Il canto della scoperta di Juan de Castellanos
Giuseppe Bellini
Pubblicando, nel
1893, il suo saggio Colón y la poesía1,
Calixto Oyuela, dopo aver affermato che il Navigatore genovese fu,
nel Diario e
nelle lettere, il primo poeta della sua «magnífica
hazaña»
, e questo per «el encanto, ingenuidad y
gracia, el amor, el entusiasmo lírico y el profundo
sentimiento de la naturaleza con que ensalza y describe la
región virgen y espléndida que acababa de revelar al
mundo»
2,
indica quale secondo documento poetico sul tema le Elegías de Varones Ilustres de
Indias, del sivigliano Juan de Castellano (1522?-1605).
Egli definiva
l'opera un'antica cronaca -per questo non si soffermava su di
essa-, scritta in versi e in una lingua «de sabor
excelente»
; alludeva, comunque, alla
«prolija
relación»
, che affermava si leggeva
però «con
agrado»
, e il motivo di ciò lo
individuava in quanto lo stesso Castellanos sottolineava, che
«De suyo son gustosas las
verdades»
3.
Volonterosa
valutazione, è evidente, più accettabile
allorché l'Oyuela prosegue rivelando tratti che definisce di
vera poesia nel poema, di cui esalta la grazia dello stile e quella
nota di realtà che rimpiange di non trovare più
frequente nella grande poesia del «Siglo de
Oro». Lo studioso conclude affermando che vi
sono occasioni, «aunque
pocas»
, in cui il cronista diviene «verdadero poeta aun por
el estilo, dejando desprenderse del espeso bosque de sus octavas
ráfagas dignas de
Garcilaso»
4.
Il Castellanos fu un instancabile versificatore e solo in tempi vicini a noi il suo poema è stato rivalutato5. Per molto tempo lo aveva seppellito nel dimenticatoio la causticità di don Marcelino Menéndez Pelayo: il grande poligrafo aveva definito prolisse e noiose le Elegías, di difficile, se non impossibile, lettura, pur salvandone momenti meno infelici6. Si parlava, ancora dopo il giudizio del critico santanderino, di 150.000 versi7, che Manuel Alvar aveva ridimensionato a non più di 120.0008, e che infine Giovanni Meo Zilio ulteriormente ridusse, per l'esattezza, a 113.6099. Un poema, comunque, sempre immenso, faticoso non solo per la sua stessa estensione, ma soprattutto per le non poche cadute di tono, e tuttavia non privo di momenti interessanti.
Ispirate alla Araucana di Alonso de Ercilla, il poema che sta alla base di tutta l'epica ispano-americana, proprio il poeta spagnolo fu il censore, poco entusiasta, sembrerebbe, della seconda parte delle Elegías, delle quali, come autore di quella che egli stesso intendeva una cronaca in versi, elogia l'aderenza alla realtà storica10. Né in seguito altri critici vi furono che celebrassero le qualità poetiche dell'opera.
E tuttavia il poema di questo avventuroso eroe dell'ottava -da soldato scapestrato divenuto sacerdote (disse la prima messa a Cartagena de Indias), poi curato a Río Hacha e infine, uscito indenne da un processo dell'Inquisizione, stabilitosi a Tunja, nella Nueva Granada, ora Colombia-, rappresenta un momento importante della creatività della Colonia. A Tunja risiedeva anche Gonzalo Jiménez de Quesada (?-1579), il fondatore di Santa Fe de Bogotá e autore dell'Antijovio, voluminosa opera nella quale polemizzava contro il vescovo italiano Paolo Giovio, che, a suo parere, aveva ingiustificatamente detto male degli spagnoli. Il Castellanos, anzi, intimo amico del conquistatore-letterato, scrisse alcuni versi latini per il libro dell'amico.
