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ArribaAbajo Letteratura e filomitia: il Jardín de flores curiosas di Antonio de Torquemada

Giorgio Volpi


Universidad de Perugia



ArribaAbajoI fiori, le aiole e le spine nascoste

Riguardo al Jardín de flores curiosas di Antonio de Torquemada nella edizione curata e introdotta da Giovanni Allegra, è opportuno adottare un modus legendi consistente nel posticipare la lettura della prefazione a quella dell’opera761. Il giardino torquemadiano, in cui ci si è così speditamente introdotti, si presenta diviso in sei trattati che tentano di dare ordinata disposizione a una flora e a una fauna che -insofferenti quant’altre mai di schemi e classificazioni- riescono nell’insieme a straripare, nei loro colori e varietà di forme e tortuosità d’intrecci, oltre i margini delle aiole/trattati che l’autore/giardiniere s’ingegna a delimitare.

Da principio s’incontra una rassegna teratologica con aspetti spesso baracconeschi, finché ci sfrecciano davanti, con i loro piedi   —448→   di otto dita rivolti all’indietro, gli uomini del monte Milo. Questi uomini -«de maravillosa velocidad en el correr»762- con la loro comicità rapidamente trascorrente nel tempo e nello spazio delle quattro righe in cui Torquemada costringe la loro apparizione ci rammentano che il meraviglioso non è sempre il mostruoso e il mostruoso non fu sempre l’orribile. Non molto dopo si trova la fonte di nome Eleusidis, il getto della cui acqua s’acresce quanto all’intorno si diffonde il suono di un flauto. Ma anche le pietre crescono o decrescono e dal marcire di certi legni e foglie nascono uccelli, mentre foglie di altro tipo -una volta cadute- «se mueven y andan sobre dos puntas que tienen de una parte que parecen pies»763. Piú oltre, nel variopinto giardino passa il fiume Alfeo, che nasce in Grecia e s’incaverna per riaffiorare in Sicilia insieme con le cose che gli sono state gettate dentro nella terra d’origine, mentre su variamente remoti orizzonti si dispongono le molteplici localizzazioni del paradiso terrestre, le montagne svettanti al di sopra delle nubi dove non c’è vento e l’aria è perfetta pura, le calde e fiorite vallate difese dall’incastonatura di innevate catene montuose nel Settentrione d’Europa. Tra tanti sichiami delle terre felici in cui s’è proiettata senza alienazione la nostalgia di perfezione che l’uomo ha in sè, vien quasi da invidiare il gruppetto di viaggiatori del giardino cui il demonio mise a disposizione il suo velocissimo cavallo o mantello, perchè «como el ángel llevó por un cabello el profeta Abacuc [...] y lo puso en Babilonia [...], pudo también el demonio llevar esos hombres en una hora tan largo camino como hay de Olmedo a Granada»764.

Ci siamo così portati su alcuni di questi incoglibili fiori curiosi, senza riguardo per i limiti contenutistici e strutturali dei vari trattati, a prova dell’omogeneità di questo «materiale» così policromo e multanime, spirituale e spiritato. Del resto, discutendo sul luogo del paradiso terrestre, non dice forse uno dei tre interlocutori che «no faltó también quien dijese que el Paraíso terrenal era todo el mundo que habitamos»?765. La «sistemazione»   —449→   operata da Torquemada non è classificazione razionalizzante, ma compendio in un libro, in un giardino appunto, della mirabilità del mondo. Il Jardín è cifra, come non casualmente vien detto propio nella sua ultima pagina, e le demarcazioni fra i trattati sono solo bordi di sentieri, di quelle redole che Torquemada sembra aver tracciato -como scrive Allegra- affinché il lettore non s’abbandoni a un inconcludente vagare. Ma se le cose del mondo dove tutto è possibile si somigliano tutte in qualcosa, la loro sostanziale omogeneità d’essenza non deve celare i sottili legami secondo cui nel giardino si collegano certi elementi mirabolanti o magici, dando luogo a corrispondenze e fili in cui dovette passare non poca tensione con la mentalità ortodossa e costituita del secolo di Torquemada. Forniremo tre esempi.

Trattando di caso e fortuna, i due interlocutora di Antonio (il personaggio in cui più che nascondersi si espone Torquemada) sollevano varie volte il dubbio che certi comportamenti di animali possano attestare la presenza nei seconda di «alguna centella de razón o de entendimiento»766. La risposta di Antonio si articola in due represe che sembrerebbero avere la sonorità e il potere recidente di due colpi di mannaia che, in sintesi, ammoniscono a lasciare all’uomo quel che è dell’uomo: la ragione e l’intelletto. Ad ogni modo il sospetto di una probabile o presunta non totale irrazionalità degli animali è stato inoculato e acquisisce una forza maggiore solo che si pervenga, seguendo uno dei fili di cui sopra, ai passi relativi al grosso pesce domestico che portava sul dorso i bambini per il lago di Santo Domingo, ai tritoni che spinti dalla curiosità salgono sulle navi degli uomini, cosicché alcuni sono stati trovati «tan embebecidos y descuidados mirando» che li si è potuti catturare, alla tristezza infinita che traspariva dal volto della sirena catturata. Le differenze tra natura umana e animale sfumano così nel riavvicinamento non solo in ciò che -lo si chiami ragione o intelletto, come fa Torquemada, o in qualunque altro modo- si traduce in azioni finalizzate, ma anche in ciò che l’uomo -quando lo prova in sé- chiama dolore, curiosità, paura.   —450→   Riapprossimazione che si attua anche nei numerosi casi riportati nel Jardín di accoppiamenti tra donne e animali: rapporti nei cui protagonisti animali il narratore di turno rileva spesso la presenza di quel che, quando lo riguarda l’uomo chiama affetto o amore. Lungo questo filo, che va dall’«umanità» dell’animale all’«animalità» dell’uomo attraverso la mediazione mitica di creature intermedie quali sirene e tritoni, si riducono di molto l’aseità e il primato ontologici usualmente attribuiti alla natura umana rispetto alla natura animale e alla natura in generale. E della delicatezza della questione dovette essere consapevole Torquemada che, nelle vesti di Antonio, si assume onere e merito della confutazione di quel che tuttavia fa esprimere ai suoi due amics: ambiguità caratteristica che diventa ancor più evidente nella chiusa della discussione sul punto considerato. Antonio, infatti, asserisce che la «determinación» è che gli animali non posseggono la ragione, «aunque cerca de lo que habemos tratado» -quindi relativamente alla questione nel suo complesso- si sarebbero potuti addurre molti altri argomenti che, però, vengono demandati a non meglio precisati filosofi, adducendo che scopo proprio della discussione era stabilire cosa siano caso e fortuna. E’ questa una delle innumerevoli manifestazioni di un anguillesco procedere tipico di Torquemada, il quale suol sempre lasciare la presa quando l’oggetto di cui si sta occupando è in procinto di farsi scottante. Questo in via di una prima approssimazione: si vedrà nella terza parte come siffatto «irse por la tangente», al di là di comprensibili esigenze cautelative, risponda a particolari aspetti che -appartenendo all’ambito del pensiero mitico-magico- solo analogicamente si possono qualificare come «teorici» e «metodoligici».

