Selecciona una palabra y presiona la tecla d para obtener su definición.
Indice


Abajo

Il canto della scoperta di Juan de Castellanos

Giuseppe Bellini





Pubblicando, nel 1893, il suo saggio Colón y la poesía1, Calixto Oyuela, dopo aver affermato che il Navigatore genovese fu, nel Diario e nelle lettere, il primo poeta della sua «magnífica hazaña», e questo per «el encanto, ingenuidad y gracia, el amor, el entusiasmo lírico y el profundo sentimiento de la naturaleza con que ensalza y describe la región virgen y espléndida que acababa de revelar al mundo»2, indica quale secondo documento poetico sul tema le Elegías de Varones Ilustres de Indias, del sivigliano Juan de Castellano (1522?-1605).

Egli definiva l'opera un'antica cronaca -per questo non si soffermava su di essa-, scritta in versi e in una lingua «de sabor excelente»; alludeva, comunque, alla «prolija relación», che affermava si leggeva però «con agrado», e il motivo di ciò lo individuava in quanto lo stesso Castellanos sottolineava, che «De suyo son gustosas las verdades»3.

Volonterosa valutazione, è evidente, più accettabile allorché l'Oyuela prosegue rivelando tratti che definisce di vera poesia nel poema, di cui esalta la grazia dello stile e quella nota di realtà che rimpiange di non trovare più frequente nella grande poesia del «Siglo de Oro». Lo studioso conclude affermando che vi sono occasioni, «aunque pocas», in cui il cronista diviene «verdadero poeta aun por el estilo, dejando desprenderse del espeso bosque de sus octavas ráfagas dignas de Garcilaso»4.

Il Castellanos fu un instancabile versificatore e solo in tempi vicini a noi il suo poema è stato rivalutato5. Per molto tempo lo aveva seppellito nel dimenticatoio la causticità di don Marcelino Menéndez Pelayo: il grande poligrafo aveva definito prolisse e noiose le Elegías, di difficile, se non impossibile, lettura, pur salvandone momenti meno infelici6. Si parlava, ancora dopo il giudizio del critico santanderino, di 150.000 versi7, che Manuel Alvar aveva ridimensionato a non più di 120.0008, e che infine Giovanni Meo Zilio ulteriormente ridusse, per l'esattezza, a 113.6099. Un poema, comunque, sempre immenso, faticoso non solo per la sua stessa estensione, ma soprattutto per le non poche cadute di tono, e tuttavia non privo di momenti interessanti.

Ispirate alla Araucana di Alonso de Ercilla, il poema che sta alla base di tutta l'epica ispano-americana, proprio il poeta spagnolo fu il censore, poco entusiasta, sembrerebbe, della seconda parte delle Elegías, delle quali, come autore di quella che egli stesso intendeva una cronaca in versi, elogia l'aderenza alla realtà storica10. Né in seguito altri critici vi furono che celebrassero le qualità poetiche dell'opera.

E tuttavia il poema di questo avventuroso eroe dell'ottava -da soldato scapestrato divenuto sacerdote (disse la prima messa a Cartagena de Indias), poi curato a Río Hacha e infine, uscito indenne da un processo dell'Inquisizione, stabilitosi a Tunja, nella Nueva Granada, ora Colombia-, rappresenta un momento importante della creatività della Colonia. A Tunja risiedeva anche Gonzalo Jiménez de Quesada (?-1579), il fondatore di Santa Fe de Bogotá e autore dell'Antijovio, voluminosa opera nella quale polemizzava contro il vescovo italiano Paolo Giovio, che, a suo parere, aveva ingiustificatamente detto male degli spagnoli. Il Castellanos, anzi, intimo amico del conquistatore-letterato, scrisse alcuni versi latini per il libro dell'amico.

L'ambiente culturale di Tunja era, all'epoca, ragguardevole. La cultura ruotava intorno al locale collegio dei gesuiti, di notevole prestigio, e fino a quella remota regione giunse, sembra, l'influenza della limegna «Academia Antártica», dove la letteratura italiana e i nostri poeti erano di casa, soprattutto l'Ariosto; dell'Accademia faceva parte anche Pedro de Oña (1570-1643?), autore dell'Arauco Domado, il frutto epico più rilevante della scuola di Ercilla. L'Araucana fa riferimento come a modello il Castellanos, ma le Elegías egli le iniziò -o forse le scrisse totalmente, non sappiamo con certezza-, in prosa, in quanto era sua intenzione di comporre una cronaca relativa ai primi conquistatori. Impiegò poi più di dieci anni per trasformare tanta prosa in verso, fatica immensa, spintovi, a suo dire, da amichevoli insistenze, forse degli stessi conquistatori o dei loro discendenti, in quanto l'Ercilla aveva posto di moda il poema epico. Scrive l'autore, rivolto «Al lector», all'inizio della quarta parte del suo poema, che il Paz y Mélia pubblica nel 1886 col titolo di Historia del Nuevo Reino de Granada:

