de los Cantares.

   Extiende por mi rostro la red de tus cabellos;
Que brinden, tras la malla del oro ensortijado,
tu boca las sonrisas, tus ojos los destellos.

   Cuando la amada sobre mí se inclina
y con su fresca boca purpurina
vierte en el fuego de mis labios fuego,
toco la rosa sin temer la espina.



Al poeta non sfugge, con l'assoluto nulla delle cose, l'inconsistenza anche dell'amore, ma per affermare che tuttavia vale la pena di viverlo:



   ¿Qué la sonrisa de unos labios? Nada.
¿Qué la mirada de unos ojos? Nada.
Mas no se oculta en nada de la Tierra
lo que se encierra en esa noble nada.

Es locura el amor y poco dura;
mas, ¿quién no diera toda la cordura,
quién no cambiara mil enternidades
por ese breve instante de locura?



Attratto dall'esotismo dell'Oriente, di un Oriente in cui sembrano fondersi tutte le regioni misteriose dei continenti sconosciuti, Rubén Darío (1867-1916)   —15→   canterà come in delirio la donna e l'amore. In «Divagación», di Prosas profanas, mescolando regioni reinventate, Roma, la Francia, la Grecia, l'Oriente, esprimerà, sull'orma di Gautier, la sua inclinazione per gli amori esotici, per la sontuosità dei tessuti, i simboli dell'Oriente e i poeti, per favolose regioni, come il Giappone, e per città come Kioto, solo udite menzionare, e rese attraenti solo perché filtrate attraverso la sensibilità francese:



[...]
Como rosa de Oriente me fascinas:
me deleitan la seda, el oro, el raso.
Gautier adoraba a las princesas chinas.

   ¡Oh bello amor de mil genuflexiones:
torre de kaolín, pies imposibles,
tazas de té, tortugas y dragones,
y verdes arrozales apacibles!

   Ámame en chino, en el sonoro chino
de Li-Tai-Pe. Yo igualaré a los sabios
poetas que interpretan el destino;
madrigalizaré junto a tus labios.

   Diré que eres más bella que la luna;
que el tesoro del cielo es menos rico
que el tesoro que vela la importuna
caricia de marfil de tu abanico.



Nel rapito trasporto, che dà luogo a questi raffinati accenti, Darío invoca gli amori più caratteristicamente esotici, anche quello giapponese, che prende corpo in una «princesa / con las pupilas llenas de visiones», quello hindú, «que alza sus llamas / en la visión suprema de los mitos», e quello negro, tra il sacro e il profano, personificato in una «negra que haga brotar bajo su planta / la rosa y la cicuta del reposo». Un


   Amor, en fin, que todo diga y cante,
amor que encante y deje sorprendida
a la serpiente de ojos de diamante
que está enroscada al árbol de la vida.



Di qui, come in un delirio, l'invocazione a una donna che sia «única» e riassuma in sé il mistero e l'attrazione di tutte le donne:



Ámame así, fatal, cosmopolita,
universal, inmensa, única, sola
y todas; misteriosa y erudita:
ámame mar y nube, espuma y ola.
—16→

Sé mi reina de Saba, mi tesoro;
descansa en mis palacios solitarios.
Duerme. Yo encenderé los incensarios.
Y junto a mi unicornio cuerno de oro,
tendrán rosas y miel tus dromedarios.



Di più profondo significato sarà la nota «Sonatina», sempre di Prosas profanas. Il mondo orientale diviene «problemático»; il fascino dell'esotismo si colora di malinconia, sulla favola della principessa, triste, nonostante la ricchezza di cui è circondata, i mezzi escogitati per farla felice. Favola antica, ma svolta dal poeta con fine sensibilità e musicalità delicata. L'infelicità è in ognuno di noi, ci dice nella sostanza il poeta, né vale distinzione di rango. Ciò che la principessa sogna è una «vaga ilusión»; non tanto si tratta di amore, quanto di libertà, che la sua stessa condizione le nega. Una comprensiva «hada madrina» interviene a consolarla, con la promessa del principe liberatore, ma sembra affermarsi piuttosto l'impossibilità dell'evento. La prigionia è senza soluzione, la tristezza e la malinconia finiranno per consumare la principessa «de los ojos azules».