Quello appena finito di considerare non è che uno dei legami e filamenti spinosi che attraversano il giardino. In che misura l’autore li pose intenzionalmente o quanto meno s’accorse di essi? E in quale, invece, essi si tendono per impulso e forza propri, per un richiamarsi a distanza di elementi da un capo all’altro del libro? Impossibile dire. Resta il fatto che nel Jardín dati, che presi isolatamente appaiono «solo» magici o meravigliosi o mitici o mostruosi, si rivelano, se collegati fra loro secondo caratteristiche   —451→   comuni anche pericolosi: pericolosi per coloro che vigilavano sull’ortodossia delle opinioni e dei libri, pericolosi -per ovvio rovesciamento- per lo stesso Torquemada, e singolarmente attuali dato il presente gran parlare e trattare di dei e dee, mito e magia, religiosità e superstizione popolari. E’ questo perciò il luogo più opportuno per introdurre un secondo esempio di filo spinoso del giardino torquemadiano.

Sempre nel quarto trattato Antonio -che dirige la discussione e fornisce la maggior parte delle notizie- irride la concezione classica della fortuna e riporta l’uso pagano di dedicare templi e preghiere sia alla fortuna prospera che all’avversa. Interviene poi Luis con un argomentare sillogistico che difficilmente potrebbe venir impiegato più inopportunamente che per questo genere di problemi: i pagani -così deduce dalle parole di Antonio- o sdoppiavano in due la dea Fortuna, nella buona e nella cattiva, oppure avevano una divinità che aveva in sé una parte malvagia «lo cual era contra la opinión común de todos; pues que los dioses, por sus bondades y virtudes, eran dioses, como lo siente Tulio en el De natura deorum»767. Si ha così l’affermazione dell’ intellettualistico oggettivismo teologico-morale per cui Dio non può volvere che quel che di per sé è giusto e buono. Subito dopo Bernardo constata che gli antichi pagani facevano «lo que al presente hacen muchos gentiles en muchas partes y provincias de la India mayor, como tres días ha que lo tratábamos, y el señor Antonio nos lo dijo»768: il richiamo è al momento della seconda giornata di discussione nel quale Antonio aveva riferito che nell’«India Mayor» e ancor più nelle Indie Occidentali si adorava il demonio affinché non facesse tutto il male che avrebbe potuto e non si adorava Dio perché non ce n’era bisogno essendo egli sommamente buono769. Di rimando, Luis paragona esplicitamente l’uso dei gentili de Grecia, Roma ed entrambe le Indie a quel che aveva fatto una volta una vecchia «que poniendo candelas encendidas a todos los santos que estaban pintados en una iglesia, las   —452→   puso también a un diablo que tenía atado San Bartolomé»770. Se la storiella avesse qui termine, con la vecchia ingenua o distratta che nello slancio devozionale mette una candela anche all’immagine del diavolo, l’opera torquemadiana quanto a vis comica ne guadagnerebbe. Ma col periodo che segue -«y preguntándole por qué lo hacía, dijo que a los santos, porque le ayudasen; y al diablo, porque no le hiciese mal»- la vecchia si rivela a suo modo teologa e «loica», e questa sua capacità di ragionamento e replica, se riduce il rilievo artistico e la simpatia umana della sua figura, incrementa per contro la significatività del suo caso e dell’inserimento di esso -e proprio in questo punto- nel Jardín.

Antonio assolve l’intenzione della vecchia, «pues era buena, mezclada con ignorancia», con atteggiamento di tollerante bonomia che mal si rapporta con la tesi di un Torquemada erasmista. Il riferimento a Erasmo, alla polemica contro certi aspetti del culto e della devozione popolari dal rotterdamense fatti direttamente discendere dal paganesimo, aiuta però a meglio avvertire che tipo di tensione passasse sul filo appena finito di evidenziare771. Esso è molto breve e diretto (una pagina e mezzo scarsa nell’edizione impiegata), mentre l’esplicito riallacciamento a un passo di un centinaio di pagine prima dimostra come la questione di cui è vettore fosse presente in tutta la sua pienezza a Torquemada: venivano strettamente accostate tre realtà che la chiesa considerava egualmente nemiche: l’antico politeismo, il paganesimo delle Indie orientali e occidentali, la superstizione popolare. A un lettore attento, ai minossi inquisitoriali non poteva sfuggire che quelle tre realtà invise alla chiesa ne costituivano in verità una sola centrata sull’essere e sull’azione del grande Avversario. E ci si poteva anche risovvenire che il demonio di tanta letteratura e iconografia, di tante credenze e leggende, somigliava   —453→   moltissimo a un antico dio silvestre dato per morto, dio lussurioso e d’aspetto caprigno, ma pur sempre un dio. Luis avrebbe potuto chiedersi se il divino si identifica e si esaurisce davvero con ciò che la morale legittima o raccomanda o prescrive in quanto intellettualisticamente buono e giusto.

Di questi fili pericolosi ne indicheremo un altro che non è certo l’ultimo, ma solo uno ulteriore in un posto di «cosas tan peregrinas y provechosas» qual’è il Jardín.

Nella quinta giornata Bernardo chiede se sia vero che i Neuri -abitanti di una provincia della Moscovia- si trasformino in certi mesi dell’anno in lupi, per poi riassumere le fattezze umane. Antonio risponde che i geografi antichi riportano quasi tutti questo fatto, che i moderni non ne dicono nulla e che esso può considerarsi una bugia «salvo si entre estas gentes había algunos hechiceros o encantadores en aquellos tiempos, que con su arte hiciesen entender que era propio de los que habitaban aquella provincia hacer cada año esa mudanza, contra toda razón de naturaleza. Y esto bien podrá ser así y dársele crédito»772. Questo accenno ai Neuri si connette con quello loro dedicato nel trattato sesto, ove Antonio dice che se l’antica credenza sui Neuri «algún fundamento de verdad pudo tener, es por lo que todos los autores modernos afirman: que, como en estas provincias hay tantos encantadores y hechiceros, tienen sus tiempos determinados en que se juntan y hacen sus congregaciones; y para esto, todos toman las figuras de lobos. Y, aunque no declaran la causa por que lo hacen, de creer es que tienen algún concierto o pacto con el demonio [...]; y como quiera que sea, no hay que dudar de que hagan esta transfiguración»773. Col secondo intervento sull’uomolupo, Antonio precisa in duplice senso quanto detto nel primo: da un punto di vista contenutistico riconduce, cogliendone le caratteristiche rituali esoteriche cicliche, a quella tematica dell’uomo-lupo che Allegra ricostruisce nel suo articolarsi in una variante magico-erotica e in una totemica, mentre sotto un profilo   —454→   formale completa un importante passaggio logico, della logica propia del pensiero mitico-magico.

Il silencio dei moderni sull’uomo-lupo doveva per Torquemada esser pesante: si tenga, fra l’altro, conto che il primo passo sui Neuri si inserisce nell’esame delle difficoltà di concordare i dati forniti dagli antichi con ciò che modernamente s’era andati scoprendo, specie in relazione al Settentrione d’Europa: il passo s’attacca, infantti, direttamente alla notizia che viaggiatori moderni hanno trovato nient’altro che vaste pianure nel loggo dove gli antichi avevano collocato i monti Rifei. Torquemada vede che il recarsi sul posto minaccia o dissolve antiche credenze, che il tacere dei moderni poteva da un giorno all’altro venir sostituito dal non trovare e questo a sua volta dal negare quel che un tempo era stato creduto. Però -e questo è un colpo da maestro di logica del meraviglioso- i moderni dicono che il Nord è pieno di stregoni e incantatori e sono questi che -brano del quinto trattato- fanno intendere che ci siano uomini-lupo o che -brano del sesto- si trasformano essi stessi in lupo: sia come sia, non si può dubitare di possibilità e realtà della trasformazione. Nel ragionamento di Antonio, il riferimento al demonio poteva giustificarsi teologicamente o per considerazioni di opportunità, ma riguardo alla logicità del processo di pensiero non era necessario.