«Entré en este ambajoso laberinto cuya salida fuera menos dificultosa si los que me metieron en él se contentaran con que los hilos de su tela se tejerán en prosa, pero enamorados (con justa razón) de la dulcedumbre del verso con que don Alonso de Ercilla celebró la guerra de Chile, quisieron que la del Mar del Norte se cantara con la misma ligadura, que es en octava rima».11



Benché in questa quarta parte il Castellanos preferisca il verso libero, felice scelta, secondo il citato editore se, in contrapposizione alle «macizas octavas reales», sottolinea la «descansada compostura» del metro scelto12.

Conquistatori ed eredi dovevano ora ritenere di maggior prestigio il verso che la prosa. Le cronache sulla conquista erano ormai tante e sembravano appartenere a un'epoca remota, del tutto superata. Per lo stesso Castellanos, inoltre, dovette giocare l'ambizione di emulare in qualche modo l'Ercilla. Sminuire le proprie pretese era tattica ricorrente nei prologhi, non solo per ostentare modestia, ma per prevenire, in qualche modo, le critiche malevole. Non v'è dubbio, tuttavia, che di fronte l'Araucana al volenteroso poeta di Tunja dovevano venire non pochi dubbi circa la validità della sua impresa, che però continua imperterrito. I grandi poemi cavallereschi affascinavano certamente il Castellanos, il quale, cultore di poesia italiana e latina, doveva conoscere bene anche l'Orlando furioso e l'Orlando innamorato. Infatti, il Meo Zilio rileva, con convincente documentazione, la presenza nelle Elegías non solo del Furioso, ma della Gerusalemme liberata, nonché della Divina Commedia13, benché rilevi soprattutto la lezione dell'Ercilla14. Certo testo non superabile l'Araucana, e tuttavia, interpretando il poema come relazione storica, nello spirito stesso dell'Ercilla, Tinca Garcilaso non aveva mancato di rimpiangere, nei Comentarios Reales, che chi aveva trattato della conquista degli indios Araucos, non lo avesse fatto in prosa, «porque fuera historia y no poesía, y se les diera más crédito»15. Juan de Castellanos aveva fatto di peggio, ripudiando la prosa già scritta per la poesia.

Col trascorrere del tempo le Elegías de Varones Ilustres de Indias, pubblicate per la prima parte nel 1589 e poi le prime tre nel 1847, mentre la quarta lo fu nel 1886, e tutto il poema tra il 1930 e il 193216, videro una lenta, ma progressiva rivalutazione. Gli studi del Pardo17 e del Rivas Sacconi18, hanno il merito di aver dato l'avvio a questo processo. Il lettore moderno, meglio disposto nei confronti del poema, con maggiori notizie anche sull'autore, coglie momenti di notevole riuscita artistica, in scene di battaglia e in passi di autentico lirismo, che richiamano il clima della poesia spagnola del Rinascimento, soprattutto di Garcilaso, ma che si inseriscono con originalità nella dimensione del meraviglioso consegnato da Colombo nel suo Diario. Valga il passo seguente:


¡Oh aves, que con lenguas esparcidas
soléis regocijar las alboradas,
en estas selvas frescas y floridas
por los muchos ramos derramas!



Juan de Castellanos terminava la sua versione in poesia delle Elegías dopo più di un ventennio di impegno e le stampava quasi alla vigilia del primo centenario della scoperta colombiana. Possiamo dare all'impresa il significato di un omaggio reso a Colombo, la cui figura domina giustificatamente l'inizio del poema, nel quale l'autore invoca significativamente non già Marte, come ci si aspetterebbe, ma la Vergine, Santa Maria. Il Castellanos si allontana, così, e dal modello italiano dell' Orlando furioso e da quello ispanico à l'Araucana: non canta «le donne, i cavalier, l'arme, gli amori, / le cortesie, l'audaci imprese [...]» e neppure, benché le gesta guerresche dominino, l'impero ercillano dell'«iracundo Marte». Nella Cristiada (1611) Diego de Ojeda darà poi al poema epico in America un accento spiccatamente religioso, cantando, in versi di straordinaria fattura, le gesta di Cristo e inaugurando così una lunga serie di poemi agiografici di vario livello, molti dei quali dedicati a celebrare Sant'Ignazio di Loyola. Ma il poeta della Nueva Granada, almeno per l'invocazione, precorre i tempi.