L'ambiente culturale di Tunja era, all'epoca, ragguardevole. La cultura ruotava intorno al locale collegio dei gesuiti, di notevole prestigio, e fino a quella remota regione giunse, sembra, l'influenza della limegna «Academia Antártica», dove la letteratura italiana e i nostri poeti erano di casa, soprattutto l'Ariosto; dell'Accademia faceva parte anche Pedro de Oña (1570-1643?), autore dell'Arauco Domado, il frutto epico più rilevante della scuola di Ercilla. L'Araucana fa riferimento come a modello il Castellanos, ma le Elegías egli le iniziò -o forse le scrisse totalmente, non sappiamo con certezza-, in prosa, in quanto era sua intenzione di comporre una cronaca relativa ai primi conquistatori. Impiegò poi più di dieci anni per trasformare tanta prosa in verso, fatica immensa, spintovi, a suo dire, da amichevoli insistenze, forse degli stessi conquistatori o dei loro discendenti, in quanto l'Ercilla aveva posto di moda il poema epico. Scrive l'autore, rivolto «Al lector», all'inizio della quarta parte del suo poema, che il Paz y Mélia pubblica nel 1886 col titolo di Historia del Nuevo Reino de Granada:
«Entré en este ambajoso laberinto cuya salida fuera menos dificultosa si los que me metieron en él se contentaran con que los hilos de su tela se tejerán en prosa, pero enamorados (con justa razón) de la dulcedumbre del verso con que don Alonso de Ercilla celebró la guerra de Chile, quisieron que la del Mar del Norte se cantara con la misma ligadura, que es en octava rima».11 |
Benché in
questa quarta parte il Castellanos preferisca il verso libero,
felice scelta, secondo il citato editore se, in contrapposizione
alle «macizas octavas
reales»
, sottolinea la «descansada
compostura»
del metro scelto12.
Conquistatori ed
eredi dovevano ora ritenere di maggior prestigio il verso che la
prosa. Le cronache sulla conquista erano ormai tante e sembravano
appartenere a un'epoca remota, del tutto superata. Per lo stesso
Castellanos, inoltre, dovette giocare l'ambizione di emulare in
qualche modo l'Ercilla. Sminuire le proprie pretese era tattica
ricorrente nei prologhi, non solo per ostentare modestia, ma per
prevenire, in qualche modo, le critiche malevole. Non v'è
dubbio, tuttavia, che di fronte l'Araucana al volenteroso poeta di Tunja
dovevano venire non pochi dubbi circa la validità della sua
impresa, che però continua imperterrito. I grandi poemi
cavallereschi affascinavano certamente il Castellanos, il quale,
cultore di poesia italiana e latina, doveva conoscere bene anche
l'Orlando
furioso e l'Orlando innamorato. Infatti, il Meo
Zilio rileva, con convincente documentazione, la presenza nelle
Elegías
non solo del Furioso, ma della Gerusalemme liberata,
nonché della Divina Commedia13,
benché rilevi soprattutto la lezione
dell'Ercilla14.
Certo testo non superabile l'Araucana, e tuttavia, interpretando il poema come
relazione storica, nello spirito stesso dell'Ercilla, Tinca
Garcilaso non aveva mancato di rimpiangere, nei Comentarios Reales, che chi
aveva trattato della conquista degli indios Araucos, non lo avesse
fatto in prosa, «porque fuera historia y no poesía, y se
les diera más
crédito»
15.
Juan de Castellanos aveva fatto di peggio, ripudiando la prosa
già scritta per la poesia.
Col trascorrere del tempo le Elegías de Varones Ilustres de Indias, pubblicate per la prima parte nel 1589 e poi le prime tre nel 1847, mentre la quarta lo fu nel 1886, e tutto il poema tra il 1930 e il 193216, videro una lenta, ma progressiva rivalutazione. Gli studi del Pardo17 e del Rivas Sacconi18, hanno il merito di aver dato l'avvio a questo processo. Il lettore moderno, meglio disposto nei confronti del poema, con maggiori notizie anche sull'autore, coglie momenti di notevole riuscita artistica, in scene di battaglia e in passi di autentico lirismo, che richiamano il clima della poesia spagnola del Rinascimento, soprattutto di Garcilaso, ma che si inseriscono con originalità nella dimensione del meraviglioso consegnato da Colombo nel suo Diario. Valga il passo seguente:
|
Juan de
Castellanos terminava la sua versione in poesia delle Elegías dopo
più di un ventennio di impegno e le stampava quasi alla
vigilia del primo centenario della scoperta colombiana. Possiamo
dare all'impresa il significato di un omaggio reso a Colombo, la
cui figura domina giustificatamente l'inizio del poema, nel quale
l'autore invoca significativamente non già Marte, come ci si
aspetterebbe, ma la Vergine, Santa Maria. Il Castellanos si
allontana, così, e dal modello italiano dell' Orlando furioso e da
quello ispanico à l'Araucana: non canta «le
donne, i cavalier, l'arme, gli amori, / le cortesie, l'audaci
imprese [...]»