E circa tale logicità, si osservi anche come questo punto del giardino torquemadiano ricordi certi, più celebri, punti della Mancia, como -fuor d’immagine- la soluzione trovata da Antonio per gli uomini-lupo formidabili campioni in Don Chisciotte. Si rammenti comme l’esistenza e l’azione ostile del mago Frestón consentano all’eroe cervantino di ipostatizzare la trasformazione dei giganti nei mulini a vento che lo avevano sconfitto: una tal spiegazione si fonda su un processo logico che Don Chisciotte applica di continuo e assume le proporzioni di una vera e propria teorizzazione quando, tra le asperità della Sierra Morena, il cavaliere spiega allo scudiero il senso dell’episodio, verificatosi qualche giorno prima, dell’elmo di Mambrino/bacinella di barbiere: il mago favorevole a Don Chisciotte aveva fatto sì che l’elmo apparisse agli occhi bacinella, affinché non tentassero di impossessarsene;   —455→   e la spiegazione magica vien rafforzata con una prova empirica: «como ven que no es más que un bacín de barbero, no se curan de procuralle, como se mostró bien en el que quiso rompelle, y le dejó en el suelo sin llevarlo, que a fe que si le conociera, que nunca él le dejara»774. L’intrinseca consequenzialità di tal modo di pensare e argomentare è stata penetrantemente analizzata da un allievo -e poi collaboratore significativamente mancato- di Husserl: Alfred Schütz775. Questi non si limita a stabilire che i maghi svolgono, nel particolare mondo (sub-universe) di Don Chisciotte, la funzione causale e motivazionale, e che «their activity is the basic category of Don Quixote’s interpretation of the world», ma giunge a qualificare del tutto logica la conclusione che il Cavaliere dalla Triste Figura trae al termine dell’avventura di Clavileho, e come perfettamente corretto in termini di logica formale il ragionamento con cui il barbiere già propietario dell’elmo/bacinella mostra di cedere alla logica magica che la composita compagnia sua interlocutrice aveva adottato per celia mutuandola da Don Chisciotte776. L’approfondimento schütziano si spinge fino al riconoscimento dell’insufficienza dei criteri logico-formali riguardo al problema della possibilità di comunicazione e passaggio fra il mondo del meraviglioso e quello della realtà del senso comune. Insufficienza che -si può aggiungere- va imputata anche alla logica mitico-formale esposta da Cassirer777.

Oltre questo punto, sulle tracce di Schütz, non ci possiamo inoltrare: quel che qui interessava era mettere in luce l’ambito tematico che si quando Torquemada, in modo così spontaneo e «naturale», postula l’esistenza di stregoni e incantatori per poter attestare quella degli uomini-lupo. Con ciò si compie nello stesso tempo un passo ulteriore nella riduzione di distanze tra Torquemada e Cervantes che Allegra avvia notando che, malgrado il   —456→   giudizio sull’opera di Torquemada espresso nel vaglio che prete e barbiere fanno della biblioteca di Don Chisciotte, Cervantes stesso «no faltó, en ocasión tan sonada como la del Persiles, de utilizar ad abundantiam paisajes, mitos y fantasías septentrionales que el Jardín ofrecía»778. Forse, la liberazione unamuniana di Don Chisciotte da critici, eruditi, storici e da Cervantes stesso va estesa anche ad altre figure del Chisciotte, in questo caso a quel prete -così ostile a Torquemada- che va dotato, come personaggio e come simbolo di un ceto e di una cultura, di una sua propria identità e di una autonomia di giudizio fondata sulle categorie di una logica che non era certamente quella di Don Chisciotte e che non corrispondeva d’altronde nemmeno a quella del Cervantes che concepì il suo massimo eroe.