Alonso de Ercilla nell'Araucana denunciava apertamente il suo programma eroico: non gli amori, ma le imprese guerresche avrebbe cantato, non contro i mori ariosteschi, s'intende, ma contro gli indigeni, gli araucani; avrebbe celebrato «el valor, los hechos, las proezas / de aquellos españoles esforzados», che «a la cerviz de Arauco no domada / pusieron duro yugo por la espada», terminando per celebrare la resistenza indigena e la barbarie ispanica. Il Castellanos canta non meno «eroici» temi, ma senza le preoccupazioni umanitarie e indigeniste dell'Ercilla; egli narra a suo modo una storia della conquista, dove l'elemento tragico è presente, ma lo è anche quello sentimentale. L'invocazione alla Vergine definisce programmaticamente il clima religioso entro il quale l'autore iscrive la scoperta e la conquista dell'America. La richiesta di aiuto a Santa Maria e per sua mediazione a Dio significa non tanto il ripudio di schemi ritenuti stantii, quanto piuttosto l'assunzione della gesta americana nello spirito di Colombo, così ardentemente difeso dal Las Casas:


¡Oh musa celestial, Santa María,
a quien el alto cielo reverencia,
favorecedme vos, Señora mía,
con soplo del dador de toda ciencia,
para que con socorro de tal guía
proceda con bastante suficiencia.
Pues cómo vos seáis presidio mío,
no quiero más Calíope o Clío.



Un inizio ispirato; parrebbe l'introduzione ad un poema religioso: sarà invece un poema che celebra uomini «valientes», che descrive fatti d'arme, stragi e battaglie, in una rappresentazione efficace, come nelle cronache più valide della conquista -quella di Bernal Diaz del Castillo, ad esempio-; battaglie e stragi compiute, in apparenza, per la maggior gloria di Dio; scenari di grandezze umane e di umane miserie.

E tuttavia, l'invocazione citata introduce in modo appropriato al canto della gesta colombiana, crea un clima religioso, raccolto, quale si conviene a un avvenimento di tanta trascendenza, disposto da Dio. Non inutili per questo clima sono gli apporti autobiografici: il poeta-cronista si presenta vecchio, acquistando per ciò stesso dimensione sacrale, quella propria di un testimone della storia.

Con Cristoforo Colombo il mondo si apre a tempi nuovi, mentre il poeta si avvia, al contrario, alla fine. Juan de Castellanos accentua questa sua condizione, di uomo giunto al traguardo: «A cantos elegiacos levanto / con débiles acentos voz anciana». La serietà del suo proposito è affermata. Quindi il poeta si pone il problema del lettore -falso problema s'intende-: costui, forse, si preoccuperà che egli possa portare a termine la sua impresa, avendola differita per tanto tempo: avverta, invece, il lettore, che le buone imprese vengono spesso lasciate per ultime, dovuto a vari impedimenti; ad ogni modo lui, Castellanos, intende portare a compimento quanto si è prefisso, poiché lo considera il coronamento della sua vita:


Bien como blanco cisne que con canto
su muerte soleniza ya cercana,
no penen mis amigos con espanto,
por no la comenzar más de mañana,
pues suelen diferir buenos intentos
mil varios y diversos corrimientos.



In un passo successivo il poeta dichiara di aver consumato nella stesura della sua opera «noches en cantidad y alguna vela». Una gran fatica, certamente. Interessante, all'inizio del poema, è quanto il Castellanos dice a proposito del suo modo di procedere nella stesura dell'opera: anzitutto ripudierà l'ornato, che tanto alletta i cultori di poesia, per attenersi alla verità dei fatti e andrà avanti piuttosto spedito:


Iré con pasos algo presurosos
sin orla de poéticos cabellos
que hacen versos dulces, sonorosos
a los ejercitados en leello;
Pues como canto casos dolorosos,
cuales los padecieron muchos dellos,
pareciome decir la verdad pura
sin usar de ficción ni compostura.



La realtà storica è, perciò, preoccupazione fondamentale per il Castellanos; ma affermato questo egli non rinuncia alla fantasia, che si manifesta in creazioni di notevole efficacia, spesso in versi freschi, anche per l'insolita aggettivazione -«presurosos», «sonorosos»-, che richiama San Juan de la Cruz.