e neppure, benché le gesta
guerresche dominino, l'impero ercillano dell'«iracundo
Marte»
. Nella Cristiada (1611) Diego de Ojeda darà
poi al poema epico in America un accento spiccatamente religioso,
cantando, in versi di straordinaria fattura, le gesta di Cristo e
inaugurando così una lunga serie di poemi agiografici di
vario livello, molti dei quali dedicati a celebrare Sant'Ignazio di
Loyola. Ma il poeta della Nueva Granada, almeno per l'invocazione,
precorre i tempi.
Alonso de Ercilla
nell'Araucana
denunciava apertamente il suo programma eroico: non gli amori, ma
le imprese guerresche avrebbe cantato, non contro i mori
ariosteschi, s'intende, ma contro gli indigeni, gli araucani;
avrebbe celebrato «el
valor, los hechos, las proezas / de aquellos españoles
esforzados»
, che «a la cerviz de
Arauco no domada / pusieron duro yugo por la
espada»
, terminando per celebrare la
resistenza indigena e la barbarie ispanica. Il Castellanos canta
non meno «eroici» temi, ma senza le preoccupazioni
umanitarie e indigeniste dell'Ercilla; egli narra a suo modo una
storia della conquista, dove l'elemento tragico è presente,
ma lo è anche quello sentimentale. L'invocazione alla
Vergine definisce programmaticamente il clima religioso entro il
quale l'autore iscrive la scoperta e la conquista dell'America. La
richiesta di aiuto a Santa Maria e per sua mediazione a Dio
significa non tanto il ripudio di schemi ritenuti stantii, quanto
piuttosto l'assunzione della gesta americana nello spirito di
Colombo, così ardentemente difeso dal Las Casas:
Un inizio ispirato; parrebbe l'introduzione ad un poema religioso: sarà invece un poema che celebra uomini «valientes», che descrive fatti d'arme, stragi e battaglie, in una rappresentazione efficace, come nelle cronache più valide della conquista -quella di Bernal Diaz del Castillo, ad esempio-; battaglie e stragi compiute, in apparenza, per la maggior gloria di Dio; scenari di grandezze umane e di umane miserie.
E tuttavia, l'invocazione citata introduce in modo appropriato al canto della gesta colombiana, crea un clima religioso, raccolto, quale si conviene a un avvenimento di tanta trascendenza, disposto da Dio. Non inutili per questo clima sono gli apporti autobiografici: il poeta-cronista si presenta vecchio, acquistando per ciò stesso dimensione sacrale, quella propria di un testimone della storia.
Con Cristoforo
Colombo il mondo si apre a tempi nuovi, mentre il poeta si avvia,
al contrario, alla fine. Juan de Castellanos accentua questa sua
condizione, di uomo giunto al traguardo: «A cantos elegiacos
levanto / con débiles acentos voz
anciana»
. La serietà del suo
proposito è affermata. Quindi il poeta si pone il problema
del lettore -falso problema s'intende-: costui, forse, si
preoccuperà che egli possa portare a termine la sua impresa,
avendola differita per tanto tempo: avverta, invece, il lettore,
che le buone imprese vengono spesso lasciate per ultime, dovuto a
vari impedimenti; ad ogni modo lui, Castellanos, intende portare a
compimento quanto si è prefisso, poiché lo considera
il coronamento della sua vita:
|
In un passo
successivo il poeta dichiara di aver consumato nella stesura della
sua opera «noches en cantidad
y alguna vela»
. Una gran fatica,
certamente. Interessante, all'inizio del poema, è quanto il
Castellanos dice a proposito del suo modo di procedere nella
stesura dell'opera: anzitutto ripudierà l'ornato, che tanto
alletta i cultori di poesia, per attenersi alla verità dei
fatti e andrà avanti piuttosto spedito:
|
La realtà storica è, perciò, preoccupazione fondamentale per il Castellanos; ma affermato questo egli non rinuncia alla fantasia, che si manifesta in creazioni di notevole efficacia, spesso in versi freschi, anche per l'insolita aggettivazione -«presurosos», «sonorosos»-, che richiama San Juan de la Cruz.