ArribaAbajoL’ambivalenza del viaggio

Il giardino dei fiori curiosi è quasi completamente chiuso a Occidente: poche le notizie che vi giungono dall’America a incremento della fenomenologia del meraviglioso; qualche volta ne vengono a detrimento: che nelle Indie occidentali si siano presi gli Spagnoli in groppa ai cavalli per un essere unico indicherebbe quale sia stata la genesi della figura del centauro della mitologia classica779. Allegra scrive che il Jardín esce quando l’impresa americana è ormai esaurita. Del resto, missione legislazione amministrazione ripartizione terriera e sfruttamento economico s’erano attivati fin dall’inizio780. A compenso dello sbarramento sul lato di ponente, il giardino si spalanca a Nord, sulle distese nevose, sulle catene di monti mai valicate, sui boschi di betulle: l’albero dalla scorza di seta la cui sacralità Torquemada registra,   —457→   spiegandola però in modo invero superficiale. Il Nord, a essere -si fa per dire- precisi, il Nord-Est di Torquemada non è paese di tenebra cimmeria: la sua gelidità è anche chiarore e incontaminatezza. E fra quelle terre di nevi e foreste, certe catene di monti racchiudono e proteggono in sè valli temperate e rigogliose: frammenti mediterranei incastonati nei ghiacci, enclavi solatii che per Torquemada sicuramente si trovano -per la corrispondenza di caratteristiche fra polo artico e antartico- anche sotto il polo Sude781. Biarmia superiore e Botnia aquilonare sono le due principali contrade beate, «bienaventuradas», del Nord di Torquemada, anticipazioni e avamposti del fasto felice paese degli Iperborei, di quei più che uomini che vivono al di là del punto in cui nasce il vento Borea, oltre la terra delle tenebre perpetue che si espande al di là dei Monti Rifei: il più possente dei baluardi si frappone in tal modo a difesa del più grande e prezioso tesoro geografico torquemadiano782. E Torquemada si prefigura sovente la dovizia di strane notizie e casi mirabolanti che potranno elergire le zone settentrionali e le altri parti del mondo ancora da scoprire o da conoscere meglio783. Eppure, in quest’attesa non c’è trepidazione, ma piuttosto un rimettersi alla volontà divina, al momento «cuando Dios fuere servido», con l’aggiunta di una finissima venatura di rassegnazione, un fondo d’ansietà che si struttura anche in un curioso (potrebbe essere altrimenti?) altalenarsi di motivi: gli antichi non conobbero né scoprirono tante parti della terra quanto i moderni «que han visto, andado y caminado y navegado tanto», eppure Antonio proclama la sua sottomisione al principio d’autorità rispetto ad autori e moderni e cita, facendolo proprio, il passo in cui Solino retoricamente si chiede che cosa ci sia rimasto di non toccato dalla solerte ricerca degli antichi; anche per le regioni polari, quantunque ancora poco esplorate, «se cumplió -sostiene Antonio- lo que dijo Cristo que ninguna cosa hay encubierta que no venga a ser revelada», eppure il mondo è stanco come una terra troppo lavorata, e quanto più va più s’invecchia e tutte le cose si vanno facendo più   —458→   piccole: infatti, malgrado i moderni casi di gigantismo -che Antonio significativamente tende a confinare nelle sue predilette zone polari del globo- e malgrado i pochi sorprendenti casi di vecchi che tornarono a ringiovanire, la statura e la durata della vita degli uomini si sono sempre più ridotte con l’andare dei tempi784. Questa comparsa nel giardino dei temi del «saenescens saeculum» e del «Nil dictum quod non dictum prius» è come un protendersi di ombre rattristanti culminante nel passo che chiude il trattare del decrescere di età e statura umane in relazione al decorso del tempo785. Qui il rapporto dell’uomo col mondo viene mediato da una ragione che calcola e tien conto di beni e soprattutto mali ricevuti e che conclude esprimendosi a favore dell’uscita dal mondo: si sarebbe tentati di vedere in questo brano l’unica spina palesemente barocca del Jardín, se non vi fosse, più che l’orrore, il desiderio del trapasso; l’anelito del «cupio dissolvi» vien sì a fondarsi sulla miserabilità del mondo -detto per altro qui «miserable» per la prima e unica volta- ma in definitiva quel che viene espresso è il desiderio di affrettare la conclusione del viaggio che la vita di per sé rappresenta. Che la vita sia un viaggio è il senso del brano nel suo insieme: senso che traspare in maniera particolarmente chiara in quel «después vengamos a gozar» in cui si anticipa un esser giunti che presuppone il compimento dell’andare. Il trascorrere della vita e attraverso la vita è passaggio necessario per raggiungere la condizione perfetta ed è della desiderabilità dell’acceleramento che Antonio in quel passo parla. In ogni caso, per quanto l’atmosfera generalmente serena del giardino recuperi attenuandolo il tema del dissolvimento, facendone la fase finale dell’itinerario che può condurre alla beatitudine, rimane pur vero che le idee della morte, dell’invecchiamento   —459→   e miserabilità del mondo, degli antichi che han detto e fatto già tutto o quasi appaiono strane in quell’atmosfera, così come singolarmente ambigua è la presenza di una punta di rassegnazione di fronte al progresso di scoperte e conoscenze geografiche in chi da tale progresso pur s’attende meravigliose notizie. Tutto ciò è segno della consapevolezza o intuizione torquemadiana dell’equivocità del viaggio che, prendendo l’avvio dalla vista, dalla notizia, dal desiderio del meraviglioso, finisce, trovandolo, col dissiparlo divulgandolo e rendendolo accessibile a chi non lo comprende nè rispetta. Torquemada aveva aventi a sé il caso dell’America, la quale non per caso compare a malapena nel Jardín: in modo del tutto insignificante se si confronta la sua con la parte che vi ha il Settentrione d’Europa. II caso dell’America testimoniava l’origine religioso-teologica dell’ambivalenza del viaggiare e dello scoprire dell’uomo occidentale per le sorti del meraviglioso. Antonio riferisce che gli abitanti delle Indie Occidentali -così come era accadutto nell’«India Mayor»- hanno compreso che da quando nella loro terra sono arrivati i cristiani il demonio non ha più su di loro il suo antico potere, né appare né parla loro con la facilità che prima gli era consueta; ma il Nord è rimasto terra magica e demonica, in cui «parece que el demonio está más suelto y tiene mayor libertad que en otras partes; y así, quieren decir algunos que es la principal habitación de los demonios, conforme a la autoridad de la Sagrada Escritura, que dice: De la parte de Aquilón ha de salir y descubrirse todo el mal786. Di seguito, Antonio ha cura di precisare che tale asserzione biblica, così come Zaccaria 2, 10, vien solitamente riferita all’Anticristo che avrà da venire da Nord. Quindi Bernardo, valendosi della plurisignificatività e conseguente pluriapplicabilità dei passi della Scrittura, riferisce al Nord le parole rivolte a Lucifero in Isaia 14, 13; a sostegno della plausibilità di questo riferimento s’adduce infine un elemento fattuale: il gran numero di negromanti e incantatori presenti nel Nord. In via di fatto e per citazione sacra la demonia del Nord risulta così dimostrata. Terra generalmente magica, il Settentrione presenta regioni ad alta concentrazione demonica, como la Vilapia e la Pilapia, il cui accesso è   —460→   precluso dalla malignità dei suoi abitanti e dei suoi spiriti. Il Nord è riserva magica, terra d’esilio e rifugio per dei, demoni e mostri, permanentemente minacciata di penetrazione e riduzione: chi in essa entra senza esservi costretto o relegato o, comunque, ne fa ritorno e ne racconta, è destinato a dissolverne almeno in parte l’incanto. Per questo il viaggio ha due facce. Anche il giardino torquemadiano ha specifici luoghi di confino per gli autori delle violazioni più gravi e vi compaiono anche le isole che, all’apparenza deserte, si erano poi rivelate ai naviganti infestate da frotte di satiri irsuti e lascivi: l’isola è luogo d’esilio per costituzione ed eccellenza e la figura del demonio corrisponde a quella del satiro e del più calunniato fra tutti gli dei787. Il Jardín è di per sé «isola» del favoloso e il Settentrione d’Europa, all’interno di questa zona franca del prodigioso in cui la sola legge è quella di violare qualche legge fisica, naturale, civile o canonica, il Settentrione si rovescia da luogo di confino in luogo privilegiato, da periferia d’emarginazione in terra d’elezione. Torquemada sa che per intrinseca tendenza espansiva di quella «policía» che egli nomina non per caso una sola volta in tutta l’opera le zone marginali sono destinate a una progressiva riduzione d’estensione: «y no vemos que ni en la India Mayor, que los de la nación portuguesa han conquistado, ni en lo de las Indias occidentales, se hayan hallado monstruos ningunos; pero en fin se entiende que es verdad lo que está escrito (che cioè esistono mostri); y así, dicen que se han recogido a las montañas y partes que no son habitadas de gentes»788. I mostri marini fuggono se dalle navi risuonano squilli di trombe e colpi di cannone e presso il Capo di Buona Speranza gli esorcismi di un chierico liberarono un galeone dalla minaccia di un «fisiter»789: esorcismo e artiglieria s’alleano nell’assicurare e nel simboleggiare la sempre maggiore egemonia di scienza costumi fede dell’Occidente. E nel corteo dei reietti che si dirigono verso il loro malsicuro esilio in ogni spazio che per un certo tempo si ponga come marginale rispetto agli ambiti civilizzati, Torquemada riconosce gli dei dell’antico politeismo: «en   —461→   nuestros tiempos no se tiene noticia de ninguna provincia donde no esté desterrada esta ley de los dioses antiguos, a lo menos de la manera que la gentilidad antigua la guardaba»790. Quando il processo di «destierro» avesse fatto cadere anche l’ultimo rifugio, gli enti e le forze del mistero sarebbero stati del tutto dissolti e la terra sarebbe stata del tutto «descubierta y sabida»: è questo il meccanismo motorio interno alla visione torquemadiana del viaggio, la quale finisce col configurarsi come una visione -si potrebbe dire- «parateológica» del viaggio in sé e della storia del viaggiare. Se di ciò si cercasse, al di là di ogni induzione, una netta prova testuale, è sufficiente rivolgersi al passo del quinto trattato dove Bernardo pone il quesito dell’esistenza di terre abitate «debajo de las zonas de los polos». Antonio risponde: «Los modernos, muy diferentemente lo tratan, aunque son pocos; porque unas regiones tan ásperas y tan apartadas pocos las han visto ni podido pasar a ellas para descubrir sus particularidades; aunque podremos decir que en ello se cumplió lo que dijo Cristo que ninguna cosa hay encubierta que no venga a ser revelada. Y así, no han faltado gentes curiosas que vengan a procurar y a verificar este secreto»791. Il rimando è indubitabilmente alle parole che Gesù rivolge ai discepoli in Mt. 10, 26: «Ne ergo timueritis eos: Nihil enim est opertum, quod non revelabitur: et ocultum, quod non scietur». Va ricordato che Mt. 10 è capitolo fondamentale per la dottrina missionaria e la missionologia cattoliche: i dodici seguaci di Gesù vi vengono per la prima volta denominati «apostoli» e -inviati in missione nella terra d’Israele- ricevono dal Maestro il potere di cacciare i demoni, guarire le infermità, predicare il Regno di Dio. E una sorta di escatologismo geografico pervade la citata risposta d’Antonio, mentre ai curiosi sembra venir affidato il compito di ulteriori scoperte in vista di un completo svelamento. La peculiarità dell’interpretazione d’Antonio di Mt. 10, 26 spicca in piena evidenza se solo le si dà come sfondo, da un lato, il complesso delle posizioni esegetiche che, nei secoli, commentatori specializzati hanno assunto rispetto al versetto,   —462→   e dall’altro l’insieme sfumato di significati dato dal versetto in questione insieme con i corrispondenti passi sinottici792. In tale accostamento, l’applicazione antoniana della promessa di Cristo denuncia tutta la sua libertà e il suo fin troppo concreto riferirsi a eventi specifici. Ma, del resto, l’«escatologismo geografico» permea sotterraneamente tutto il Jardín fino a sboccare in un ipotetico irraggiamento su scala planetaria nel luogo in cui Antonio afferma che «la Cristiandad va ya rodeando casi todo el mundo [...] y tengo por cosa muy cierta, que en muy poco tiempo todo lo que está descubierto y lo que se descubriere ha de ser cristiano»793. A questo pensiere, però, Torquemada dovette trasalire riflettendo forse sul fatto che la potestas conferita in Mt. 10, 1 agli apostoli avrebbe cacciato gli spiriti immondi, ma anche i folletti e i «trasgos» mattachioni; che sanando infermità avrebbe raddrizzato i piedi degli uomini del monte Milo; che diffondendo la buona novella avrebbe impedito i racconti meravigliosi o fantastici o terrorifici. Predicato dappertutto il Regno di Dio, tenebroso meraviglioso e magico non avrebbero avuto più un regno loro.