La protesta contro il verso ricercato, la sonorità della rima, sarà fatta propria, a distanza di secoli, da un altro poeta ispano-americano, certo di diversa statura, Neruda: nella dedica dei Cien sonetos de Amor (1959) a Matilde, egli denuncia l'artificio della rima, di ciò che rende «sonorosos», come si esprimeva il Castellanos, i versi; «rimas que sonaron como platería, / cristal o cañonazo», dirà il cileno, il quale fa altrettanta professione di adesione alla realtà, qui del sentimento.

Le prime quattro Elegías de Varones Ilustres de Indias sono dedicate, come detto, a Colombo e alla scoperta. Con sbrigatività il poeta descrive il mondo, dall'epoca del diluvio, diviso in due parti quasi uguali, delle quali «La una nunca vista ni sabida / sino fue de sus mismos naturales». Anche per il Castellanos Colombo è il prescelto da Dio perché diffonda la sua conoscenza nella parte ignota del mondo, ma anche perché, secondo l'ideologia imperiale dell'epoca di Carlo V, consegni questa parte «A rey que lo tenía merecido».

La prima novità che troviamo nella visione del poeta di Tunja è l'assimilazione del Genovese alla stirpe regia. L'impresa, voluta e predisposta da Dio, ha l'effetto di creare una sorta di parentela permanente tra il sovrano e Colombo: «Y ansí los dos y sus distantes gentes / vinieron a ser deudos y parientes». Affermazione ardita, se consideriamo il rigido distacco sempre mantenuto dai Re Cattolici, per quanto il figlio di Colombo, Diego, sposasse una doña María de Toledo, della potente casa d'Alba.

Successivamente il Castellanos affronta il problema delle origini dello Scopritore. Le molte malignità sul tema gli erano ben note, e anche la pretesa di Colombo di discendere da famiglia nobile, benché povera. Il figlio Hernando sosteneva questa discendenza nella sua biografia-difesa del padre19. E il poeta cronista riferisce le malignità dei nemici del Genovese, i quali affermavano che era di «oscuros nacimientos», ma questo gli ripugna considerarlo possibile per «tan ardiente pecho / y tan engrandecidos pensamientos»: non può essere che nobile chi presenta tali doti e il Castellanos risolve il problema affermando: «Y ansí creemos ser esclarecido / y en las tierras de Jénova nacido». Tutto è in questo modo sistemato: Colombo è di origini nobili e genovese, come del resto tutti i cronisti non si erano stancati di affermare.

Ma Juan de Castellanos non è ancora soddisfatto e ritorna sul tema della nobiltà, così scottante per l'ambiente in cui viveva e per la dignità stessa del suo canto; perciò fa discendere Colombo, come l'Oviedo, dalla nobile famiglia lombarda di «Pelestieles», o Perestrello, concludendo che, comunque sia, il personaggio è nobile per se stesso, vale a dire per le imprese compiute:


También le dan estirpe generosa,
afirmando por cierto que venía
de Pelestieles, gente valerosa,
familia principal de Lombardía;
mas sea como fuere la tal cosa,
fue Cristóbal Colón su nombradía;
e yo, cierto, generoso llamo
al tronco que nos dio tal alto ramo.



Atteggiamento moderno, sembrerebbe, precursore di quello con cui Quevedo nel Sueño del Infierno, a dispetto della boria dei nobili, cui pure apparteneva, proclama che «hidalgo» è colui che illustrandosi con la propria virtù, costruisce lignaggio per altri20. Senonché il Castellanos finisce per rovesciare il concetto: compiendo così alte imprese, Colombo conferma la nobiltà delle sue origini.

Naturalmente, allo Scopritore il poeta-cronista della Nueva Granada accomuna i fratelli, Bartolomé e Diego, «Mancebos valerosos y lozanos, / que desde sus principios dieron luego / muestras de pensamientos soberanos»: sempre insieme al fratello e a lui obbedienti, tutti valorosi marinai, benché Cristoforo li superi tutti nella navigazione d'alto mare, tanto che in Portogallo assai lo stimavano.