La protesta contro
il verso ricercato, la sonorità della rima, sarà
fatta propria, a distanza di secoli, da un altro poeta
ispano-americano, certo di diversa statura, Neruda: nella dedica
dei Cien sonetos de
Amor (1959) a Matilde, egli denuncia l'artificio della rima,
di ciò che rende «sonorosos», come si
esprimeva il Castellanos, i versi; «rimas que sonaron como
platería, / cristal o
cañonazo»
, dirà il cileno, il
quale fa altrettanta professione di adesione alla realtà,
qui del sentimento.
Le prime quattro
Elegías de
Varones Ilustres de Indias sono dedicate, come detto, a
Colombo e alla scoperta. Con sbrigatività il poeta descrive
il mondo, dall'epoca del diluvio, diviso in due parti quasi uguali,
delle quali «La una nunca
vista ni sabida / sino fue de sus mismos
naturales»
. Anche per il Castellanos
Colombo è il prescelto da Dio perché diffonda la sua
conoscenza nella parte ignota del mondo, ma anche perché,
secondo l'ideologia imperiale dell'epoca di Carlo V, consegni
questa parte «A rey que lo
tenía merecido»
.
La prima
novità che troviamo nella visione del poeta di Tunja
è l'assimilazione del Genovese alla stirpe regia. L'impresa,
voluta e predisposta da Dio, ha l'effetto di creare una sorta di
parentela permanente tra il sovrano e Colombo: «Y ansí los dos y
sus distantes gentes / vinieron a ser deudos y
parientes»
. Affermazione ardita, se
consideriamo il rigido distacco sempre mantenuto dai Re Cattolici,
per quanto il figlio di Colombo, Diego, sposasse una doña
María de Toledo, della potente casa d'Alba.
Successivamente il
Castellanos affronta il problema delle origini dello Scopritore. Le
molte malignità sul tema gli erano ben note, e anche la
pretesa di Colombo di discendere da famiglia nobile, benché
povera. Il figlio Hernando sosteneva questa discendenza nella sua
biografia-difesa del padre19.
E il poeta cronista riferisce le malignità dei nemici del
Genovese, i quali affermavano che era di «oscuros
nacimientos»
, ma questo gli ripugna
considerarlo possibile per «tan ardiente pecho / y tan engrandecidos
pensamientos»
: non può essere che
nobile chi presenta tali doti e il Castellanos risolve il problema
affermando: «Y ansí
creemos ser esclarecido / y en las tierras de Jénova
nacido»
. Tutto è in questo modo
sistemato: Colombo è di origini nobili e genovese, come del
resto tutti i cronisti non si erano stancati di affermare.
Ma Juan de Castellanos non è ancora soddisfatto e ritorna sul tema della nobiltà, così scottante per l'ambiente in cui viveva e per la dignità stessa del suo canto; perciò fa discendere Colombo, come l'Oviedo, dalla nobile famiglia lombarda di «Pelestieles», o Perestrello, concludendo che, comunque sia, il personaggio è nobile per se stesso, vale a dire per le imprese compiute:
|
Atteggiamento moderno, sembrerebbe, precursore di quello con cui Quevedo nel Sueño del Infierno, a dispetto della boria dei nobili, cui pure apparteneva, proclama che «hidalgo» è colui che illustrandosi con la propria virtù, costruisce lignaggio per altri20. Senonché il Castellanos finisce per rovesciare il concetto: compiendo così alte imprese, Colombo conferma la nobiltà delle sue origini.