Il viaggio assolve, perciò, una funzione di scoperta di cose meravigliose e una di diffusione della verità cristiana: funzioni procedenti in parallelo solo nel momento logico e cronologico del loro svolgimento, mentre assolutezza e universalità del cristianesimo implicavano che la completa attuazione della seconda avrebbe portato con sé la rimozione della possibilità stessa della prima. Unico modo per evitare quest’esito era di rinviare all’infinito il sopraggiungere di questo momento finale, di procrastinare sine die il compimento del processo espansivo-illuminativo in senso escatologico-geografico. Ed è proprio quel che Torquemada fa, attraverso tre argomentazioni: tre colpi d’ala o -se si vuole- di puntuta diabolica coda.

Il primo argomento è esegetico-teologico: Antonio fa appena tempo a dire che tutto lo scoperto e lo scopribile della terra sarebbero   —463→   stati cristiani, che i suoi amici prorompono in un’invettiva contro il luteranesimo che ha spezzato la cristianità e in un «plega a Dios que con todo esto veamos cumplida aquella profecía: Et erit unum ovile, et unus pastor. A ciò Antonio replica che quella profezia non si sarebbe realizzata «sin cumplirse primero lo que de la venida del Anticristo está profetizado, que no sabemos cuándo tendrá Dios por bien que sea»794. Ora, se proiettata dopo la venuta e la sconfitta dell’Anticristo, la realizzazione dell’«unum ovile et unus pastor» non può intendersi nel modo di Luis e Bernardo, como completa diffusione del vangelo nel mondo o come unificazione religiosa e politica di quest’ultimo. L’ora dell’unificazione non potrà essere quella che Acuña vede vicina o già arrivata nel sonetto cui deve quasi esclusivamente la sua fama, ma ricorda piuttosto la «novissima hora» di I Gv. 2,18; l’«unus pastor» non potrà essere un sovrano terreno, ma Cristo stesso e l’«unum ovile» non sarà stabilito «en el suelo», ma sarà dato dall’insieme degli iscritti nel libro della vita e l’unificazione degli uomini sarà rappresentata dal pellegrinaggio escatologico di re e nazioni verso quella Gerusalemme celeste da cui saranno tenuti fuori tanti abitanti e frequentatori del Jardín: «foris canes et venefici et impudici et homicidae et idolis servientes et omnis qui amat et facit mendacium»795. Con ciò un escatologismo più puro e corretto vien fatto prevalere su quello acuñescamente immanentizzato di Luis e Bernardo, ma anche su quello geografico precedentemente esposto da Antonio stesso, per cui quest’ultimo riesce ad assicurare -implicitamente ma necessariamente- ai suoi amici esseri mitici un indefinito periodo di sopravvivenza.

Il secondo argomento può definirsi esoterico-sapienziale. Spesse volte uno o l’altro dei tre dialoganti del giardino si augura che qualcuno si rechi in qualche regione e verifichi una notizia o ne porti di nuove, ma nessuno dei tre si propone mai di partire egli stesso, né mai lascia trasparire rassegnazione o stizza per il proprio dichiarato non poter andare per il mondo: anzi, lo star   —464→   fermi appare voluto796. Inoltre, in certe occasioni i tre si esortano a rispettare una sorta di esoterismo dei curiosi, per cui chi è a conoscenza di cose curiose non può riferirne se non ad altri curiosi, astenendosi dal farlo col volgo797. In un punto, infine, Antonio giunge ad adombrare il significato sapienziale della non necessità e della proibizione del viaggio: gli abitanti della Botnia e della Biarmia settentrionali e di regioni al di là dei monti Iperborei non escono mai dalle loro terre felici «porque las gentes que viven sin ninguna necesidad no tienen para qué ir a buscar otras provincias y tierras adonde se vean en ella», e per l’identica ragione «en el reino de la China a los que de él salían a otras partes, por leyes era prohibido volver a entrar en él, diciendo que no eran dignos de tornar a entrar en tan buena tierra los que por su voluntad la dejaban, yendo a buscar otra»798. La paura della nemesi del viaggiatore -per cui chi racconta di cose meravigliose ne compromette per ciò stesso l’incanto e perfino l’esistenza- spiega l’invito a mantenere per e fra pochi certe notizie. L’esoterismo dei curiosi, infine, si pone come implicito annullamento del ruolo attribuito ai curiosi nel processo di totale scoprimento ed evangelizzazione del mondo, e quindi come fattore raffrenante dell’attuarsi di tale processo. E da quell’idea di terre felici da cui non valeva la pena di andarsene, che si sarebbe dobuto dedurre riguardo all’Europa, terra di partenza di viaggiatori e missionari, centro di irradiazione della «policía» e della vera fede, se non che la necessità di viaggiare presuppone qualche scompeso e insuficienza cui si tenta di porre rimedio? E’ vero che Antonio assicura che gli abitanti della Botnia settentrionale sono fedeli cristiani e stretti osservanti delle leggi morali: ma il periodare di Torquemada è qui non poco confuso e di chiaro c’è solo il tentativo di attutire in extremis le troppo rischiose conseguenze di quanto in precedenza esposto.