Un rapido riassunto porta ai viaggi del Genovese alle isole di Madera, dove -dice il poeta- risiedeva per la maggior parte dell'anno e dava ospitalità a «pobres peregrinos», tra i quali «hospedó con pía mano / una vez un piloto castellano». Siamo al noto «pilota anonimo», che avrebbe rivelato a Colombo l'esistenza di un nuovo mondo. Particolare non documentabile e tuttavia sempre suggestivo, al quale tutti i cronisti hanno alluso, con maggiore o minore insistenza, ma che Gonzalo Fernández de Oviedo dichiarava spregiativamente «novedad que anda por el mundo entre gente vulgar»21, una «hablilla», come la definisce Juan Gil, «que contiene claros elementos legendarios»22, comunque persistente se ancora in occasione del IV Centenario della scoperta tornavano a trattarne il De Lorenzo23, il Travers24, nel 1911 il Vignaud25 e nel 1976 lo stesso Manzano Manzano26. Il primo che aveva dato un'identificazione del fantomatico personaggio era stato l'Inca Garcilaso nei Comentarios Reales27. Hernando Colón, naturalmente, si era opposto sin dal primo momento alla diceria28 e per giustificati motivi: erano in gioco, infatti, i benefici delle capitolazioni di Santa Fe.

Da parte sua Juan de Castellanos accoglie come tema suggestivo la leggenda del pilota anonimo. Lo attesta la nuova versione che ne dà. Intanto egli traccia un quadro toccante della bontà e della generosità del Navigatore, solito a dare ai pellegrini che a lui ricorrevano «de lo poco que tenía». È così che una volta capita da lui un «piloto castellano», che pure era «gran navegante». Il poeta-cronista, comunque, non fa che riferire quanto si dice e a scanso di equivoci lo dichiara: «(según entonces se decía)»; poi tratta della tempesta che portò il misterioso pilota così lontano, «do no quería», verso terre da nessuno prima viste, tanto da fargli temere di non poter più far ritorno; quindi l'arrivo a Madera, debilitato e in fin di vita, insieme ad altri compagni, che presto morirono. Colombo avrebbe annotato con somma diligenza le «cumplidas relaciones / del prolijo discurso navegado». Così almeno si dice, ma il Castellanos offre un'altra possibile interpretazione, che Colombo e il pilota anonimo fossero in realtà la stessa persona:


Otros quieren decir que este camino,
que del piloto dicho se recuenta
al Cristóbal Colón le sobrevino,
y él fue quien padeció la tal tormenta;



cosa che al poeta-cronista non sembra «desatino», e perciò egli adotta questa versione e fa sì che nel poema Colombo parli ai suoi uomini come protagonista della misteriosa impresa, tanto più che di questo «dan razón algo fundada» alcuni personaggi stimabili, come l'amico Gonzalo Jiménez de Quesada, «varón adelantado», il quale


... no teniendo menos de letrado
que de supremo valor en el espada,
en sus obras comprueba por razones
ser éstas las más ciertas opiniones.



Un omaggio all'amico e uno scudo per sè, ma per onestà Juan de Castellanos riferisce anche altre possibili versioni: che Colombo avesse trovato una relazione scritta, «De tal antigüedad cual se requiere / para ser infalible conjetura». Ad ogni modo, comunque siano andate le cose, il risultato fu straordinario:


Mas, sea la tal cosa como fuere,
diligencia parió buena ventura,
pues prometió de darnos monarquía,
y fue mayor de la que prometía.



Al momento di scegliere la versione da seguire, non v'è dubbio, al poeta sembró più efficace e più in accordo con il carattere del protagonista quella della diretta esperienza tenuta nascosta. Il canto primo conclu- I de sulla certezza di Colombo di dare al sovrano «en poder un orbe nue- I vo», abbondante di genti, contro le opinioni contrarie, e colmo di rie- I chezze. Cioè, il poeta fa cosciente lo Scopritore dell'esistenza di un nuovo mondo.

Re e regina si mostrano d'accordo; Colombo è soddisfatto dei patti e grato ai sovrani, ma anche ai gentiluomini che gli diedero aiuto -il duca di Medinaceli, anche se non menzionato- e al «doto fray Joan Pérez de Marchena». La partenza avviene con il favore di Dio e della Vergine: I


«Es Dios el que gobierna, y es la guía
y el principal autor de la jornada,
y aquella benditísima María,
a quien siempre tomé por abogada:
en confianza suya se desvía
de tierras conocidas el armada;
mediante sus favores navegamos,
y ellos nos han de dar lo que buscamos».



Abilmente il Castellanos ha circondato di leggenda e di realtà storica l'impresa colombiana: un'avventura di mitica grandezza che avvince il lettore, intrapresa con felicità di tutti e sotto la protezione divina, nelle più splendide prospettive, dunque.