Naturalmente, allo
Scopritore il poeta-cronista della Nueva Granada accomuna i
fratelli, Bartolomé e Diego, «Mancebos valerosos y
lozanos, / que desde sus principios dieron luego / muestras de
pensamientos soberanos»
: sempre insieme al
fratello e a lui obbedienti, tutti valorosi marinai, benché
Cristoforo li superi tutti nella navigazione d'alto mare, tanto che
in Portogallo assai lo stimavano.
Un rapido
riassunto porta ai viaggi del Genovese alle isole di Madera, dove
-dice il poeta- risiedeva per la maggior parte dell'anno e dava
ospitalità a «pobres peregrinos»
,
tra i quali «hospedó con pía mano / una vez
un piloto castellano»
. Siamo al noto
«pilota
anonimo»
, che avrebbe rivelato a Colombo
l'esistenza di un nuovo mondo. Particolare non documentabile e
tuttavia sempre suggestivo, al quale tutti i cronisti hanno alluso,
con maggiore o minore insistenza, ma che Gonzalo Fernández
de Oviedo dichiarava spregiativamente «novedad que anda por el
mundo entre gente vulgar»
21,
una «hablilla», come la
definisce Juan Gil, «que
contiene claros elementos
legendarios»
22,
comunque persistente se ancora in occasione del IV Centenario della
scoperta tornavano a trattarne il De Lorenzo23,
il Travers24,
nel 1911 il Vignaud25
e nel 1976 lo stesso Manzano Manzano26.
Il primo che aveva dato un'identificazione del fantomatico
personaggio era stato l'Inca Garcilaso nei Comentarios
Reales27.
Hernando Colón, naturalmente, si era opposto sin dal primo
momento alla diceria28
e per giustificati motivi: erano in gioco, infatti, i benefici
delle capitolazioni di Santa Fe.
Da parte sua Juan
de Castellanos accoglie come tema suggestivo la leggenda del pilota
anonimo. Lo attesta la nuova versione che ne dà. Intanto
egli traccia un quadro toccante della bontà e della
generosità del Navigatore, solito a dare ai pellegrini che a
lui ricorrevano «de
lo poco que tenía»
. È
così che una volta capita da lui un «piloto
castellano»
, che pure era «gran
navegante»
. Il poeta-cronista, comunque,
non fa che riferire quanto si dice e a scanso di equivoci lo
dichiara: «(según
entonces se decía)»
; poi tratta
della tempesta che portò il misterioso pilota così
lontano, «do no
quería»
, verso terre da nessuno
prima viste, tanto da fargli temere di non poter più far
ritorno; quindi l'arrivo a Madera, debilitato e in fin di vita,
insieme ad altri compagni, che presto morirono. Colombo avrebbe
annotato con somma diligenza le «cumplidas relaciones /
del prolijo discurso navegado»
. Così
almeno si dice, ma il Castellanos offre un'altra possibile
interpretazione, che Colombo e il pilota anonimo fossero in
realtà la stessa persona:
|
cosa che al poeta-cronista non
sembra «desatino», e perciò
egli adotta questa versione e fa sì che nel poema Colombo
parli ai suoi uomini come protagonista della misteriosa impresa,
tanto più che di questo «dan razón algo
fundada»
alcuni personaggi stimabili, come
l'amico Gonzalo Jiménez de Quesada, «varón
adelantado»
, il quale
|
Un omaggio
all'amico e uno scudo per sè, ma per onestà Juan de
Castellanos riferisce anche altre possibili versioni: che Colombo
avesse trovato una relazione scritta, «De tal antigüedad
cual se requiere / para ser infalible
conjetura»
. Ad ogni modo, comunque siano
andate le cose, il risultato fu straordinario:
|
Al momento di
scegliere la versione da seguire, non v'è dubbio, al poeta
sembró più efficace e più in accordo con il
carattere del protagonista quella della diretta esperienza tenuta
nascosta. Il canto primo conclu- I de sulla certezza di Colombo di
dare al sovrano «en
poder un orbe nue- I vo»
, abbondante di
genti, contro le opinioni contrarie, e colmo di rie- I chezze.