Il terzo argomento, dopo uno stacco ironico, si articola in   —465→   una componente storico-geografica e in una filosofica. Luis riferisce che stando ai geografi moderni «toda la redondez de la Tierra y del agua» non supera le 6000 leghe; che di queste ne sono state scoperte -da Oriente a Occidente- 4350, per cui ne rimarreberro non scoperte solo 1650. A coloro che «quieren medir el mundo de esa manera» -replica Antonio- ci si puo’ rivolgere con la stessa frase con cui un ragazzo apostrofò quelli che volevano dividere il mondo tra il re di Castiglia e il re di Portogallo: il ragazzo «alzó las faldas, y mostrándoles el trasero, les dijo voces, diciendo: Si habéis de dividir el mundo por medio, echa por aquí la raya». L’aneddoto stabilisce un’irriverente equiparazione tra la «raya» di Tordesillas e, per estensione implicita, quella della bolla di Alessandro VI con la «raya» deretanesca e mette in luce la considerazione di Torquemada per tali atti di spartizione e razionalizzazione delle terre per ultime sottratte all’ignoto.

Dopo questo inizio che, a dire il vero, è attenuativo definire ironico, Antonio prosegue dicendo che, anche se si potesse stabilire che la longitudine della terra -«tomando el camino por medio de la Equinoccial»- assommi alle 6000 leghe di Luis, «mal se podría acabar de descubrir lo mucho que queda por unas partes y por otras, en una cosa tan grande como es el mundo, que en un rinconcillo pueden quedar encubiertos muchos millares de leguas y tierra, que, si las viésemos, nos parecería ser otro Nuevo Mundo». E’ che l’ipotesi prospettata da Luis è animata dalla stessa ottimistica erroneità che aveva indotto Martin Behaim, Paolo del Pozzo Toscanelli e Colombo a valutare riduttivisticamente la parte sconosciuta del globo compresa tra i punti estremi della parte nota. E’ in forza di tale rimando che la replica di Antonio dimostra tutto il suo potere di smentita: in ogni angolo di mondo al di sopra e al di sotto della linea equinoziale si può all’improvviso incontrare un mondo fino a quel momento sconosciuto, che con diretto accenno al caso toccato a Colombo vien detto «otro Nuevo mundo»: ciò che può pensarsi como extremamente piccolo (rinconcillo) può in realtà contenere l’estremamente grande e la vicenda occorsa al navigatore genovese si trasforma in possibilità sempre ripetibile e, quindi, sempre minacciante la pretesa a una completa conoscenza della terra.

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L’interloquire di Bernardo -che chiede da che parte la nave «Victoria» avesse potuto dare «una vuelta redonda a todo el mundo» in modo da totalizzare 14.000 leghe di navigazione- segna il passaggio alla seconda componente di questo terzo argomento. Antonio risponde: «Uno que hubiese andado todo el mundo por unas partes y por otras podría responder bien a esa pregunta, teniendo también noticia de los caminos y rodeos que esa nao hizo, hasta atinar a dar esa vuelta que decís; pero yo os diré lo que entiendo, y es que toméis un cuerpo redondo, y comenzad con una punta de una aguja a dar vueltas alrededor de él, y hallaréis tantas que os cansarán, y cuanto mayor fuere, mayores y más serán las vueltas por un cabo y por otro. Y así, las que se pueden dar en el mundo son tantas, que se pueden tener por infinitas o casi; y de esta manera, aunque la nao Victoria rodease el mundo por una parte, quedan tantas por donde podría rodearse, que pensar en ello confunde el entendimiento de los hombres»799.

L’importanza della citazione ne scusa la lunghezza. Il rimettere la possibilità di conoscere i «caminos y rodeos» della «Victoria» a chi avesse percorso «todo el mundo por unas partes y por otras» equivale a subordinarla a una condizione impossibile. Ma per quanto elusa nella sostanza, la domanda di Bernardo dà modo ad Antonio di introdurre una vera e propria aporia filosofica. Nell’esempio del corpo rotondo e dell’ago vengono combinati due processi entrambi tendenti all’infinito: da un lato, un’infinita divisibilità di grandezza, per cui divisibile all’infinito è la superficie del corpo rotondo secondo i giri descritti dall’ago; dall’altro, un’infinita addizionabilità di numero -ove il numero numera oggetti reali-, per cui addizionabili all’infinito sono i giri che l’ago può descrivere intorno al corpo rotondo. Il secondo processo non è che l’inverso del primo. Vengono poi stabilite due equivalenze che permettono di traslare il ragionamento del piano astratto a quello concreto: al corpo rotondo viene equiparata la terra e al giro dell’ago intorno a esso viene equiparata la rotta di circumnavigazione della «Victoria» considerata linearmente,   —467→   prescindendo cioè dai vari «caminos y rodeos». In tal modo, di fronte all’infinita divisibilità della curvatura terrestre secondo il tracciato di infinite linee circolari rappresentanti le possibili rotte o, più in generale, le possibili direttrici di movimento, la mente umana subisce -per Antonio- un trasecolamento, una sensazione di fulminante vertigine, nel rendersi all’improvviso conto che, in ogni progresso all’infinito, il limite cui il pensiero a un certo punto si è spinto ritenendolo estremo e comprensivo di tutti i precedenti va invece superato in quanto non definitivo, in quanto -portatosi su di esso- il pensiero può ancora concepire un «plus ultra». Non è certo la possibilità del movimento, del viaggio, che Antonio vuol negare: quel che intende escludere è la capacità del pensiero di concepire in modo attuale il numero sempre accrescibile di giri secondo cui dividere e coprire l’intera superficie del globo: si tratta di un processo di infinito potenziale che il pensiero non può afferrare e ciò che ne deriva è l’improponibilità in ambito filosofico dell’idea del compimento di una completa esplorazione e scoperta del globo. Paradossalmente, il concetto d’infinito serve a Torquemada per trattenere lo slancio esplorativo, per giustificare il non muoversi, per affermare il senso del limite.