Il secondo canto tratta delle «diferencias» tra i marinai -qui «soldados»-, della villania con cui affrontarono Colombo durante il viaggio di scoperta. La lunga navigazione rende inquieti gli uomini e il malcontento, come sappiamo, determina la rivolta. Neil'affrontare il momento critico del Navigatore, il poeta muove abilmente la scena, presenta gli uomini tra arditi e timorosi. La spedizione attraversa temperature impossibili ed enormi uragani. Infine, «uno de vergüenza descompuesto» osa affrontare con insolenza Colombo e rinfacciargli la sua responsabilità per tante vite in pericolo, in un'avventura che è una vera pazzia.

Dalla confusione e dal guazzabuglio dei nomi delle Autorità addotte, emerge la teoria dell'inabitabilità degli estremi freddi del mondo e della zona torrida: la portano quale argomento determinante i ribelli ed è rifiutata, naturalmente, da Colombo, il quale ritiene allora che sia giunto il momento di fare la sua rivelazione: rivendicata l'unità del comando egli confonde, quindi, con le sue ragioni gli avversari.

Il contrasto è ben rappresentato dal Castellanos; la drammaticità del momento è resa nel concitato argomentare degli scontenti, che come unica prospettiva vedono «... el matadero / do nuestras tristes vidas fenezcamos». Il cronista si rivela abile sceneggiatore, oltre che valido poeta drammatico. Contrasta la calma con cui Colombo espone le sue ragioni, oppone le sue Autorità, ma soprattutto impegna il suo prestigio di marinaio celebrato e rivela il segreto del suo precedente viaggio -una gran menzogna-, che rende pubblico ora alla sua gente priva di fede:


Y porque no dudéis agora quiero
decir lo que jamás habéis oído:
debéis saber que yo soy el primero
que por donde vais se vio perdido;



alla sorpresa si aggiunge la drammaticità del racconto: una terribile tempesta, sei o sette giorni di «proceloso tiempo», poi il mare in calma, «Como remanso de potente rio», quindi l'avvistamento di «pedazos de madera / por encima de las ondas flutuando», annunci di terra vicina.

Castellanos si avvale qui di particolari propri delle vicende relative al primo viaggio colombiano: oltre ai legni, le foglie, le erbe galleggianti, gli uccelli... Una felicità del navigare, presto turbata dall'incertezza: terra conosciuta o incognita? La consultazione delle mappe convince Colombo della novità di quanto ha trovato, mentre la ciurma dorme, affranta dalla fatica. Al risveglio riprenderanno la via del ritorno a Madera e solo lui, Colombo, conoscerà il segreto delle terre verso le quali ora sta di nuovo andando, con maggior numero di gente.

Un canto vigoroso, affascinante per inventiva e per felicità di versificazione. Efficaci scene di tempesta e un ispirato poeta: Castellanos ha raggiunto un alto risultato artistico.

Ora, nel terzo dei canti, descrive la grande tempesta che coglie le navi di Cristoforo Colombo prima dell'avvistamento della terra americana. Il tema è d'obbligo, ma il poeta sembra particolarmente a suo agio nella rappresentazione del dramma; le navi sballottate dai flutti e il terrore universale che rende devoti:



Cuando la noche más oscurecía,
para mayores daños abre puerta;
[...]

Las naves al profundo sumergidas,
a veces a las nubes encumbradas,
por uno y otro bordo combatidas
y del oleaje casi zozobradas.
Desconfiaban todos de las vidas,
las manos a los cielos levantadas,
y de los sobresaltos y temblores
nacían grandes gritos y clamores.

Comienzan a rezar Avemarías,
y acaban en diversas oraciones,
unos dellos prometen obras pías,
los otros romerías y estaciones;
otros hasta dar fines a sus días
permanecer en santas religiones;
otros también en estas asperezas
se dejaban decir muchas flaquezas.



Una particolare disposizione per il chiaroscuro. La luce che avvista, dopo molto dubitare sulla sua realtà, il mozzo Rodrigo de Triana, rappresenta la salvezza e il coronamento dell'impresa. L'avvistamento è descritto dal poeta nel canto quarto e ha luogo ai primi albori del giorno. Juan de Castellanos rappresenta felicemente la sorpresa, l'entusiasmo dell'equipaggio, riferisce i canti di ringraziamento che si levano dalle navi. È il trionfo del Navigatore. La figura di Colombo torna in primo piano. Un maestoso canto gli riconosce categoria eccezionale e prospetta gloria e potenza su lui e per tutta la sua discendenza:


«Cristóbal, pues por ti Cristo nos vale,
válgate Dios, el rey y tu cuidado;
con grandes señoríos te señale
Aquel que te formó tan señalado.
Con gloria de los cielos te regale,
pues has el mundo todo regalado;
hereden señoríos prepotentes
los hijos que ternás y descendientes».



