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Il gran «murale» di Manuel Scorza

Giuseppe Bellini





Abbiamo già segnalato su questo foglio il precedente romanzo di Manuel Scorza, Il cavaliere insonne, terzo volume di quel grandioso murale che lo scrittore peruviano dedica al mondo indigeno della sua terra, prendendo le mosse da Rulli di tamburo per Rancas, cui fece seguito la Storia di Garabombo, l'Invisible. Più che una serie di romanzi legati tra di loro da un progresso della storia, si tratta di un poema in prosa, di cui ogni libro è un canto, o «cantare» epico, appunto. L'autore si è prefisso di denunciare la situazione infelice della sua gente, dell'indio peruviano nella sua lunga storia di patimenti e di sofferti soprusi, in una società violenta e schiavista.

Il legame con il romanzo che lo precede, Il cavalieri insonne, è mantenuto dalla figura di Agapito Robles, il protagonista, che dalla prigionia, seguita alla strage di Yanacocha, torna alle sue terre per riprendere la lotta, rianimare la speranza, una volta ancora, nel successo finale, contro il nemico di sempre, il terribile giudice dottor Montenegro, onnipotente nel discretto, amministratore di una legge che si identifica col sopruso, in ciò aiutato dall'incondizionato appoggio del potere politico e dei militari.

Un mondo miserabile, ma non domo, si profila nelle pagine del romanzo. Lo scrittore dà risalto alle virtù del popolo indio, che riprende la lotta, concludendo con l'umiliazione totale del potente, la disfatta della forza demoniaca e dell'orgoglioso e crudele Montenegro. Ma a questa storia, dal profilo così duramente reale, si intreccia la vicenda fantastica di personaggi positivi e negativi. Anzitutto quella dell'irresistibile Maca, distruttrice di cuori e di sostanze, debellatrice, con la sua avvenenza crudele, di tanti maggiorenti, sperperatori delle proprie ricchezze per lei, infedeli e dimentichi delle proprie spose, col risultato di inviperirle per l'offesa e l'abbandono.

Donna per nulla delicata, con abitudini pronunciatamente maschili, la Maca fa impazzire gli uomini del villaggio e li porta alla perdizione. Personaggio vigoroso, descritto efficacemente nel suo potere irresistibile, la Maca inizia così «la dittadura dei suoi occhi, il flessuoso impero del suo andare, la malia della sua voce lievemente rauca». Col risultato iniziale che «prima che finisse la giornata tre minatori si accoltellarono per accompagnarla». Una settimana dopo lasciava «quatro morti, sei feriti e quindici spose oltraggiate». Né questa era la fine, bensì l'inizio solamente.

Un ricorrente Memoriale delle spose oltraggiate di Yanahuanca percorre, perciò, con legittimità, le pagine del romanzo, pregno di proteste risentite, di crudi giudizi, portati al ridicolo dall'iperbole e dall'inevitabile ironia. Con estrema abilità lo scrittore propone al lettore una storia reale e improbabile al tempo stesso. Fantasia e magia emanano dalla Maca e investono la realtà. Molto vicina, anche se più peccaminosa e lasciva, alla nota Amaranta di Cent'anni di solitudine, di Gabriel García Márquez, la donna mostra una maggior crudeltà verso gli uomini, per lei puro zimbello. Ma ciò facendo, porta anch'essa un contributo alla causa, dilapidando sostanze, confondendo nel ridicolo i potenti, seminando zizzania nella loro famiglia, mettendo spose contro mariti infedeli.

Al mondo accesamente fantastico e allucinato appartiene la comparsa, nella fase decisiva della lotta, di un supposto Angelo indio, venuto dal cielo per essere adorato dagli indios e naturalmente perseguitato e imprigionato dalla forza pubblica. Una serie di apparizioni di defunti contribuisce a rarefare l'atmosfera, caricandola di suggestioni ultraterrene. Il tempo si è anch'esso sconvolto. L'onnipotente giudice Montenegro ha eliminato il tempo corrente, così che, sotto il suo dispotico impero, non solo i giorni e i mesi si confondono, tanto che gli abitanti navigano in una successione capricciosa di «mercolvedì», «giobato», «gennamarzo», «lugliembre», eccetera, ma il 1962, anno in cui si svolge la vicenda, è divenuto il 2182 dell'invincibile dottore.

Mondo profondamente inquinato dal sopruso, i suoi cardini scricchiolano, tutto si presenta sconnesso; le stesse case del villaggio, alla sconfitta del dottore si piegano su se stesse, o verso l'interno dei loro cortili. Perché il male è duro a morire. Tanto che la vittoria sarà effimera. Lo annuncia l'avanzata dell'esercito, che viene a imporre l'«ordine». Come sempre nel romanzo indigenista, che nel Perù ha avuto nomi prestigiosi come Ciro Alegría, l'autore de I cani affamati e Il mondo è grande e degli altri, e José María Arguedas, cui si devono opere come I fiumi profondi e Tutte le stirpi. Benché i valori umani, quelli della dignità e della giustizia, sembrino ribaditi, l'insidia della vendetta torna a profilarsi nelle ultime pagine del romanzo che, come quasi tutti i romanzi indianisti, da Razza di bronzo del boliviano Alcides Arguedas a Huasipungo dell'ecuatoriano Jorge Icaza, chiude su bagliori d'incendio: «Tutta la gola stava bruciando! Un serpeggiar di colori avanza incendiando il mondo». Anche se proprio la fiamma può essere simbolo di rinnovata speranza.

Romanzo vigoroso e avvicente, Cantare di Agapito Robles è forse la miglior prova di questo dotatissimo narratore.

MANUEL SCORZA.- Cantare di Agapito Robles.- Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 237.





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