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Il sentimento dell’ambivalenza del viaggio, il rinvio alla fine dei tempi del compimento di conoscenza e cristianizzazione della terra, il non desiderio di partire si rinsaldano e quasi indistinguibilmente si intrecciano con i limiti che per ogni parte racchiudono le direttrici metodologiche e -lato sensu- gnoseologiche del giardino. Continuo è nel dialogo il salto di argomento in argomento e di citazione in citazione, con la riserva di riprendere la questione appena abbandonata in un momento successivo che non viene mai o con il demandarla alla competenza di mai precisati teologi, filosofi, saggio o all’autorità suprema della natura o di Dio. Il limite è qui limite fisso e vien posto per rispettarlo. Il passaggio a un nuovo prodigioso caso scusa e copre l’astenersi   —468→   dall’indagine approfondita di quello immediatamente precedente, a se fra i due c’è una certa omogeneità il nuovo vien presentato come prova del caso precedente800. L’incessante saltellio tra notizie e richiami disegna una fittissima rete cui corrisponde un articolarsi delle fonti di provenienza delle informazioni che si modella su quella dei sensi, per cui in ordine di importanza e certezza viene prima il «visto» e quindi il «leído» e l’«oído»: «y si es verdad lo que se halla escrito» -assicura Bernardo a Luis a proposito delle donne trasformatesi in uomini- «también será lo mismo en lo que decís que os dijeron»801. Ma il «venir prima» dell’aver visto rispetto all’aver letto e all’aver ascoltato non si irrigidisce in una disposizione gerarchica, nemmeno nella prospettiva del rapporto privilegiato che tra il senso visivo e la conoscenza e, quindi, la meraviglia è stato fin da Aristotele teorizzato. In Torquemada c’è piuttosto la ricomprensione dei tramiti indiretti d’informazione (lo scritto, il racconto) nell’ambito d’immediatta certezza proprio del vedere; il tramandamento orale o scritto «fa vedere» direttamente il fatto che è suo oggetto in un processo in cui s’annulla la soggettività della mediazione di chi ha scritto o raccontato. Tornano in mente le parole di Louis Lambert riprese da Todorov: «i cinque sensi che poi sono un solo senso: la facoltà di vedere»802.

L’anelito conoscitivo che spira nel Jardín è un desiderio di sapere senza volontà di spiegare il saputo, per cui si rinuncia in ogni istante a esami e dimostrazioni ulteriori, all’«oír» al «leer» e persino al «ver» ulteriormente se questi minacciano di trasformarsi da canali di adduzione di sempre nuovi casi prodigiosi in principio di trattazione esaustiva di un caso determinato803. Tutto è possibile al mondo, che è così grande che quel che non c’è da   —469→   una parte può trovarsi in un’altra e il giardino è solo una cifra: «lo hondo y último de lo secreto» delle cose rimarrà sempre affascinantemente insondato per coloro che come i tre amici sanno di non aver «todo de apurar ni llevar al cabo»804.

Se, dunque, il rispetto di questi molteplici limiti preserva l’integrità del giardino, nemmeno il principio d’autorità poteva ricevervi applicazione e valore assoluti. Riguardo alla localizzazione del Paradiso Terrestre, dopo lungo esame a affastellamento di pareri, Antonio si scosta da ogni autorità patristica e teologica citata e introduce la propria opinione, conformandosi «en parte con la opinión de Eugubino y de otros que la siguen»: il ricondurre la questione a sé stessi, dopo aver scomodato nomi impegnativi, significa riaprirla proprio nel momento in cui sembra di esser arrivati a chiuderla, e col citare Steuco Eugebino si resiste al principio d’autorità servendosene, ossia cambiando autorità. A proposito dei discordi pareri sull’influenza o meno degli astri sui mali che colpiscono la terra, Antonio dice agli amici: «vosotros podréis inclinaros a la parte que mejor os pareciere»: qui l’ambiguità si colora leggermente di perfidia: dopo più di quarenta pagine su fato e fortuna, l’invito a giudicare nel modo che si è «inclinate» a ritenere migliore mostra dietro al significato immediato -giudicare secondo la propensione individuale- un malizioso significato astrologico: giudicare nel modo in cui dalle stelle si è stati inclinati e l’intera questione astrologica viene riaperta proprio nel momento della sua conclusione805.

C’è un solo argomento nel Jardín a venir trattato con definitività di conlusioni e sistematicità di procedimento: le religioni non cristiane. A loro riguardo l’argomentare è serrato, spedito, senza rinvii e il passaggio con cui si lascia quanto sui musulmani per quel che si dice sui giudei non è uno dei tantissimi cambiamenti d’argomento dispensanti da un appuramento ulteriore, ma è l’abbandono di una questione datta nell’essenziale per risolta mediante la definitività di una condanna: si passa ai giudei «a   —470→   moro muerto»806. Questa parte finale del secondo trattato, nella quale un inconsueto rigore di metodo s’accompagna a un’altrettanto insolita drasticità di giudizio, fa pensare a un cuneo premuto tra la mitica classicità della parte rimanente del trattato e la demonocità dell’inizio del trattato seguente, quasi a rammemorare come l’assolutezza monoteistica facesse degenerare il mitico in diabolico. Né questo è il solo luogo in cui elementi religiosi e morali in senso stretto fanno da catalizzatori o quanto meno da compagnia a un processo che, dal punto di vista del meraviglioso, non può che considerarsi negativo: dall’evocazione con pochi luminosi e vividi tratti della Biarmia e Botnia settentrionali si scende alla circostanziata descrizione di caratteristiche attività e leggi della città di Torna i cui abitanti «guardan la ley cristiana con tanto cuidado, que aborrecen al que saben que peca mortalmente: porque son enemigos de vicios y amigos de la virtud y verdad»807. Precettistica morale e religiosa, legislazione e minute disposizioni di vita ci avvicinano alle razionalmente regolamentate città delle utopie, per quanto ci allontanano dalle isole e terre felici, sempre sfumate nella loro apparenza e sfumanti nei loro contorni e confini.

Neanche i più celebri filosofi teologi e padri son quindi per Torquemada autorità in assoluto autorevoli: chiede loro notizie e appoggi, non spiegazioni finali. Del resto, al di là di ogni richiamo a libro o giudizio di uomo, alla base del giardino c’è il fondamento ultimo e inesauribile da cui ogni cosa meravigliosa s’origina: la natura. Ma cosa sono natura e meraviglioso nell’opera di Torquemada?

Antonio, in base al criterio per cui «todo lo que trataremos ha de ser cristianamente», s’appella alla peregrina autorità di Levino Lenio per il quale: «Naturaleza no es otra cosa sino la voluntad o razón divina, causadora de todas las cosas engendradas, y conservadora de ellas, después que se engendran, conforme a   —471→   las calidades de cada una»808. Di seguito, Antonio sorvola la distinzione di natura naturans e naturata per poter «mirar el fundamento de donde todo procede, que es Dios» ed esalta la meravigliosità del mondo e del quotidiano: anche le cose cui l’uomo è più abituato sono meravigliose e se tali non gli appaiono è per la sua incapacità di penetrarne i segreti e per l’incontro quotidiano con esse. La meraviglia è quindi provocata da ciò che ci appare per la prima volta, ma il meraviglioso stesso va a inserirsi in un ordine globale in cui è già situato il quotidiano e cui vien ricondotto colui stesso che si meraviglia. Tale ordine, in cui il quotidiano si riconsacra nella sua essenziale prodigiosità e il meraviglioso va a inserirsi come caso nuovo, ma non fortuito e abnorme, tale ordine non è poi altro che quello di una natura non scissa dal divino. A questo punto, rimaneva il problema dell’introduzione in quest’ordine della miracolistica cristiana, di quel «sobrenatural y cosa milagrosa» di cui Antonio parla in riferimento al caso del morto resuscitato, del muto che giunge a parlare, del cieco che arriva a vedere. La soluzione viene raggiunta attraverso una precisazione terminologica: si dice che eccedono «la orden común de naturaleza» le cose che «la naturaleza, o, por mejor decir, el mismo Dios» compie raramente e che «por la grandeza de ellas las llamamos milagros, que quiere decir cosa de maravilla y sobranaturales». Il miracolo diventa così il meraviglioso accentuato e raro: ciò che chiamiamo «sovrannaturale» si distingue da ciò che chiamiamo «naturale» per una differenza di grado d’intensità e di frequenza di meravigliosità, non per una differenza di essenze e di piani. Il miracolo non ha più bisogno di un mondo sdivinizzato nel quale irrompere al termine del suo provenire da un altro mondo con tutto il suo potere di sbalordimento e persuasione. Il miracolo non è in Torquemada l’unica forma di meraviglioso in cui si possa credere senza commettere peccato, tanto che   —472→   si può credere che anatre e oche nascano da certi alberi e tante altre cose «sin pecar en ella»809. Solo nel grado d’intensità e per le diverse frequence dei loro rapporti con l’uomo, si distinguono la meravigliosità del quotidiano, quella del nuovo, quella del miracoloso. E quanto al mostruoso, anche la sua possibilità si radica nell’onnipotenza della natura che rinvia, per Torquemada, all’onnipotenza divina: così Dio viene posto a garanzia della possibilità di un rapporto fecondo tra un «hombre marino» e una «mujer racional». Va infine notata la difficoltà, in un’opera como el Jardín, di mantenere distinta la natura come intelligenza e volontà divine e come causa e principio delle cose dalla natura come insieme delle cose stesse: contenuti e spirito animatore dell’opera, certe espressioni di sapore emanatistico e panteistico o in cui appare riaffiorare l’idea della disintegrazione e del ricominciamento ciclici del cosmo, la riduzione a livello verbalistico-formale della distinzione di naturale e sovrannaturale non sono certo d’ausilio nell’evitare un esito panteistico810.