Si avvicina intanto il riconoscimento della nuova terra e questo è forse il passo più interessante del canto colombiano di Castellanos. Sembra di leggere il Diario del Genovese. Gli indios van facendo agli spagnoli con le mani «dulces señas»; il paesaggio è meraviglioso: alberi, monti, onde che si frangono sonore contro gli scogli, dintorni verdi e ameni, spiagge terse di invitante arena. Ma in particolare è la nudità degli abitanti, uomini e donne, che colpisce i nuovi arrivati. E a questo proposito il poeta di Tunja si discosta dalla visione di paradisiaca innocenza diffusa da Colombo. Come religioso, probabilmente, egli vede nella nudità non un segno di innocenza, ma un pericoloso incentivo al peccato. Tanto più che si tratta di esseri ben proporzionati, con splendidi corpi e capelli lunghi disciolti. Un vantaggio, umoristicamente, gli riconosce: la nudità evita loro di doversi cambiare: «Los galanes, las damas y los pajes / jamás deben mudar ropas ni trajes». Come si vede, benché nuda, una società interpretata a immagine e somiglianza di quella ispanica: «galanes», dame, paggi.

Il fatto della nudità, comunque, è una grossa preoccupazione per il buon sacerdote Juan de Castellanos; o è forse un'astuzia per avvincere il lettore? Ad ogni modo egli torna con insistenza sul tema, per denunciare nella nudità l'occasione inevitabile «Para solemnizar venéreas fiestas», l'incitamento a «empachosos accidentes»; non si inganni nessuno, avverte: gli indios sono ben lontani dall'innocenza, poiché anch'essi sono figli e discendenti di Adamo.

Il paesaggio umano si anima a questo punto; è un andare e venire di canoe colme di gente, di indios con archi e frecce, dipinti alla loro usanza, con gioielli rilucenti pendenti da nasi ed orecchie. Per questa gente le navi sono il motivo di maggior novità e le osservano a lungo con stupore. Gli indios dubitano se i nuovi venuti siano esseri umani oppure divini e a loro volta, nella straordinaria confusione, resa abilmente dal poeta, gli spagnoli restano in forse circa le vere intenzioni degli indigeni, personaggi strani:



Venían los más dellos embijados
desde los bajos pies a los cabellos;
de plumas de colores estampados
acudían también algunos dellos;
joyeles de oro fino mal labrados
pendientes de narices y de cuellos,
otros con brazaletes y con petos
que fueron a la vista más acetos.

Tocan unos grandes atambores,
caramillos y flautas imperfetas,
sonaban por encima los altores
caracoles a modo de cornetas;
dan otros alaridos y clamores,
otros hacían gestos y pernetas:
según lo que se ve cada cual piensa
ser todas amenazas de defensa.



Tra gli indios si distingue Goaga Canari; il quale incita gli indigeni a lottare contro gli spagnoli e a difendere la loro terra. Castellanos fonde momenti diversi della storia dell'incontro-scontro ispano-americano, ma senza stonature. Il capo indio è presentato mentre apostrofa con un lungo discorso la sua gente, nel dubbio se i nuovi venuti siano amici o nemici. In questo discorso il poeta inserisce numerose parole indigene, in ibrida mescolanza regionale, ma efficaci come risultato, relative a prodotti locali che gli indios sarebbero disposti a dare agli spagnoli se amici.

Juan de Castellanos allude anche all'episodio dell'india fatta salire da Colombo sulla sua nave e quindi rispedita tra i suoi vestita di tutto punto. Quindi gli spagnoli si riposano, poi prendono possesso «de todas partes», dando ai luoghi la denominazione di «Indias de occidente», e ciò avviene, secondo il cronista poeta, l'«Once de octubre, años cuatrocientos / con más noventa y dos y dos quinientos».

Colombo sembra scomparso dal poema, ma in realtà vigila nell'ombra. Tramonta il sole e tutti tornano alle navi, dove sta attento a tutto l'Ammiraglio:


Pues como luz de Febo ya hacía
absencia natural de luz humana,
y por medidos cursos se venía
la menos clara lumbre de Diana,
cada cual a su nao revolvía,
hasta ver resplandor de la mañana,
donde Colón estuvo vigilante;
y lo demás diremos adelante.