Cioè, il poeta fa cosciente lo Scopritore dell'esistenza di
un nuovo mondo.
Re e regina si
mostrano d'accordo; Colombo è soddisfatto dei patti e grato
ai sovrani, ma anche ai gentiluomini che gli diedero aiuto -il duca
di Medinaceli, anche se non menzionato- e al «doto fray Joan
Pérez de Marchena»
. La partenza
avviene con il favore di Dio e della Vergine: I
|
Abilmente il Castellanos ha circondato di leggenda e di realtà storica l'impresa colombiana: un'avventura di mitica grandezza che avvince il lettore, intrapresa con felicità di tutti e sotto la protezione divina, nelle più splendide prospettive, dunque.
Il secondo canto
tratta delle «diferencias» tra i marinai
-qui «soldados»-, della villania
con cui affrontarono Colombo durante il viaggio di scoperta. La
lunga navigazione rende inquieti gli uomini e il malcontento, come
sappiamo, determina la rivolta. Neil'affrontare il momento critico
del Navigatore, il poeta muove abilmente la scena, presenta gli
uomini tra arditi e timorosi. La spedizione attraversa temperature
impossibili ed enormi uragani. Infine, «uno de vergüenza
descompuesto»
osa affrontare con insolenza
Colombo e rinfacciargli la sua responsabilità per tante vite
in pericolo, in un'avventura che è una vera pazzia.
Dalla confusione e dal guazzabuglio dei nomi delle Autorità addotte, emerge la teoria dell'inabitabilità degli estremi freddi del mondo e della zona torrida: la portano quale argomento determinante i ribelli ed è rifiutata, naturalmente, da Colombo, il quale ritiene allora che sia giunto il momento di fare la sua rivelazione: rivendicata l'unità del comando egli confonde, quindi, con le sue ragioni gli avversari.
Il contrasto
è ben rappresentato dal Castellanos; la drammaticità
del momento è resa nel concitato argomentare degli
scontenti, che come unica prospettiva vedono «... el matadero / do
nuestras tristes vidas fenezcamos»
. Il
cronista si rivela abile sceneggiatore, oltre che valido poeta
drammatico. Contrasta la calma con cui Colombo espone le sue
ragioni, oppone le sue Autorità, ma soprattutto impegna il
suo prestigio di marinaio celebrato e rivela il segreto del suo
precedente viaggio -una gran menzogna-, che rende pubblico ora alla
sua gente priva di fede:
|
alla sorpresa si aggiunge la
drammaticità del racconto: una terribile tempesta, sei o
sette giorni di «proceloso tiempo»
, poi
il mare in calma, «Como
remanso de potente rio»
, quindi
l'avvistamento di «pedazos de madera / por encima de las ondas
flutuando»
, annunci di terra vicina.
Castellanos si avvale qui di particolari propri delle vicende relative al primo viaggio colombiano: oltre ai legni, le foglie, le erbe galleggianti, gli uccelli... Una felicità del navigare, presto turbata dall'incertezza: terra conosciuta o incognita? La consultazione delle mappe convince Colombo della novità di quanto ha trovato, mentre la ciurma dorme, affranta dalla fatica. Al risveglio riprenderanno la via del ritorno a Madera e solo lui, Colombo, conoscerà il segreto delle terre verso le quali ora sta di nuovo andando, con maggior numero di gente.
Un canto vigoroso, affascinante per inventiva e per felicità di versificazione. Efficaci scene di tempesta e un ispirato poeta: Castellanos ha raggiunto un alto risultato artistico.