Pare di poter cogliere, qui, accenti futuri del più pensoso Dario, quello che canterà la giovinezza «divino tesoro» che se ne va per sempre, che confesserà l'ostinato richiamo dell'amore, nonostante i capelli grigi. Mi riferisco alla «Canción de otoño en primavera», dove torna a essere la principessa il riferimento, questa volta come fallimento personale:


En vano busqué a la princesa
que estaba triste de esperar.
La vida es dura. Amarga y pesa.
¡Ya no hay princesas que cantar!
mas a pesar del tiempo terco,
mi sed de amor no tiene fin:
con el cabello gris me acerco
a los rosales del jardín...



L'Oriente incomincia a perdere di esteriorità, la superfìcie diviene profondità. Alle origini, per Dario, era stato soprattutto fonte di esotico «deslumbramiento» e gli aveva dato modo di costruire pagine preziose, anche nella prosa, come nel racconto «El velo de la reina Mab», ma gradualmente l'Oriente acquista dimensione, si piega alla problematica del poeta, diviene mezzo per esprimerla. Non passerà molto e il colombiano Guillermo Valencia si avvarrà dell'elemento orientale, assunto attraverso la storia sacra liberamente interpretata. Il suo Oriente è quello della Nubia e della Palestina, il mondo degli eremiti, il deserto, la lotta tra il bene e il male, pretesto sempre per indagare stati d'animo interiori, per scrutare gli intimi conflitti dell'uomo.

In «Los camellos», ad esempio, è la pazienza del loro stanco andare, la tristezza dei loro occhi di «zaffiro», nella quale si specchia quella del poeta. Mentre   —17→   in «Palemón el Estilita», la lotta è tra la rinuncia e la tentazione, tra il penitente e la bellezza della donna, sempre tentatrice:


era un áspid: amplia tùnica de grana
dibujaba las esferas de su seno;
nunca vieran los jardines de Ecbatana
otro talle más airoso, blanco y lleno;
bajo el arco victorioso de las cejas
era un triunfo la pupila quieta y brava,
y, cual conchas sonrosadas, las orejas
se escondían bajo un pelo que temblaba
como oro derretido:
de sus manos, blancas, frescas,
el purísimo diseño
semejaba lotos vivos
de alabastro,
irradiaba toda ella
como un astro;
era un sueño
que vagaba
con la turba adormecida
y cruzaba
-la sandalia al pie ceñida-
cual la muda sombra errante
de una sílfide,
de una sílfide seguida por
su amante.
[...]



La descrizione è raffinata, ma certamente carica di sensualità. La tentazione, naturalmente, vince e l'anacoreta finisce per seguire la donna, abbandonando il deserto. Valencia assume, come si vede, dall'Oriente anche la nota corposa, e alla sensualità sono ispirate varie composizioni nelle quali ricrea un'Arabia di maniera, con le solite danze dei sette veli, come in «La voluptuosa». Ma il colombiano fu anche un fine traduttore-ricreatore della poesia cinese, in Catay, con chiara preferenza per il poeta Li-Tai-Po.

A una nota delicata indulgerà invece l'argentino Leopoldo Lugones (1874-1938), il quale nel Romancero canterà in tre «Kasidas» la bellezza, l'amore e la sua pena -«Y tú aunque tan alto estés / Oh arcángel del esplendor, / Tengo miedo por mi amor, / Tengo miedo si la ves!»-, mentre dedicherà all'emiro Emin Arslán, «descendiente de los reyes persas», un «Romance al Rey de Persia», di squisita fattura, che, sul tema dell'impossibile canto d'amore, richiama il Romancero tradizionale ispanico.

Mondi orientali di maniera evocherà nella sua prima poesia anche il cubano Regino Pedroso, popolati da Califfi, ricchi di sete e di presenze femminili per lo   —18→   più discinte o del tutto ignude, come in «El collar de Sherazada», dove spicca «el orientalismo de su carne desnuda», o in «Nipona», evocazione di una raccolta immagine di donna, minuscola come «una muñequita de laca del Japón», mentre nei sei sonetti de «La ruta de Bagdad» tornano «amores luxuriantes», e la morte, sempre associata all'amore orientale.

Un atteggiamento, quello del Modernismo, prevalentemente legato all'immagine sensuale della donna e allo sfarzo, ma non privo di motivi più profondi.

Sono, questi, rapidi appunti per un tema suggestivo che riguarda in particolare il mondo ispanoamericano. Nel secolo XX, infatti, poeti come Pablo Neruda, Jorge Carrera Andrade, Octavio Paz, e lo stesso Borges, più o meno direttamente, trarranno dall'Asia motivi profondi che caratterizzeranno, con la maturità problematica, la loro vita e la loro opera. In varie occasioni ne ho trattato22.





 
Indice