Come responsabile capitano che ha condotto a termine una difficile impresa, lo Scopritore è presentato privo di iattanza per il successo ottenuto; ciò gli dà nel poema alta categoria di condottiero e quella eccezionalità tra gli uomini che sola poteva farlo scegliere da Dio per la grande impresa.

Da qui in avanti, tuttavia, sembra di assistere a un cambiamento nell'atteggiamento del Castellanos: dopo aver così entusiasticamente celebrato il Genovese, l'interesse nei suoi riguardi si attenua e cambia il suo modo di giudicarlo. Colombo ci si presenta ora come un uomo astuto, bramoso di oro, violento e dispotico. Nel Canto V della prima Elegía è trasparente la deformazione operata sulla sua figura, precisamente quando il cronista riferisce il suo pensiero, o discorso, in occasione dei doni preziosi che gli reca Goaga Canari: con gli «indios rudos» -il buon sacerdote di Tunja non doveva averli in troppa simpatia-, dei quali non intende la lingua, Colombo si comporta da sfrontato approfittatore:


... «Poco va veros yo mudos,
Como hablen presentes tan lucidos;
pues en lo que nos dieron los desnudos
mejorarán el pelo los vestidos,
y más me holgaré cuantos más vengan,
por llevallos adonde en más se tengan.



Ma Juan de Castellanos rivela ora una sua preoccupazione: quella di esaltare l'Autorità e l'ordine. È vero che ai suoi tempi l'immagine di Colombo nella Colonia doveva essere già alquanto sfuocata, ma far passare l'Ammiraglio per un uomo dominato da non so quale spirito cattivo, come avviene nel secondo canto della terza Elegía, dove Juan Aguado sembra una persona di tutto rispetto, preoccupata del bene pubblico -«El Joan Aguado, visto que le daña / al Cristóbal Colón algún mal seso, / mandó que se partiese para España / y en corte se presente como preso;»- è forse troppo. Ancora più sconcertante è la presentazione di Bodadilla, nel canto terzo della stessa Elegía, come buon governatore. Nel successivo canto il poeta rappresenta, con la perizia e la drammaticità di cui è capace, il naufragio e morte del personaggio, nella spaventosa tempesta che Colombo, inascoltato, aveva previsto. Più celebrato ancora del Bobadilla è l'Ovando, nel canto primo della quinta Elegía definito «persona cabal, santa, bendita», avendone detto già precedentemente meraviglie, presentandolo come premuroso festeggiatore di Colombo, al suo arrivo nel porto di Ozama, dopo i disastri del quarto viaggio di scoperta.

La storia dell'Ammiraglio viene ora conclusa in fretta. La quarta Elegía si chiude, infatti, sulla morte dello Scopritore, compiute nella vecchiaia numerose opere pie, alle quali il Castellanos si mostra sensibile, tanto che torna a parlare di «varón tan excelente» e a considerare con iperbolico «espanto» le sue «grandezas», tanto più che nel suo impegno Colombo «No procurò deleites ni gasajos, / mas sufridor fue grande de trabajos». Infine il poeta ci offre un nuovo ritratto, sintetico ma non privo di punte polemiche, del Navigatore:


De Nervi natural, lugar honesto,
que dicen descender de Lombardía,
severo, rojo, de pecoso gesto,
feroz en muchas cosas que hacía:
alto de cuerpo, pero bien compuesto
en cuantas proporciones poseía,
varón en sus intentos fue notable,
y en el salir con ellos admirable.



Il Castellanos non manca di ricordare anche i figli del grande uomo: don Fernando, che fu «en letras, en virtud, insigne hombre», e Diego, che del padre ereditò titoli e privilegi, fu il secondo viceré delle Indie e si sposò con «la gran doña María / que de la casa de Alba descendía». Descritti in una successiva ottava gli splendori dei funerali dell'Ammiraglio -cui concorsero nobili e regnanti, non solo i re di Castiglia, ma sovrani «también de reinos extranjeros»-, e indicato nelle «cuevas de Sevilla» il luogo della sepoltura, il poeta-cronista conclude con un epigramma latino, che come in altri casi, traduce:


Este poco compás que ves encierra
aquel varón que dio tan alto vuelo
que no se contentó con nuestro suelo,
y por darnos un nuevo se destierra.
Dio riquezas inmensas a la tierra,
innumerables ánimas al cielo.
Halló donde plantar divinas leyes,
y prósperas provincias a sus reyes.



Il riscatto è ora completo: Cristoforo Colombo torna a essere l'eroe cristiano che l'ormai affermata tradizione vedeva in lui.





 
Indice