Ora, nel terzo dei canti, descrive la grande tempesta che coglie le navi di Cristoforo Colombo prima dell'avvistamento della terra americana. Il tema è d'obbligo, ma il poeta sembra particolarmente a suo agio nella rappresentazione del dramma; le navi sballottate dai flutti e il terrore universale che rende devoti:
|
Una particolare disposizione per il chiaroscuro. La luce che avvista, dopo molto dubitare sulla sua realtà, il mozzo Rodrigo de Triana, rappresenta la salvezza e il coronamento dell'impresa. L'avvistamento è descritto dal poeta nel canto quarto e ha luogo ai primi albori del giorno. Juan de Castellanos rappresenta felicemente la sorpresa, l'entusiasmo dell'equipaggio, riferisce i canti di ringraziamento che si levano dalle navi. È il trionfo del Navigatore. La figura di Colombo torna in primo piano. Un maestoso canto gli riconosce categoria eccezionale e prospetta gloria e potenza su lui e per tutta la sua discendenza:
|
Si avvicina
intanto il riconoscimento della nuova terra e questo è forse
il passo più interessante del canto colombiano di
Castellanos. Sembra di leggere il Diario del Genovese. Gli indios van facendo
agli spagnoli con le mani «dulces señas»
;
il paesaggio è meraviglioso: alberi, monti, onde che si
frangono sonore contro gli scogli, dintorni verdi e ameni, spiagge
terse di invitante arena. Ma in particolare è la
nudità degli abitanti, uomini e donne, che colpisce i nuovi
arrivati. E a questo proposito il poeta di Tunja si discosta dalla
visione di paradisiaca innocenza diffusa da Colombo. Come
religioso, probabilmente, egli vede nella nudità non un
segno di innocenza, ma un pericoloso incentivo al peccato. Tanto
più che si tratta di esseri ben proporzionati, con splendidi
corpi e capelli lunghi disciolti. Un vantaggio, umoristicamente,
gli riconosce: la nudità evita loro di doversi cambiare:
«Los galanes, las damas y
los pajes / jamás deben mudar ropas ni
trajes»
. Come si vede, benché nuda,
una società interpretata a immagine e somiglianza di quella
ispanica: «galanes», dame, paggi.
Il fatto della
nudità, comunque, è una grossa preoccupazione per il
buon sacerdote Juan de Castellanos; o è forse un'astuzia per
avvincere il lettore? Ad ogni modo egli torna con insistenza sul
tema, per denunciare nella nudità l'occasione inevitabile
«Para solemnizar
venéreas fiestas»
, l'incitamento a
«empachosos
accidentes»
; non si inganni nessuno,
avverte: gli indios sono ben lontani dall'innocenza, poiché
anch'essi sono figli e discendenti di Adamo.
Il paesaggio umano si anima a questo punto; è un andare e venire di canoe colme di gente, di indios con archi e frecce, dipinti alla loro usanza, con gioielli rilucenti pendenti da nasi ed orecchie. Per questa gente le navi sono il motivo di maggior novità e le osservano a lungo con stupore. Gli indios dubitano se i nuovi venuti siano esseri umani oppure divini e a loro volta, nella straordinaria confusione, resa abilmente dal poeta, gli spagnoli restano in forse circa le vere intenzioni degli indigeni, personaggi strani:
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Tra gli indios si distingue Goaga Canari; il quale incita gli indigeni a lottare contro gli spagnoli e a difendere la loro terra. Castellanos fonde momenti diversi della storia dell'incontro-scontro ispano-americano, ma senza stonature. Il capo indio è presentato mentre apostrofa con un lungo discorso la sua gente, nel dubbio se i nuovi venuti siano amici o nemici. In questo discorso il poeta inserisce numerose parole indigene, in ibrida mescolanza regionale, ma efficaci come risultato, relative a prodotti locali che gli indios sarebbero disposti a dare agli spagnoli se amici.
Juan de
Castellanos allude anche all'episodio dell'india fatta salire da
Colombo sulla sua nave e quindi rispedita tra i suoi vestita di
tutto punto. Quindi gli spagnoli si riposano, poi prendono possesso
«de todas
partes»
, dando ai luoghi la denominazione
di «Indias de
occidente», e ciò avviene, secondo il
cronista poeta, l'«Once
de octubre, años cuatrocientos / con más noventa y
dos y dos quinientos»
.