A questo punto, la considerazione dei caratteri strutturali, contenutistici e metodologici del Jardín impone e permette a un tempo di tentare una definizione diretta e in positivo dell’autore. Non si tratta certo di applicare a Torquemada qualcuna delle categorie in uso alla storiografia ordinaria: e per tenersi lontano da tale rischio è opportuno valersi -dopo essersi dedicati a una lettura non-mediata del Jardín- dello studio di Allegra, che è adattissimo a far saltare schemi e staffe della storiografia ufficiale811. Se è vero che l’uomo del mito e della magia tende a sgravarsi del tempo e della storia per riattingere l’archetipico -e in tal senso si veda nel Jardín l’episodio del «mariscal Pero Pardo»812-, lo è altrettanto che chi si fa della mentalità di quell’uomo studioso deve sgravarsi delle consuete periodizzazioni storiografiche e delle invalse caratterizzazioni dei periodi storici che esse pretendono di delimitare. Si può così tentare di pervenire al nucleo caratterizzante,   —473→   a un tempo, attitudine mentale e procedimenti metodologici di Torquemada.

La forma dialogica del trattato, il ruolo predominante che vi svolge Antonio come principale fonte informativa la cui copiosità adduce le notizie e i pareri dei tanti autori citati, la continua adduzione di nuovi elementi senza mai voler risalire -per alcuno di essi- l’intera serie dei nessi causali, il fatto che nessuna argomentazione logica o controprova fattuale possa infirmare quel che uno ha visto o raccontato o scrito, tutto questo è segno di un primato del tramandato, di una supremazia del racconto per cui una teorizzazione mirante ad analizzare e vagliare quanto raccontato viene sempre impedita dal sopraggiungere di un nuovo racconto. A tale predominio del racconto sull’analisi corrisponde -come aspetto complementare in cui si manifesta la stessa disposizione mentale- un rivolgersi dello sguardo dei curiosi per ogni dove, sguardo che si apre e accoglie ogni cosa che lo colpisca d’incanto, ma che se ne ritrae e passa ad altro prima di essere tentato di farsi troppo acuto e indagatore. Nei metodi, nell’impostazione, nella disposizione verso il meraviglioso il Jardín risponde ancora a quelle due costanti del pensiero mitico-magico che sono state difinite come primato della narrazione e metodo delle visioni parziali o dell’epistrophé813. L’inscindibile connessione di narrazioni e visioni parziali fa si che all’interno del Jardín attecchisca solo l’albero di un tipo di conoscenza che non è quella per causas propria del predominante pensiero filosofico e del pensiero scientifico.

Si può così tentare, nei confronta di Torquemada, un’ultima e decisiva approssimazione. Non filosofo, non teologo, non propriamente letterato, non specialista in alcun ben determinato settore dello scibile, troppo poco curante della precisione erudita per esser detto mitografo, se non in senso ingenuo e popolare, troppo poco analitico e teorizzatore per potersi considerare un mitologo, mentre la definizione di «umanista» rimarrebbe superficialmente   —474→   e ordinariamente descrittiva, come si potrebbe tradurre in termini teorici appropriati quel «curioso» con cui Torquemada avrebbe semplicemente e splendidamente designato sé stesso? Nel proporre di recuperare per lui il termine e il concetto di «filomita», nulla ci è più estraneo che l’intento di fornire una definizione con più adeguato e comprensivo potere classificatorio, la quale in fin dei conti non farebbe altro che predisporre una casella in più e infilarvi dentro il buon Torquemada. Del resto, dall’incappare, nostro malgrado, in tale esito contribuisce a preservarci il fatto che di quel termine e concetto la storiografia ordinaria s’è già da tempo e con buona coscienza dimenticata.

Amante delle narrazioni mitiche e fantastiche che non si preoccupa troppo di ricostruirle con esattezza d’erudizione, né di coonestarle con risolutive prove fattuali, e tanto meno di spiegarle e di scoprirvi significati razionali, il Torquemada del Jardín ci trasporta in luoghi e atmosfere dove regnano una consapevolezza volutamente incompleta, il piacere e il culto della meraviglia intesa sia come cosa meravigliosa sia come ciò che si prova di fronte a essa, il ritrarsi dalla tentazione di una conoscenza che voglia risalire di causa in causa fino all’ultima, il senso del limite che va rispettato nell’accostarsi al meraviglioso e al sacro che costituiscono, in definitiva, la medesima cosa. Per tutto quanto esposto merita di riprendere per Torquemada quella parola antica troppo presto e forse non per caso dimenticata. Se a quella futura storia del meraviglioso di cui ha parlato Le Goff s’affiancherà una filosofia del meraviglioso, uno dei suoi principali punti sarà quello in cui andranno considerati la vicenda e l’oblio di quel termine. E a tal fine, la prima questione sarà di vedere se gli apparentemente rispettosi accenni aristotelici al filomita non ne abbiano, in realtà, consumato l’assassinio e l’affossamento filosofici814. In tal caso, la cancellazione dal pensiero e dal vocabolario correnti dei   —475→   termini e concetti di «filomita» e «filomitia» sarebbe doppiamente filosofica: da un lato, perché rappresenterebbe un evento da non più trascurarsi del proceso di sviluppo del pensiero occidentale; dall’altro, perché sarebbe stata la filosofia, o quanto meno un filosofo a provocarla.

Per ora, sulla fossa in cui il filomita dorme il suo sonno di secoli, si possono almeno sostituire alle parole di Aristotele -che forse per il filomita hanno rappresentato affossamento, commemorazione ed epitaffio- quelle che William Hamilton riprende da un anch’egli «forgotten» ma «acute philosopher»: «Magna, immo maxima pars sapientiae est, quaedam aequo animo nescire velle»815.