Colombo sembra scomparso dal poema, ma in realtà vigila nell'ombra. Tramonta il sole e tutti tornano alle navi, dove sta attento a tutto l'Ammiraglio:
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Come responsabile capitano che ha condotto a termine una difficile impresa, lo Scopritore è presentato privo di iattanza per il successo ottenuto; ciò gli dà nel poema alta categoria di condottiero e quella eccezionalità tra gli uomini che sola poteva farlo scegliere da Dio per la grande impresa.
Da qui in avanti,
tuttavia, sembra di assistere a un cambiamento nell'atteggiamento
del Castellanos: dopo aver così entusiasticamente celebrato
il Genovese, l'interesse nei suoi riguardi si attenua e cambia il
suo modo di giudicarlo. Colombo ci si presenta ora come un uomo
astuto, bramoso di oro, violento e dispotico. Nel Canto V della
prima Elegía è trasparente la deformazione
operata sulla sua figura, precisamente quando il cronista riferisce
il suo pensiero, o discorso, in occasione dei doni preziosi che gli
reca Goaga Canari: con gli «indios rudos»
-il buon
sacerdote di Tunja non doveva averli in troppa simpatia-, dei quali
non intende la lingua, Colombo si comporta da sfrontato
approfittatore:
|
Ma Juan de
Castellanos rivela ora una sua preoccupazione: quella di esaltare
l'Autorità e l'ordine. È vero che ai suoi tempi
l'immagine di Colombo nella Colonia doveva essere già
alquanto sfuocata, ma far passare l'Ammiraglio per un uomo dominato
da non so quale spirito cattivo, come avviene nel secondo canto
della terza Elegía, dove Juan Aguado sembra una persona
di tutto rispetto, preoccupata del bene pubblico -«El Joan Aguado, visto
que le daña / al Cristóbal Colón algún
mal seso, / mandó que se partiese para España / y en
corte se presente como preso;»
- è
forse troppo. Ancora più sconcertante è la
presentazione di Bodadilla, nel canto terzo della stessa
Elegía,
come buon governatore. Nel successivo canto il poeta rappresenta,
con la perizia e la drammaticità di cui è capace, il
naufragio e morte del personaggio, nella spaventosa tempesta che
Colombo, inascoltato, aveva previsto. Più celebrato ancora
del Bobadilla è l'Ovando, nel canto primo della quinta
Elegía
definito «persona cabal,
santa, bendita»
, avendone detto già
precedentemente meraviglie, presentandolo come premuroso
festeggiatore di Colombo, al suo arrivo nel porto di Ozama, dopo i
disastri del quarto viaggio di scoperta.
La storia
dell'Ammiraglio viene ora conclusa in fretta. La quarta Elegía si chiude,
infatti, sulla morte dello Scopritore, compiute nella vecchiaia
numerose opere pie, alle quali il Castellanos si mostra sensibile,
tanto che torna a parlare di «varón tan
excelente»
e a considerare con iperbolico
«espanto» le sue
«grandezas», tanto
più che nel suo impegno Colombo «No procurò
deleites ni gasajos, / mas sufridor fue grande de
trabajos»
. Infine il poeta ci offre un
nuovo ritratto, sintetico ma non privo di punte polemiche, del
Navigatore:
|
Il Castellanos non
manca di ricordare anche i figli del grande uomo: don Fernando, che
fu «en letras, en virtud,
insigne hombre»
, e Diego, che del padre
ereditò titoli e privilegi, fu il secondo viceré
delle Indie e si sposò con «la gran doña
María / que de la casa de Alba
descendía»
. Descritti in una
successiva ottava gli splendori dei funerali dell'Ammiraglio -cui
concorsero nobili e regnanti, non solo i re di Castiglia, ma
sovrani «también de
reinos extranjeros»
-, e indicato nelle
«cuevas de
Sevilla»
il luogo della sepoltura, il
poeta-cronista conclude con un epigramma latino, che come in altri
casi, traduce:
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Il riscatto è ora completo: Cristoforo Colombo torna a essere l'eroe cristiano che l'ormai affermata tradizione vedeva in lui.